Ci è capitato di recente di discutere su alcune piattaforme social (Facebook e Twitter) con alcune donne che contestavano, piene di indignazione, i nostri contenuti. Raramente accettiamo il confronto sui social: tutto troppo transitorio e limitato, energie sprecate. Quando lo facciamo, è per capire quanto i nostri ragionamenti siano in grado di rintuzzare gli slogan e i tic ideologici delle controparti, oltre che per sottoporre a stress-test le nostre idee. A questo si aggiungono i numerosissimi messaggi che riceviamo con richieste di consigli su “come rispondere” a determinate argomentazioni femministe, spesso molto efficaci a tappare la bocca all’interlocutore poco preparato. Ebbene il confronto sui social avuto di recente è un bel compendio di questo tipo di argomentazioni e un buon esempio di come inchiodare il fanatismo femminista alla croce delle sue contraddizioni. Tra i tanti, per altro, un argomento in particolare lascia muti e interdetti tutti quelli che in qualche modo vorrebbero arginare l’oppressione femminista: «secondo le statistiche, sono più gli uomini che uccidono o fanno violenza sulle donne che non viceversa». L’abbiamo già fatto in passato, ma è bene tornare su questo aspetto, rivelando il trucco che sta dietro a questa asserzione apparentemente conclusiva. Un’asserzione che è ovviamente saltata fuori durante il nostro dibattito social.
Alle signorine che ce l’hanno gettato in faccia abbiamo fatto una domanda semplice: perché, secondo te, le statistiche ufficiali forniscono il numero di donne uccise o fatte oggetto di violenza da parte di uomini (e viceversa), escludendo dalla rilevazione altri tipi di categorie? Cioè perché non si fanno statistiche simili su quanti italiani hanno ucciso o fatto violenza su immigrati, quanti etero su non-etero, quanti abili su disabili, quanti adulti su bambini e così via? La reazione a questa domanda solitamente è già una vittoria dialettica: l’interlocutrice in genere vacilla, svia oppure esce dal dibattito con un insulto. Le più ardimentose provano a buttare lì qualche motivo, in genere rispondendo: «perché quelle degli uomini contro le donne sono le violenze più frequenti e più gravi». Una sciocchezza, che è facile smontare domandando semplicemente: e tu che ne sai, visto che le altre statistiche non si fanno? A quel punto la reazione è simile al tilt di un flipper e in genere il dibattito si conclude con l’usuale gragnuola di insulti (misogino, sessista, maschilista, sciovinista, fascista, eccetera), espressione verbale di una disfatta dialettica di cui a quel punto noi possiamo andar fieri.
Perché si usa quel criterio?
C’è poi l’interlocutrice più strutturata, quella indottrinata sì, ma anche curiosa in qualche misura. Costei ammetterà di non sapere la ragione per cui si facciano statistiche solo sulle violenze maschili sulle donne e non anche per altre categorie, e chiederà a noi di spiegarne il motivo. Se accade, si apre un solco nel terreno, e lì è allora possibile gettare un seme che forse germoglierà in ragionevolezza e verità. Nel caso, fate presente all’interlocutrice che lo schema delle statistiche da lei citate è riassumibile nella domanda «chi uccide (o fa violenza a) chi?» e chiedetele secondo lei qual è lo scopo di una statistica costruita su quel tipo di domanda. Perché nella normalità delle cose i dati scorporati hanno una loro profonda e razionale ragion d’essere. Il conteggio degli autori di reato, con tutte le loro caratteristiche anagrafiche, sociologiche ed economiche o altro, è utile per capire se c’è una frazione specifica di popolazione particolarmente incline a commettere atti di violenza o omicidi. Ai tempi delle guerre di mafia, una ricerca sugli autori di reati avrebbe certamente mostrato una particolare concentrazione di violenze e omicidi nell’area meridionale del Paese, suggerendo così alle autorità preposte l’esistenza di un fenomeno grave da affrontare (la malavita organizzata).
Ugualmente utile è isolare la categoria delle vittime di reati, anch’esse da catalogare secondo le più varie caratteristiche anagrafiche, sociologiche, economiche e così via. Una siffatta rilevazione darebbe alle autorità preposte un’indicazione se c’è una categoria specifica della popolazione che viene fatta oggetto preferenziale di violenze e omicidi. Negli anni ’70 del secolo scorso, ad esempio, un’analisi del genere avrebbe svelato che un gran numero di vittime di violenza o omicidio erano persone dedite all’attivismo politico: lo Stato sarebbe stato così attenzionato su un problema corrente della società di allora. Dunque ha molto senso e molta utilità analizzare le due categorie, autori e vittime di reati, separatamente, e in effetti le statistiche ufficiali così hanno sempre fatto. Soltanto a partire dalla fine del primo decennio di questo secolo si è iniziato ad associarle sulla base del criterio chi uccide (o fa violenza a) chi, focalizzando l’attenzione, tra le mille categorizzazioni possibili, soltanto sul genere di appartenenza di autori e vittime. Perché lo si sia fatto lo diremo dopo, ora ha senso chiarire alla nostra interlocutrice femminista quale possa essere il motivo dell’uso statistico di quel criterio.
Così è, piaccia o meno, dalla notte dei tempi.
Cercare di capire in quale proporzione chi uccide (o fa violenza a) chi ha senso soltanto se si presume che sia in atto una persecuzione più o meno pianificata di una categoria sociale a danno di un’altra. Altre ragioni sensate per usare quel criterio non ce ne sono. Avrebbe avuto senso usarla durante la colonizzazione spagnola del Sud America: si sarebbe rilevato che un gran numero di spagnoli uccideva un gran numero di indios. Idem per la colonizzazione del Nord America: si sarebbe rilevato che un gran numero di coloni europei massacrava un gran numero di nativi americani. Oppure nella Germania nazista: un gran numero di tedeschi non-ebrei sterminava una massa di tedeschi (e poi altri europei) di religione ebraica. Oppure nella Russia sovietica: un gran numero di comunisti sterminava e perseguitava un gran numero di kulaki. La storia, sfortunatamente, è piena di eventi del genere, vere e proprie persecuzioni organizzate, ispirate dal dominio razziale, coloniale, ideologico o religioso (si pensi ai massacri del passato tra protestanti e cattolici…). Più nel piccolo, si potrebbe applicare lo stesso criterio per le tifoserie calcistiche: sarebbe facile rivelare che i tifosi dell’Inter tendono a fare violenza contro i tifosi del Milan, e viceversa, e così per tutte le altre tifoserie tradizionalmente contrapposte. In tutti i casi citati, per altro, le violenze e gli omicidi sono sostenuti da un impianto ideale e identitario ben strutturato, con funzione insieme di giustificazione dei crimini e di spinta al crimine. Gli spagnoli hanno sterminato gli indios convinti di portare loro la civiltà cristiana, i nazisti si ritenevano geneticamente superiori agli ebrei, e così via. Convinzioni che in molti casi si riferivano pure radici storiche letterarie, filosofiche, politologiche in certi casi anche molto rilevanti.
Detto questo, rimane la domanda: perché si usa il criterio del chi uccide (o fa violenza a) chi applicandolo soltanto alle categorie uomo/donna? A questo punto è molto più semplice rispondere. E la risposta è: perché c’è la volontà sistemica di affermare con ufficialità che sia in atto una persecuzione maschile nei confronti delle donne. Tali affermazioni ufficiali, corroborate da quel tipo di statistiche, si vuole che entrino nella narrazione diffusa, e di fatto sono entrate. E lo si vuole con determinazione più o meno dal 2010, quando tutti gli strumenti di pianificazione di questa operazione (le convenzioni ONU del Cairo e di Pechino negli anni ’90 e a seguire la Convenzione di Istanbul) erano stati complessivamente acquisiti come sostrato legale a giustificazione di quella asserzione. Affermato che quel tipo di persecuzione esisteva, servivano cifre a provarlo. E il gioco era piuttosto semplice: pur in presenza di un numero risibile di uomini che uccidono donne, come in Italia, è sempre possibile gridare alla persecuzione alla luce del fatto che il reciproco, donne che uccidono uomini, conta numeri di molto inferiori. Così si dice: sebbene su piccole proporzioni, la persecuzione c’è. Ed è naturalmente falso: sarà il testosterone, la conformazione fisica o altro, gli uomini sono i maggiori autori di reati violenti in ogni caso. Le vittime di omicidio maschili, ad esempio, sono il doppio di quelle femminili e anch’esse vengono uccise in maggioranza da uomini. L’uomo è il responsabile primo di ogni tipo di atto violento: piaccia o meno, è così dalla notte dei tempi.
La distruzione pianificata del futuro.
Ecco allora che un fatto consolidato e purtroppo ovvio, ossia che sono soprattutto gli uomini a commettere atti violenti o omicidiari, si costruisce una gigantesca narrazione mistificata, dove una categoria specifica, gli uomini, sarebbe impegnata giorno e notte a perseguitarne un’altra, le donne, in una sorta di massacro organizzato, simile a quello spagnolo sugli indios o nazista sugli ebrei. Si tratta di una mistificazione sia per i numeri esigui, sia per l’assenza di una filosofia o una politologia codificata che giustifichi o induca gli uomini a perseguitare le donne “in quanto donne”, sia perché restano schiacciante maggioranza gli uomini che salvano, assistono, cooperano e amano le donne “in quanto donne”, cosa che sarebbe impossibile in presenza di una persecuzione organizzata e filosoficamente giustificata. Siamo davanti insomma a un’astutissima operazione mediatica, ideologica e statistica, pianificata e gestita in modo conscio, orientata a una criminalizzazione sistematica del maschile e a una vittimizzazione altrettanto sistematica del femminile, il tutto a sostegno di una nuova forma di business, di mercato clientelare politico e, alla fine, di potere e controllo. Una mistificazione che inserisce nel corpo delle società un nuovo strumento di conflitto e divisione (secondo la massima divide et impera). Un atto gravissimo, perché va ad avvelenare le relazioni tra soggetti impostati naturalmente per cooperare e contemperarsi: l’esito di questo trucchetto ideologico e statistico può essere, ed effettivamente già è, la distruzione totale della capacità di rapportarsi tra uomini e donne. Ovvero è la distruzione pianificata del futuro.
Nota: in settimana uscirà un altro articolo che esaminerà le statistiche ISTAT relative ai delitti in Italia, con l’analisi separata di vittime e autori, esulando dal “chi uccide (o fa violenza a) chi”. Sarà un’applicazione pratica del metodo corretto di analisi dei dati che rivelerà diverse sorprese.