La morte di Raffaella Carrà ha intristito profondamente tutti quelli che hanno vissuto il periodo in cui la showgirl è stata in auge. E lo è stata per molti lustri, segnando in modo indelebile la storia della televisione e anche del costume italiano. Per questo la sua scomparsa segna davvero la fine di un’epoca, con un saluto malinconico a un’Italia forse più arretrata e ingenua, ma sicuramente più felice e genuina dell’attuale. Di suo la Carrà è riuscita ad attraversare momenti storici potentemente politicizzati (gli anni ’60 e ’70) rendendosi icona pur senza mai schierarsi in modo aperto. Il suo successo è stato un mix intelligente e ben dosato tra uso della femminilità e della sensualità e affermazione di un’intelligenza solida, gioiosa, luminosa, positiva. Uno dei suoi tratti caratteristici era l’autoironia, merce rara tra le donne molto belle, che la poneva molte spanne al di sopra di ogni altra soubrette dei suoi tempi. Solo una donna della caratura della Carrà poteva gestire il gioco parossisticamente volgare e fanciullesco di un Benigni impegnato ad elencare in diretta TV tutti i nomi della vagina e del pene, dandole pacche sul sedere e cercando di infilarle la testa tra le gambe.
Quel momento televisivo è tra i più esilaranti mai visti anche per la reazione della Carrà, ben conscia che Benigni stava portando all’esagerazione comica due fatti incontrovertibili: la potente e connaturata pulsione sessuale maschile e il fatto che le donne stiano sedute sulla loro fortuna, su uno strumento di potere assoluto, capace di rimpicciolire, ammansire e civilizzare anche l’uomo più greve. Che la bellezza e la seduzione, tratti naturali della donna, rappresentassero importantissimi motori del mondo e della vita la Carrà lo sapeva bene: buona parte della sua carriera, specie negli anni della gioventù, è stata costruita su un’audace, ma sempre garbata, trasgressività. L’ombelico, il tuca-tuca, «com’è bello far l’amore da Trieste in giù», «a far l’amore comincia tu»: tutte cose che a rivederle, riascoltarle o ripensarle, oggi che si può accedere al porno più estremo nel giro di due o tre click, fanno sorridere di tenerezza. Ai tempi però erano vere e proprie rivoluzioni, che la Carrà ha portato avanti tramite il proprio talento e la propria creatività, mai allineandosi a pattern comportamentali e ideologici precostituiti.
Mai schierata in modo aperto.
Non risulta che abbia mai partecipato a una delle tante inutili carnevalate femministe degli anni ’60 e ’70, in compenso ha creato lei in prima persona uno stile, un modo, una realtà tutta sua, tutta femminile, che ha fatto irruzione nel paludato e talvolta un po’ tetro bigottismo postbellico dell’Italia targata DC, trascinandolo a forza nella modernità. Per gli uomini di tutto il Paese e di mezza Europa la Carrà, senza mai nemmeno aver fatto un calendario senza veli, era il sogno erotico per eccellenza, la donna bella, sexy, intelligente, creativa e con carattere, capace di innovare inventando da sé e con i propri mezzi puramente femminili qualcosa di innovativo che rendesse automaticamente obsoleto il presente. Mentre l’economia cambiava pelle e preparava le trasformazioni socio-culturali degli anni ’80 e oltre, la Carrà ha aperto uno squarcio, anticipando a tutti come sarebbe stata (o come avrebbe potuto essere) la donna dell’avvenire. Una proposta che agli uomini, a loro volta ugualmente coinvolti in un’importante evoluzione culturale, piaceva. Oh se piaceva. In questo senso la Carrà è stata contemporaneamente un potentissimo polo d’attrazione eterosessuale, da un lato, e dall’altro un modello da perseguire nella costruzione di un’identità relazionale tra uomini e donne. Poi è accaduto qualcosa che ha sovvertito tutto.
Alcune sue canzoni e la sua stessa immagine, per motivi che non è dato di comprendere appieno, sono diventate caratterizzanti del mondo gay. Forse proprio la modernità e la positività della Carrà hanno finito per incarnare il bisogno del mondo omosessuale di vivere con quieta serenità e sicurezza il proprio status, forse il senso di libertà con una punta di trasgressione che trapela da talune sue canzoni, fatto sta che nel corso del tempo quel totem erotico eterosessuale diventa anche “icona gay”. Niente di male: la Carrà era personaggio pubblico e pubblico era il suo talento. Era generosa, quindi c’è sempre stata abbondanza di lei per tutti. Se non fosse che, mano a mano che l’omosessualità si politicizzava diventando omosessualismo, oggi raccolto sotto la definizione unitaria di queer, la sua immagine è diventata monopolio assoluto e intoccabile della sfera LGBT, che si è appropriata della star televisiva nazionale per eccellenza trasformandola in qualcosa di organico a sé. Di suo la Carrà, anche qui pur non essendosi mai schierata in modo netto, guardava con affetto ed empatia al mondo gay ed era lusingata da questo endorsement. Se avesse immaginato il livello di strumentalizzazione politico-ideologica che il movimentismo omosessuale politicizzato avrebbe fatto di lei e del suo corpo freddo, forse non sarebbe stata così generosa.
La Carrà sottratta al beneficio e al ricordo comune.
Dopo che un’icona di tutti se n’è andata, stroncata da un tumore ai polmoni, è infatti avvenuto lo scippo: non un media mainstream ha mancato di sottolineare con insistenza più il suo ruolo di “icona gay” (attribuitale da terzi) che la sua carriera ultradecennale (costruita con le sue forze e il suo talento). Così una donna memorabile è stata subito sminuita, da morta, per motivi di convenienza politico-propagandistica (con sullo sfondo il morente DDL Zan) all’interno di un processo di “reductio ad frocium” strumentale a una narrazione che con la Carrà di per sé non aveva nulla a che fare. Il simbolo di questo furto è l’apoteosi dello schifo più abietto cui si poteva assistere: Vladimiro Guadagno, noto come Vladimir Luxuria, che rende omaggio alla salma di un simbolo comune di tutto il Paese stendendo sulla sua bara una bandiera arcobaleno. Un artiglio che si stende su una lunga storia e dice: «Raffaella Carrà non è di tutti. È nostra». C’erano tanti modi, tutti dignitosi e rispettosi, di rendere omaggio a una donna che ha puntato, riuscendoci, a diventare icona di sensualità e carattere, in una parola di femminilità, oltre che di italianità, e che incidentalmente è stata “sposata” anche dalla sfera dell’omosessualità. L’appropriazione indebita della sua storia e perfino del suo corpo senza vita dice molto delle pulsioni totalizzanti e delle devianze socio-culturali connesse al dilagare del movimento queer. D’ora in poi Raffaella Carrà non sarà la solida donna sexy e intelligente che ha contribuito a cambiare i costumi italiani, vengono cancellati i lustri di suo impegno professionale e la sua umanità: ciò che resterà di lei sarà soltanto l’etichetta di “icona gay” che altri le hanno appiccicato addosso, sottraendola di forza al beneficio e al ricordo comune e forzando verso l’immancabile mistificazione una carriera costruita molto più in alto dei biechi interessi politici di piccole lobby senza scrupoli.