Ospitiamo di seguito un intervento con cui Marco Quaglia presenta il suo libro “Mi riprendo la vita”. La sua vicenda è nota, grazie al rilievo che le è stato dato da “Le Iene”, ma abbiamo chiesto comunque a Marco di esporre le sue opinioni e di pubblicizzare il suo libro perché lo riteniamo un sopravvissuto al dilagante fenomeno delle false denunce e del doppio standard antimaschile nei tribunali. Un fenomeno a cui non solo non si vuole mettere freno, ma che anzi viene fortemente incentivato da leggi folli, apertamente indirizzate contro la sfera maschile. Marco è l’esempio, per fortuna ancora vivente, di cosa può sperimentare un uomo che finisca in quel tipo di tritacarne. Per questo ospitiamo volentieri il suo intervento e caldeggiamo l’acquisto del suo libro. Le sue sono parole dure ed esplicite, dove non manca di fare nomi e cognomi: è la sua opinione, che noi rispettiamo, come rispettiamo le posizioni di tutti, purché argomentate. In questo senso, se qualcuno si sentisse preso in causa o accusato ingiustamente, può inviarci una rettifica o una replica a lafionda.info@gmail.com: saremo lieti di pubblicarla con l’identica visibilità di questo articolo.
Mi chiamo Marco Quaglia, il 20 marzo di quest’anno ho compiuto sessant’anni. Non lo so se sono sessantanove o se sono cinquantuno quelli che realmente dovrei avere. Non lo so perché da nove anni la mia vita è stata completamente stravolta, tutto quello che mi apparteneva in quella che era la mia realtà di vita è venuto meno. Ho raggiunto il punto più basso che un uomo possa raggiungere, e questo è avvenuto la sera del 22 novembre del 2019, quando in una stanza di un albergo di Olbia ho scelto di togliermi la vita.
Coinvolto per non averla assecondata.
La mia storia è stata raccontata, in parte, con un servizio de “Le Iene”, durante la trasmissione che è andata in onda il 12 marzo 2021, esattamente otto giorni dopo che la Procura di Cagliari ha definitivamente chiuso con l’archiviazione un’indagine nei miei confronti, che andava avanti da ben nove anni. Ci tengo a sottolineare la parola “indagine”, perché per quello che mi riguarda io non ho avuto mai un rinvio a giudizio e quindi un processo. Tutto quello che mi è accaduto ho deciso di raccontarlo in un libro che ho presentato il 14 giugno e che si intitola “Mi riprendo la vita“, edito dalla casa editrice Stilgraf di Cesena.
La Fionda mi invita a raccontare la mia storia, tutto ciò che mi è accaduto e tutto ciò che ho vissuto. Raccontare è esattamente ciò che più ho fatto in questi interminabili nove anni della mia vita: quante volte lo avrò fatto non potrei dirlo; di sicuro so che tutta questa brutta storia mi accompagna da anni. E questa è una storia che ha come principale causa la pazzia di una donna che senza alcun rispetto ha scelto di inventare delle accuse nei miei confronti, le peggiori che un uomo possa avere addosso. Pedofilia. Nel farlo ha usato come portavoce i suoi figli, insegnando loro a raccontare storie difficili da pensare e impossibili da ascoltare. Questa donna, Silvia Cantoro, non ha saputo accettare la separazione che le era stata chiesta dal suo ex marito Matteo Sereni e ha voluto distruggerlo con accuse che sono le più pesanti e schifose che si possano sentire. Ma non ha scelto di fare tutto questo solo nei suoi confronti: ha voluto coinvolgere anche chi, come me, ha testimoniato una realtà a lei non gradita.
Tutelare gli uomini vittime di false accuse.
Non voglio parlare di Matteo Sereni: quello che riguarda lui e quello che giudico un comportamento non corretto nei miei confronti è spiegato in modo dettagliato e documentato nelle pagine del mio libro. Voglio però parlare di Silvia Cantoro, una donna che ritengo senza scrupoli, che non ha pensato a come i suoi atti potessero ritorcersi contro di lei e soprattutto contro i suoi figli. Una persona accecata dall’odio e dal desiderio di vendetta nei confronti di chiunque abbia scelto di non assecondarla. Una donna che non ha pensato al male che stava arrecando ai suoi figli nel momento esatto in cui gli stava insegnando a dire cose che non possono appartenere al linguaggio dei minori e che, a mio parere, per quello che ha fatto, non meriterebbe di vivere in mezzo alla gente normale. Invece le è consentito, grazie a un sistema che la difende fino alla fine e ancora oltre. Un sistema che non sa, o meglio non vuole condannare donne che fanno cose del genere, perché le vede ancora ricoprire un ruolo che non gli appartiene più: quello di madre. E fino a quando esisteranno queste leggi che non puniscono, neanche di fronte alla più evidente prova di una falsità, vedremo sempre più fatti del genere.
Non a caso queste denunce, negli ultimi vent’anni, hanno avuto un aumento sempre più costante: il coinvolgimento di figli o di minori, come è giusto che sia, porta ogni procura ad indagare. Ma se è vero che occorre imparare ad accettare di essere oggetto d’indagini per arrivare a capire se tutto quello che viene ascritto è vero, allo stesso tempo bisogna che chi indaga porti il rispetto che è dovuto, senza dimenticare che la nostra Costituzione dice che si è sempre “innocenti fino a prova contraria”. Ci vuole un deciso cambiamento del sistema e delle leggi, bisogna che ci sia più rispetto, quando ogni prova porta all’evidenza di una falsità da parte di chi accusa. Ci vuole un tempo che sia più breve e che non porti al massacro fisico e mentale di chi è accusato ingiustamente di questi reati. Ci vogliono leggi che sappiano tutelare gli uomini che vivono la loro vita perdendo la normalità della stessa e che vedono tutto cambiare in peggio per accuse infondate. Solo cominciando a punire in modo deciso questo tipo di donne forse in un futuro tutto questo verrà meno e il fenomeno delle false accuse non aumenterà più, come sta succedendo in questi ultimi anni.