La Fionda

Loro hanno Malika in Mercedes, noi Federico Scotta in camper

Può essere che qualcuno di voi abbia sentito parlare di Federico Scotta. A chi non ne conoscesse la storia consigliamo l’ascolto integrale del podcast “Veleno” di Pablo Trincia. Noi ci limiteremo qui a un sunto: Federico ha trascorso 11 anni in carcere, a partire dal 2000, con la terrificante accusa di pedofilia e abusi su minore. È stato scarcerato nel 2011 e ora è in attesa di ottenere la revisione di quel processo che l’ha sentenziato come colpevole sulla base di testimonianze rese da alcuni bambini, sottoposti a interrogatori manipolatori da parte di alcune psicologhe e assistenti sociali. «Le domande erano chiaramente suggestive e finalizzate a ottenere le risposte che avvalorassero una tesi precostituita, ma totalmente priva di fondamento. Con questo sistema io e tante altre persone siamo stati incastrati», ha dichiarato Federico, che infatti non è l’unico a essere finito nei guai. Insieme a lui, i genitori di ben 16 bambini allontanati dalle loro famiglie nel periodo tra il 1997 e il 1998, nella zona della Bassa Modenese, tra Mirandola e Massa Finalese. Alcuni di loro, come Francesca Ederoclite, cui strapparono la figlia Marta, non ressero al trauma e si suicidarono. Altri, come un parroco della zona, incluso tra gli accusati, morirono di crepacuore. Altri ancora furono poi assolti, e i loro processi confermarono che «non ci furono né riti satanici né omicidi» e che tutto era stato costruito sulla base di «erronee tecniche di interrogatorio dei bambini che avevano surrettiziamente portato a far emergere falsi ricordi».

A Federico e a sua moglie Kaempet (di origine thailandese), dietro l’accusa di pedofilia e riti satanici, furono tolti nel 1997 tre figli: una di 3 anni, uno di 6 mesi e un’altra di qualche giorno di vita, strappata dalle braccia della madre mentre quest’ultima era ancora in sala parto. Tutti e tre vennero poi instradati all’interno del grande business degli affidi, gestito da una joint-venture di servizi sociali, consulenti, psicologi, cooperative varie e tribunali dei minori. Preliminari a quel percorso furono appunto le false accuse, con i minori indotti dagli assistenti sociali e psicologi a parlare di riti satanici, sacrifici umani, violenze sessuali e quanto di peggio la fantasia infantile possa partorire, se debitamente stimolata da adulti con una coscienza lercia e vari interessi interconnessi. Così Federico viene condannato e finisce in carcere, fin tanto che non vengono recuperate le video-registrazioni degli interrogatori dei minori, le loro deposizioni indotte, i falsi ricordi innestati nelle loro menti plasmabili. Di fronte all’evidenza, anche gli assistenti sociali hanno finito per ritrattare, ed è da qui che Federico prova a ripartire, con la richiesta di revisione del suo processo. Qualcosa che, se si farà, gli restituirà onore e dignità, ma non il ruolo di genitore, di cui ormai è stato definitivamente defraudato. Dal momento della loro sottrazione, non ha infatti mai più rivisto le figlie femmine, che faticano ancora, comprensibilmente, ad accettare l’esistenza di un “altro” padre.

Federico Scotta
Federico Scotta

La Carta di Noto e l’approccio scientifico.

Diverso è stato invece per il figlio maschio, Nik, che oggi ha 24 anni e fa il meccanico nella provincia di Bologna. Ha ascoltato il podcast di Pablo Trincia, ha capito e si è gradualmente riavvicinato a Federico, fino poi a decidere di incontrarlo e di sostenerlo nella sua battaglia per la revisione del processo. Un momento straordinario. «Dopo 23 anni ho rivisto mio figlio. Non so descrivere bene quello che sto provando. Ma posso dire che non esiste sensazione più bella. Cammino sulle nuvole», ha dichiarato Federico. «Nik è venuto da me. Risentire il suo odore, abbracciarlo, mi ha dato una forza che non pensavo di avere». E ancora: «I bambini portati via dalle famiglie naturali non sanno che persone siano i loro genitori biologici, sono terrorizzati al solo pensiero di rivederli. Ma Nik ha superato quelle paure. Ha capito. E anche i suoi genitori adottivi hanno fatto con lui un lavoro fantastico. Mi ha detto che sarà sempre al mio fianco, mi ha detto che non sono solo in questa battaglia. Che sono suo padre». Undici anni in carcere, specie se da innocente, sono tanti. Oltre al resto, per Federico potrebbe profilarsi la possibilità di un risarcimento, che sarebbe quanto mai opportuno visto che attualmente vive con 800 euro al mese facendo servizi di vigilanza. «Vedremo», risponde Federico se gli si parla di soldi, che non sono la sua priorità. «Ora voglio solo ricostruire il rapporto con mio figlio. E la mia speranza è che adesso anche le sorelle di Nik, piano piano, con i loro tempi, possano riavvicinarsi. Anche tra di loro, tra fratelli. Questo è il mio desiderio più grande. Sono loro che mi hanno dato la forza di andare avanti in carcere, da innocente».

È importante inquadrare la storia di Federico (e di tutti quelli che subirono lo stesso trattamento, o che pare l’abbiano subito pressoché identico nella vicenda degli affidi illeciti della Val D’Enza) in un quadro di metodo che sia chiaro ed esplicito, perché quelle famiglie disgregate, quelle morti, quegli anni passati ingiustamente in carcere, quelle relazioni d’amore tra genitori e figli strappate senza pietà hanno un’origine e dei colpevoli. Di questi ultimi, con i loro nomi e cognomi, si è occupata e si occuperà la magistratura, speriamo in fretta e con la giusta severità prevista dalla legge. Noi possiamo soltanto ricordare l’origine di tanto male: in Italia (e nel mondo) vigono due approcci metodologici alla questione degli abusi sessuali sui minori. Uno, ampiamente maggioritario in ambito scientifico, ritiene che l’ascolto del minore sia importante ma non cruciale, proprio a causa della facilissima influenzabilità dei bambini. L’ascolto del minore deve dunque avvenire con modi e tempi misurati, tramite tecniche non invasive, e gli esiti vanno contestualizzati e verificati con grande cura, senza prenderli per oro colato. Chi si riconosce in questa (ribadiamo: ampiamente maggioritaria) metodologia ha come riferimento la Carta di Noto, documento in costante aggiornamento, che spiega quali siano i lineamenti di base con cui affrontare problematiche così complesse, profonde e delicate. Nei contenuti della Carta di Noto si riconoscono i maggiori studiosi (psicologi, psichiatri, giuristi, sociologi) italiani e internazionali, e alla sua base c’è un approccio scientifico, dunque privo di tesi precostituite.

Federico Scotta
Federico Scotta mentre riabbraccia suo figlio Nik.

Il delirante approccio verificazionista.

Esistono però degli oppositori a questo approccio, in Italia guidati dal CISMAI, e sono quelli secondo cui la parola del minore è legge, essendo questi assolutamente non influenzabile: un principio senza senso, anche solo pensando ai bambini addestrati ad ammazzare altra gente (i bambini-soldato), a immolarsi in qualche attentato suicida (i bambini-kamikaze), a prostituirsi o a odiare uno dei due genitori dopo una separazione. La verità dei fatti dunque sta agli antipodi di ciò che sostengono gli oppositori della Carta di Noto, ed è che un bambino può essere convinto con estrema facilità a fare o pensare qualunque cosa. Ma non è l’unico principio senza senso affermato da costoro: un altro è che un numero spropositato di bambini subisca violenze sessuali in famiglia, generalmente per opera del padre, il che è un’evidente falsità, alla luce del numero esiguo di uomini condannati per quell’orrido reato (una media di 173 all’anno negli ultimi 18 anni, dati ISTAT-Ministero della Giustizia). In ogni caso, questa frangia minoritaria di psicologi, psichiatri, avvocati, assistenti sociali, agisce con il solo scopo di dimostrare questi loro assunti di partenza e per questo vengono definiti “verificazionisti“: qualunque tratto insolito in un disegno infantile (che, se non c’è, magari si aggiunge…), qualunque gesto del bambino durante un colloquio, qualunque fatto avvenuto nel contesto domestico del minore è sempre prova per verificare un avvenuto abuso da parte paterna. E se non si trova nulla, basta fare le domande giuste al piccolo per innestare i ricordi sbagliati. Gli stessi che hanno portato in carcere Federico, ad esempio. Un meccanismo folle, che gli studiosi Guglielmo Gulotta e Ilaria Cutica (entrambi si riconoscono nella Carta di Noto) hanno sintetizzato, nel loro “Guida alla perizia in tema di abuso sessuale e alla sua critica“, con la “margherita dell’abuso” che illustra il meccanismo verificazionista con cui tutto viene riportato appunto a un abuso paterno.

Ai “verificazionisti” di fatto non interessa capire se l’abuso è davvero avvenuto: quello è dato per scontato. Il loro lavoro è verificare la veridicità della propria tesi precostituita. Facevano parte di questa scuola gli assistenti sociali e gli psicologi che interrogarono i bambini della Bassa Modenese prima e i bambini di Bibbiano e dintorni poi, ma anche quelli che hanno portato via la figlia a Roberto Pauluzzi inducendolo poi al suicidio, e quelli che sostengono movimenti come le “madri contro la violenza istituzionale” o contro il “femminicidio in vita”, oppure politici privi di cultura, sensibilità e scrupoli. Sono gli stessi che bombardano di telefonate di protesta gli organizzatori di una tavola rotonda sui diritti dei fanciulli, realizzata sotto l’egida dell’ONU, perché tra gli invitati c’è il nostro Fabio Nestola (che verificazionista proprio non è) e che attaccano quest’ultimo nel modo più vile e spregevole, ovvero dal lato puramente personale. Sono gli stessi, infine, che pur essendo una minoranza sostenitrice di un approccio folle, con una visibilissima scia di sangue dietro di sé, riescono a infiltrare così tanto le istituzioni da imporre la propria visione a organizzazioni pubbliche cruciali come i Tribunali dei Minori: chi dubita, è invitato a scaricare e leggere i due opuscoli (qui e qui) presenti sul sito del Tribunale dei Minori di Bologna (quello di riferimento per i fatti di Bibbiano), dove non a caso è dato per scontato che l’autore degli abusi sia sempre il padre. Punto di vista a malapena accettabile se asserito da un’associazione di fanatiche femministe e odiatrici, molto meno, a nostro avviso, se si tratta del sito ufficiale di un Tribunale dei Minori.

Federico Scotta davanti al suo camper
Federico Scotta davanti al suo camper.

«Date una casa a Federico Scotta. Subito».

Nel titolo di questo articolo abbiamo accostato la nota Malika Chadhy a Federico Scotta per creare un contrasto dal lato mediatico, ma non solo. Tutti sanno chi è la prima, mentre pochissimi sanno chi è il secondo, sebbene abbia vissuto una vicenda personale terrificante vera, in un contesto di dolore reale. Al di là di questo, però, c’è un aspetto più importante, che attiene all’impegno collettivo a favore di chi è in difficoltà. Su Malika si sono concentrate le attenzioni e il supporto di un esercito di fessi, oggi messi davanti al fatto che si è trattato di un fenomeno a metà tra la presa in giro e la truffa, ed è quanto di più coerente possa esserci rispetto alla caratura morale di una narrazione del reale basata sulla mistificazione. Ebbene, noi stiamo dall’altra parte. Conosciuta la storia di Federico e la sua immane e vera sofferenza, non possiamo restare indifferenti al suo bisogno di aiuto. Da quando è stato scarcerato, Federico ha vissuto in un camper alla periferia di Bologna, in una zona concessa gentilmente da una proprietaria, che ora deve liberare l’area per riqualificarla. Federico non guadagna abbastanza per un appartamento, dunque ha fatto domanda di alloggio al Comune di Bologna. Un appartamento qualunque, per cui pagare affitto e utenze, senza particolari privilegi. In condizioni normali, conoscendo la sua storia, la municipalità dovrebbe consegnargliene uno gratis e a vita, ma pare che così non sia. Per questo alcuni suoi amici hanno deciso di aprire una petizione su Change.org. Ben inteso: Federico non chiede soldi, non vuole né una Mercedes né una Fiat Panda, ma semplicemente un alloggio, che si manterrebbe da sé. Noi, che stiamo con lui senza se e senza ma, vi chiediamo di firmare in massa quella petizione. E dato che pensiamo che le petizioni online non servano a molto, vi chiediamo in aggiunta di scrivere in massa direttamente al Sindaco del Comune di Bologna, Virginio Merola, a questo indirizzo: segreteria.sindaco@cittametropolitana.bo.it. Oggetto e messaggio semplicissimi: «Date una casa a Federico Scotta. Subito».

 



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