Erin Pizzey non ha bisogno di presentazioni nel movimento critico del femminismo. Si tratta probabilmente della figura più rilevante a livello mondiale. La sua vita si è contraddistinta per la lotta a favore di tutti, uomini e donne, senza discriminazione di sesso. Una donna, bandiera del movimento “maschile”. La sua esistenza prova qualcosa di ovvio ma, a quanto pare, necessario da ricordare ogni tanto: donna e femminista non sono sinonimi, come non lo sono nazista e tedesco terrorista islamico e arabo. Non c’è alcuna contraddizione tra l’essere donna e nel contempo non aderire all’ideologia femminista. È il martellante indottrinamento femminista, istituzionale e mediatico che rende oggigiorno questo evento strano, oltre che raro. Eppure per lungo tempo il sentimento antifemminista tra le donne è stato il più diffuso.
Tra tutte le donne antifemministe, ho scelto di parlare di Margaret Oliphant (1828-1897), prolifica scrittrice e poetessa scozzese, per la sua critica a John Stuart Mill. Le sue idee, poco gradite oggi – il fatto di non aver mai messo in discussione il patriarcato, di non averlo contestato nelle sue opere –, hanno motivato la sua esclusione dalla raccolta di scrittura femminile del XIX secolo da parte delle critiche letterarie femministe Sandra Gilbert e Susan Gubar. Così funziona oggi il mondo accademico, una volta si definiva “censura”. L’opera di John Stuart Mill, ormai un classico del femminismo, The Subjection of Women (1869), non fu accolto entusiasticamente da tutti. La sua teoria della “tirannia” maschile, della dipendenza femminile e il suo ideale di perfetta eguaglianza morale, intellettuale e giuridica fu confutata anche e proprio da donne. Tra le tante si trova Margaret Oliphant, all’epoca una giovane vedova madre di tre figli che manteneva la famiglia con la sua attività di scrittrice. Oliphant rimproverò a Mill di vedere le donne solo come vittime dei loro mariti e di ritenere che esse avessero interiorizzato la loro schiavitù. Secondo lei, molti uomini erano ben lontani dall’essere dei tiranni, soffrivano non meno delle donne a causa della durezza del mondo. «I sacrifici affrontati insieme, l’abnegazione, l’aiuto reciproco» e l’affetto avrebbero avuto, nella vita quotidiana della «massa di gente comune che fatica in coppia sui duri sentieri della vita», un’importanza ben più grande della visione unidimensionale e semplicistica della soggezione delle donne. Margaret Oliphant contrappose la vita della gente semplice alla visione di Stuart Mill che le sembrava borghese. In somma sintesi, la visione di Stuart Mill sarebbe stata parziale, e poiché si tratta di una visione parziale della realtà, che non coglie tutto il quadro completo, diventa una grande bugia. Stessa critica che i critici del femminismo muovono oggi all’ideologia femminista, un secolo e mezzo dopo. Nulla è cambiato.
Quante donne conoscete che vengono regolarmente picchiate?
Ecco alcuni dei pensieri, a mio avviso molto interessanti e condivisibili, della Oliphant (le traduzioni sono mie). In un articolo pubblicato da Edinburgh Magazine, intitolato The Condition of Women (La condizione delle donne) nel 1858, scrive: «Sì, le regole della civiltà sono dure e la vita convenzionale è crudele; ma le difficoltà non sono assegnate da nessuna legge arbitraria a seconda del sesso, o da una linea immaginaria di demarcazione tra uomini e donne. Il peso grava su tutti […]. L’onere, le restrizioni, le limitazioni sono vere, ma non vengono applicate in modo parziale o unilaterale ; questa schiavitù della società, della vita convenzionale e di un falso orgoglio individuale, colpiscono in maniera più tragica e disarmante gli uomini, che sono i naturali lavoratori e capifamiglia , di quanto possano mai colpire le donne, talvolta costrette dalle circostanze a lavorare per ricavare il proprio pane. […] Si tratta di un fardello universale, un male comune di ogni tempo; non si tratta di un nuovo e unilaterale gravame scoperto che pesa sulle donne. […] C’è, tuttavia, in quasi tutte le discussioni pubbliche sulla condizione sociale delle donne, una strana particolarità che qui si tradisce con grande chiarezza: gli scrittori sull’argomento trattano invariabilmente questa metà dell’umanità come una creazione distinta piuttosto che come un porzione di una razza generale – non come creature umane in primo luogo, e donne in secondo luogo, ma come donne, e nient’altro che donne – una sfera distinta dell’essere, un universo separato dell’esistenza […]. Si potrebbe quasi pensare […] che l’antica morale che ha sprofondato l’umanità in una sola razza, non fosse una barbara imposizione sulla natura umana, ma soltanto su quella femminile, che avrebbe dovuto avere un trattamento più delicato. […] rappresentano la Donna come in un’esistenza separata, che soffre sotto l’azione di principi speciali che colpiscono soltanto Lei, senza colpire in generale l’intera razza». In altri termini, il femminismo spezza il concetto di umanità. «Il femminismo è la nozione radicale che le donne sono persone», massima di successo della femminista Marie Shear. Invece no. Il femminismo è la nozione radicale che le donne sono prima di tutto donne, e dopo, ma molto dopo, persone, come purtroppo, e malgrado loro, la parte restante dell’umanità (gli uomini). Il femminismo ha costruito una piramide gerarchica dell’umanità divisa in due “razze” diverse, e sulla cima ha collocato una di loro, le donne. Le prime avvisaglie del vero volto femminista erano già visibili agli occhi della Oliphant oltre un secolo e mezzo fa.
A proposito dell’opera di Mill, scrive l’Oliphant in Mill on the Subjection of Women (1869): «Prima di informarci sulle riforme che vorrebbe promuovere, o anche di spiegarci la sua concezione sulla giusta posizione per le donne e sulle relazioni tra uomini e donne, ci abbozza il loro stato attuale. E poiché l’abbozzo può essere da tutti facilmente verificato o smentito, nel momento in cui volgiamo lo sguardo dalle sue pagine al mondo circostante, la prefazione è senza dubbio molto audace. La donna assoggettata è la sua eroina. Ce la pone davanti, carica non solo delle proprie catene personali, ma dell’ombra di quei ceppi nei quali sua madre e tutte le sue antenate sono state legate. Mentre scrive, leva di fronte a noi l’enorme ombra di un impero dispotico più vasto e mostruoso di qualsiasi altro mai concepito dall’uomo, una tirannia che schiavizza le sue vittime prima della loro nascita […], trasforma metà della razza in tiranni meticolosi e con precisione scientifica, e l’altra metà in schiavi ciechi e servili. […] Ma dove si trova questo afflitto paese? […] È una questione sulla quale tutti siamo qualificati per formarci un’opinione. Ciò che vediamo e sappiamo ha inevitabilmente su di noi un’influenza maggiore di ciò che ci viene riferito, e l’esperienza comune, ciò che vediamo, contraddice in ogni istante l’immagine che fornisce il sig. Mill. Non è stato il sig. Mill imprudente di iniziare un’indagine filosofica in netto contrasto con l’evidenza e il visibile?». Ogni volta che sento parlare della violenza di genere, sulla strage delle donne e la violenza dilagante in famiglia sulle donne, adopero lo stesso argomento, e invito anche voi a farlo: l’esperienza personale. “Quante donne conoscete che vengono regolarmente picchiate? E quanti uomini? Chi picchiava a chi? A casa vostra, tra i vostri parenti, amici, vicini, quanti uomini o donne ci sono vittime di maltrattamenti? Vi hanno mai picchiato? Per mano di chi avete conosciuto per primo la violenza, per mano di una donna o di un uomo? Di vostra madre o di vostro padre? Di vostra sorella o di vostro fratello?”.
Perché non si danno da fare, invece di lamentarsi?
Il quadro dipinto da Mill è troppo cupo per essere vero: «Malgrado il mondo stesso si fondi su una vasta oppressione, l’oppressione descritta è più diffusa e penetrante di qualsiasi altra che abbia maledetto l’umanità. Altre tirannie si sono limitate a una razza, nazione o periodo. Alcuni paesi erano ancora liberi quando altri erano ridotti in schiavitù; ma la schiavitù delle donne non ha avuto limiti geografici e si è estesa su tutta la faccia della terra. In ogni comunità il dispotismo ha avuto il suo tempo, ci sono stati momenti nei quali l’impero è stato una repubblica, quando il tiranno è stato messo da parte dal patriota, e lo schiavo ha gustato il sapore della libertà. Ma queste interruzioni non sono mai avvenute tra l’uomo e la schiavitù della donna». A proposito delle difficoltà della vita all’inizio dei tempi, l’Oliphant spiega come la necessità si scontri con l’uguaglianza: «L’uomo trascorreva fuori tutto il giorno, faticando, lottando contro i venti e la tempesta, il sole gli batteva sulla sua testa, le forze della natura lo sfidavano; come poteva non essere re quando tornava in quella prima capanna o tugurio? […] Da quel momento, come faceva l’uguaglianza a non essere spazzata via dai venti? […] Uguaglianza, cosa vuol dire?».
A proposito del matrimonio: «Quando il sig. Mill afferma che la schiavitù è la base della legge sul matrimonio, dimentica che si tratta di un contratto in base al quale il padrone è tenuto a lavorare per lo schiavo, non lo schiavo per il padrone. […] l’uomo è obbligato a provvedere a lei. Il matrimonio ha delle condizioni che sono dure sia per lui che per lei. Lui non è libero più di quanto lo sia lei. […] Per le leggi dell’uguaglianza, non potrebbe anche lui arrogarsi la possibilità di lasciare il suo lavoro, a tempo, come fa lei? Non tutte sono delle difficoltà per lei. Che gli piaccia o meno, lui deve proseguire nel lavoro, mentre lei può fermarsi e riposare; per l’uomo non può esserci interruzione nelle sue fatiche […], non solo l’obbligo morale ma anche quello legale lo vincola mani e piedi. Lui è assoggettato tanto quanto lo è sua moglie». A proposito dell’istruzione superiore femminile in certi ambiti di studio: «Le donne hanno dei soldi, e i migliori insegnanti del mondo si assumono con i soldi; hanno tempo libero – troppo secondo tutti; la stampa è stata inventata, quando, centinaia di anni fa? Tutti i libri che ora vengono stampati sono acquistabili e possono essere letti e appresi. A cosa dobbiamo dunque attribuire gli sforzi straordinari necessari per fare una donna colta?» Infatti, invece di lamentarsi, perché non assumono gli insegnanti e comprano i libri didattici e si mettono a studiare? Chi vieta loro di farlo? In altre parole, e applicato all’attuale lamento per la scarsa presenza femminile in certe discipline universitarie: “se le carriere tecnologiche sono scelte da poche studentesse e l’iscrizione è libera, invece di trascorrere le giornate a protestare, perché non si iscrivono e basta?”.
L’onestà e il coraggio delle antifemministe.
In conclusione, critiche molto lucide di una donna antifemminista, un secolo e mezzo fa. I miei omaggi, Ms. Oliphant. E non solo a Ms. Oliphant. I miei omaggi a Erin Pizzey e a tutte le donne che riescono a sottrarsi all’influsso ammaliante dell’ideologia femminista, e la riescono a giudicare con uno spirito critico libero. Se per gli uomini, bersagli designati dal femminismo, dovrebbe (dovrebbe!) essere naturale e scontato il loro antifemminismo, per le donne, fruitrici dei presunti vantaggi, in preda alla seduzione della loro liberazione, il distacco emotivo di una siffatta ideologia si presuppone più difficile. Quindi, il mio ringraziamento per l’onestà e il coraggio, a Ms. Oliphant, a Erin Pizzey, a tutte le donne e naturalmente, a tutte le lettrici e collaboratrici de La Fionda.