Le vicende afghane occupano ovviamente le prime pagine di ogni testata televisiva, cartacea e online. Mi astengo dall’analisi politica e osservo, come spesso mi capita, le strumentalizzazioni che ne vengono fatte. Ciò che emerge, a mio personale e contestabilissimo parere, è una deriva ormai usata e abusata a livello sia nazionale che internazionale, lo slittamento inesorabile verso la solita stucchevole lettura gender oriented. Il dramma afghano, secondo analisti molto più raffinati di me, testimonia il fallimento statunitense di stabilizzazione dell’area e di “esportazione della democrazia” (quanto piace agli Yankee sentirsi gli sceriffi del mondo!) e parla di una nazione usurpata a colpi di AK-47, dell’insediamento di un regime oscurantista, arrogante, vendicativo e violento, dell’epurazione di chiunque abbia collaborato a qualunque titolo con gli infedeli che sono tornati ad essere il “nemico occidentale”, di centinaia di migliaia di profughi che tentano e tenteranno di fuggire, di equilibri geopolitici instabili, di Cina e Russia pronte a approfittare della situazione subentrando al vuoto lasciato dagli USA, di giochi di potere finalizzati a stabilire alleanze politiche – quindi economiche e militari – con i nuovi padroni. Ma in tutto questo il problema maggiore qual è? La condizione delle donne afghane.
Le donne afghane in pericolo, le donne afghane oppresse e discriminate, il passo indietro nella conquista dei diritti per le donne afghane, la necessità urgente di salvare le donne afghane. Alla fine, quando e se ci sarà una fine, si conteranno i morti e nessuno si straccerà le vesti se gli uomini uccisi saranno 30 o 40 volte più numerosi delle donne, se i dissidenti politici arrestati, torturati e scomparsi saranno più dei desaparecidos argentini, se i contestatori del regime talebano verranno rastrellati casa per casa o moriranno nelle piazze abbozzando una patetica resistenza al posto di quell’esercito che ha fatto finta di essere un esercito. Lo standard delle notizie date dai professionisti dell’informazione, ampiamente rodato con le carrette del mare naufragate nel Mediterraneo, è «100 morti, tra i quali 5 donne». Quel 5 donne è la notizia che deve far indignare i lettori, in fondo gli altri 95 non interessano un granché: poco importa che siano profughi tunisini, etiopi e siriani annegati o in questo caso afghani assassinati, ciò che li rende invisibili è l’essere uomini. Quindi sacrificabili. Tornando alle vicende di Kabul, le contromisure occidentali non si fanno attendere: mentre negli USA volano gli stracci e la popolarità di Biden tende allo zerovirgola, in Europa i leader siamo noi: “corridoi umanitari selettivi”. Ovvero: gli uomini se la sbrighino da soli, l’importante è attivarsi per donne e bambini. Lanciata da Luisa Castellazzo, assessore alla cultura di Cellatica (BS) e dal Gruppo Donne 22 Febbraio, la petizione ha totalizzato un numero record di adesioni e ha registrato l’immediato appoggio ministeriale.
Anche le regioni si muovono e da destra a sinistra il filo conduttore è lo stesso, anche se con motivazioni diverse: donne si, uomini no.
Disturba un po’ che insieme alle donne si salvino anche i vermi.
È curioso come la discriminazione antimaschile venga sdoganata dal buonismo a senso unico e sia diventata una medaglia da appuntare sul petto esibendola orgogliosamente. Dall’impegno unidirezionale sortisce un incontestabile effetto: ignorare gli uomini afghani per preservare le donne dalle possibili persecuzioni dei talebani. Non fa una piega, vero? Peccato che i talebani non siano aggressivi, prevaricatori e violenti solo con le donne, anzi… La resa dei conti di regime ha come obiettivo chiunque nei 20 anni di aiuti internazionali abbia lavorato con gli infedeli occidentali, quindi prevalentemente uomini. Oppure chiunque manifesti dissenso nelle piazze, ancora prevalentemente uomini. La violenza talebana non è unidirezionale, le epurazioni non sono unidirezionali, l’oppressione non è unidirezionale, le torture non sono unidirezionali, il problema stesso nella sua interezza non è unidirezionale. L’unica ad essere realmente unidirezionale è proprio la risposta al problema. Si tratta di un sentire comune talmente radicato da sconfinare persino nell’odio per chi riesce a salvarsi, se chi si salva non è una donna. Tale Cristina Ceresei – una tra le tante – aggiunge l’emoticon che vomita alla foto di un aereo colmo di uomini, e commenta definendoli “vermi”, testuale. Vermi per essere riusciti a fuggire, per non essere rimasti a rispondere con le pietre ai kalashnikov talebani, per non essere rimasti a farsi torturare e ammazzare, per non aver ceduto il posto a madri, mogli e sorelle? Comunque vermi inquantouomini: che siano degli uomini a salvarsi scatena sdegno, rabbia, odio.
Circolano in rete altre foto con aerei militari saturi di gente in fuga, ci sono anche delle donne sia col velo che senza, ma per qualcuno probabilmente dovrebbero esserci solo donne; disturba un po’ che insieme alle donne si salvino anche i vermi:
Tuttavia il vittimismo mistificatorio più strisciante è nei titoli che immancabilmente insistono sulla sofferenza femminile. ANSA, Skynews, ADN Kronos e tanti altri puntano i riflettori sulla disperazione delle madri che all’aeroporto di Kabul lancerebbero i propri figli oltre il filo spinato, per farli portare in salvo dai militari britannici:
Il percorso della mistificazione.
Questo dicono titoli ed articoli: «È l’ultima, estrema, speranza di assicurare un futuro ai figli, fuori dall’Afghanistan dei nuovi talebani: all’aeroporto di Kabul, madri disperate consegnano i loro bambini nelle mani di soldati stranieri con la preghiera di portarli in salvo, lontano da lì, dove il dolore della separazione fa meno paura della vendetta dei miliziani islamici tornati al potere». Nei titoli le madri lanciano i figli oltre il filo spinato, negli articoli li consegnano. L’immagine del lancio crea più pathos, ma nella cronaca viene ridimensionata con una più sobria consegna. Però la realtà è ancora diversa: per testimoniare il dramma delle madri circola un video diventato virale, che però l’ANSA titola «genitori disperati chiedono ai militari di espatriarli». I genitori, non più madri e basta. I titoli li leggono tutti, quindi si può esagerare. Non tutti coloro che leggono i titoli leggono anche gli articoli, quindi si può ancora esagerare ma contenendosi un po’. Chi apre il link del video dimostra di aver fatto un ulteriore passo per informarsi, quindi non si può più esagerare: spariscono le madri e compaiono i genitori. Chi poi il video lo guarda (non è lungo, 23 secondi comprese le pubblicità Nutella, Toyota etc., quando c’è da fare cassa il dolore tira) vede una realtà ancora diversa: le madri che lanciano bambini non esistono, sono esclusivamente volti, mani e braccia maschili a privarsi dei figli pur di metterli in salvo.
C’è un video ancora più breve, 13 secondi, ma le scene sono simili:
Il percorso della mistificazione è presto fatto:
- il dramma delle madri che lanciano i figli per salvarli,
- le madri non lanciano i figli, li consegnano per salvarli,
- i genitori consegnano i figli per salvarli,
- i padri consegnano i figli per salvarli.
Resta il fatto che i talebani – tolta in fretta la maschera del nuovo corso rispettoso dei diritti umani – sono tornati a sparare sulla folla che celebrava l’anniversario dell’indipendenza del 1919 issando la bandiera afghana e non il simbolo del nuovo Emirato islamico. È solo l’inizio della repressione con le armi di ogni opinione non allineata, sottomissione imposta e dissidenti passati per le armi. Si tratta dell’oppressione di un popolo, non della metà femminile di un popolo. Checché ne dicano i professionisti dell’informazione focalizzati esclusivamente sulla condizione femminile.