È circolato nei giorni scorsi un articolo intitolato “La prima donna laureata al mondo, a Padova, ci ricorda quanto è antica la questione femminile”, che pone un altro dei tanti temi ciclici della grande menzogna femminista: le donne, a causa dell’oppressione patriarcale, per secoli non hanno potuto laurearsi e studiare, privilegio concesso soltanto agli odiati “maski”. Sono titoli e articoli come quello che inducono i lettori poco avveduti e poco acculturati a immaginare la vita universitaria antica come quella attuale, con studenti e studentesse che vanno allo sportello “informagiovani”, scelgono la facoltà, pagano le tasse, ottengono il libretto, vanno a lezione con i loro zainetti pieni di libri, quablock, penne ed evidenziatori, seguono il percorso didattico, danno gli esami, si laureano, indossano la corona di alloro e così via. Unica concessione alla storicizzazione, in questa versione macchiettistica, è l’assenza di computer, sostituiti dalle pergamene, della luce elettrica, sostituita dalle candele, e di altre comodità tipiche dell’era moderna. Per il resto quello che si cerca di far credere è che l’università del passato fosse identica a quella di oggi e che le donne ne fossero escluse per volontà congiurata degli uomini, timorosi di essere surclassati dal “gentil sesso”. Naturalmente è tutto falso. Ed è una falsità che viene imposta proprio grazie alla mancanza di storicizzazione della questione, ovvero facendo leva sull’ignoranza dei più rispetto ai fatti storici. Ricostruiamo dunque la realtà delle cose, grazie anche alle fonti segnalate da Ettore Panella, un nostro lettore e cultore di storia.
E dunque cos’erano queste università da cui le donne erano tenute fuori dal maschio oppressore? Non istituzioni come le conosciamo oggi, ma, a partire dal XII secolo, associazioni libere fondate e governate dagli studenti, che reclutavano gli insegnanti a seconda di ciò che volevano imparare. In quanto “datori di lavoro” avevano anche il potere di licenziare i docenti e di imporre loro una specifica condotta di vita tramite l’imposizione di un codice etico. Si trattava di un mondo turbolento, spesso legato a doppio filo con i poteri dell’epoca (quello civile e quello religioso) da cui otteneva privilegi e protezioni. Questo perché la presenza di quelle associazioni nelle città (le prime furono Reims, Chartres, Parigi in Francia; Salerno e Bologna in Italia) garantiva ampi giri d’affari: gli studenti in arrivo da ogni parte d’Europa avevano bisogno di vitto, alloggio e altro, il tutto a vantaggio dell’economia locale. Non sempre si trattava di giovani ricchi, però, che anzi erano la minoranza: molti erano di umile condizione e si mantenevano facendo lavoretti qua e là. Questa massa di persone non aveva un luogo fisso dove raccogliersi a far lezioni, che non di rado si tenevano all’aperto e questo durò finché, nel 1180, un borghese inglese di nome Josse, impressionato da quanti studenti poveri vivessero per strada, sovvenzionò a Parigi un collegio con alcuni posti letto. La pratica si diffuse in altre città e in breve i collegi divennero non solo il posto dove gli studenti pernottavano, ma anche dove si teneva lezione. La Sorbona di Parigi inizialmente fu proprio un dormitorio.
Studenti con il coltello a portata di mano.
Si è detto che quello studentesco era un mondo turbolento, in molti casi sancito come tale dalla legge. Agli studenti era riconosciuto ad esempio il diritto di sciopero ed essi ne faranno uso più di una volta. Non solo: gli studenti erano conosciuti per essere battaglieri, rissosi e armati. Le risse tra di loro sono frequenti, spesso innescate da rivalità nazionalistiche. Per dire: il re di Francia Filippo Augusto fece notare un giorno che gli studenti «sono più audaci dei cavalieri: i cavalieri, in effetti, si coprono con le armature, mentre i chierici (gli studenti), senza armatura e senza elmo, con la testa tonsurata, combattono a colpi di coltello». Un giorno, nel 1192, avvenne una gigantesca rissa tra gli studenti e gli abitanti del borgo parigino di Saint-Germain-des-Prés. I primi ebbero la meglio e l’autorità riconobbe a loro la proprietà del luogo dove era avvenuto lo scontro, che ancora oggi si chiama Pré-aux-Clercs (“Campo dei Chierici”). Non solo: gli studenti universitari erano noti (grazie al cielo non tutti) per passare molto tempo nelle taverne a bere, giocare d’azzardo, azzuffarsi in risse e frequentare donne. In poche parole: è storicamente riconosciuto che queste associazioni di studenti che noi oggi identifichiamo come “Università” fossero in realtà delle bolge dove nessun padre dotato di intelletto avrebbe mai mandato una figlia. Non per opprimere il suo talento, ma per preservarla da luoghi sì, di studio, ma per loro natura brutali. Di fatto, una donna in prima persona avrebbe rifiutato di unirsi a quelle masnade di selvaggi.
Dunque, si dirà, in sostanza è vero che le donne non potevano studiare per colpa degli uomini e della loro brutalità. Anche se era una brutalità esercitata tra maschi e non esplicitamente contro le donne, implicitamente la sua esistenza “teneva lontane” le donne dalla possibilità di studiare. No, è falso pure questo. Semplicemente alle donne si riservavano situazioni di studio assai più tranquille, quali l’istruzione privata (insegnanti direttamente a casa) o quella offerta dagli istituti religiosi. E con ciò non solo le donne potevano accedere agli studi, ma addirittura eccellere così tanto nelle loro materie d’elezione da diventare docenti stimatissime e ricercate dalle associazioni di studenti di cui si è detto sopra. Un esempio tra i molti, guarda caso mai citato dalle femministe, è Rotula (o Trotula) De Ruggiero, medico italiano attiva nientemeno che nell’XI secolo presso la scuola medica di Salerno, autrice di saggi scientifici sulla maternità che furono un riferimento accademico per secoli. Alla facciazza del patriarcato, insomma… Bastano questi pochi cenni storici per dimostrare che chi dice che le donne non frequentassero le università o non avessero accesso all’istruzione semplicemente non conosce la storia o è in totale malafede. Entrambe sono valide per chi spaccia i postulati farlocchi del femminismo. Che su questo versante mente sotto il profilo istituzionale, come si è detto, negando un fatto storico accertato: le donne hanno cominciato a studiare in gran numero solo quando l’istruzione è diventata un diritto di massa non legato ad alcun criterio di censo o alla contropartita di qualche tipo di dovere gravoso. Prima di ciò, studiavano eccome, ma solo quelle ricche e solo in condizioni comode e sicure, mentre gli uomini dovevano fare lavoretti per mantenersi agli studi, pernottare nei dormitori-topaie e tenere il coltello a portata di mano.
Quella cosa risibile e ridicola denominata “patriarcato storico”.
La mistificazione femminista però agisce, su questo argomento, anche sotto il profilo puramente umano. E l’esempio è proprio Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, quella “prima donna laureata al mondo” cui fa riferimento l’articolo che abbiamo citato all’inizio (per altro che sia stata “la prima” è falso, come fa notare la Wikipedia). La Piscopia si laureò in filosofia all’università di Padova nel 1678. A quell’epoca le università erano un po’ più ordinate che nei secoli precedenti e questo consentiva anche alle donne di accedervi. La mitologia femminista, nel corso del tempo, si è appropriata di questa studiosa (come della più antica Ipazia, per altro), trasformandola in un simbolo di diritto all’accesso paritario all’istruzione, di uguaglianza dei diritti e di dignità. E ha condotto questa operazione di mistificazione a dispetto di ciò che la Piscopia era e della sua biografia. Fin da bambina aveva mostrato una profonda capacità introspettiva e un’intelligenza brillantissima, che poté coltivare grazie a una fornitissima biblioteca di famiglia e ai contatti del padre con i più illustri eruditi del tempo. Suo padre era un nobile, il veneziano Giovanni Battista Cornaro, che la concepì però con una donna di umilissimi condizioni. In questi termini, Piscopia (e i suoi fratelli con lei) rischiava di non poter vantare la schiatta nobile necessaria a coltivare le proprie ambizioni di studio. Perché è certo che nel passato ci fossero discriminazioni, ma non tra uomini e donne, come sostengono le invasate femministe, bensì tra ricchi e poveri, potenti e miserabili, nobili e plebei. Per questo il padre spese cifre da capogiro per elevare tutti i suoi figli, inclusa Piscopia, al rango della nobiltà. Così le straordinarie doti di studiosa della figlia diventarono ben presto un orgoglio e un vanto per Giovanni Battista, che vedeva nella figlia l’incarnarsi di valori di superiore nobiltà, quella intellettuale. La incoraggiò a coltivare le sue doti, seguendola dapprima negli studi e affidandola poi alla guida dei più importanti maestri dell’epoca. Strano: secondo la versione femminista avrebbe dovuto chiuderla in casa, frustarla e darla forzosamente in sposa a qualcuno… Qualcosa non torna in questa figura di donna sostenuta dal padre tanto da portarla a eccellere nella conoscenza del latino, del greco, dell’aramaico, dello spagnolo, del francese, dell’arabo, della musica, dell’eloquenza, della dialettica e della filosofia.
Non è finita qui, però. C’è ancora qualcosa che la mitologia femminista omette di raccontare, quando fa il suo piagnisteo sulle donne e lo studio strumentalizzando la Piscopia: la sua profonda aspirazione mistica. Tra i vari talenti mostrò infatti fin da subito un’autentica vocazione religiosa: divenne oblata benedettina all’età di 19 anni, fece voto di castità e assunse il nome di Scolastica. Non a caso, oltre che osannata in modo mistificato dalle femministe, Piscopia è molto più genuinamente esaltata in diverse agiografie successive alla sua morte. Ebbe in effetti uno scontro con un aspetto patriarcale della sua epoca, tuttavia, e fu quando volle laurearsi in teologia. L’allora vescovo di Padova, Gregorio Barbarigo, però si oppose, sostenendo che fosse «uno sproposito dottorar una donna» e che sarebbe stato un «renderci ridicoli a tutto il mondo». A riprova che, se scampoli di patriarcato nella storia ci sono stati, essi nella gran parte dei casi hanno riguardato in mondo ecclesiastico e non quello laico o civile. Fu per questo diniego che Piscopia si laureò in filosofia e non in teologia. E tuttavia la santità della sua vita e l’indispensabile e partecipato contributo di suo padre sono aspetti che vengono tenuti ben nascosti dalla mitologia femminista che, come si è visto per la toponomastica, è allergica alle donne di religione, considerate di serie B. Figuriamoci poi una che fa voto di castità, ossia decide di non utilizzare mai l’arma femminile per antonomasia… A ben vedere la Piscopia rischia di essere una vera “ancella del patriarcato”, come le femministe definiscono le donne non femministe. Ecco perché la storia di Piscopia viene raccontata a metà, debitamente mistificata. A raccontarla tutta il femminismo rischierebbe di dimostrare come infondato il postulato che vuole imporre, cioè quella cosa risibile e ridicola denominata “patriarcato storico”.