La Fionda

Spunta una nuova legge: sanzioni per chi non si adegua alla bugia del paygap

Straordinario paese l’Italia. Non si fa in tempo ad archiviare una legge pericolosa e priva di senso come il DDL Zan, che subito te ne spunta fuori un’altra anche peggiore, di sorpresa, tipo imboscata. È il caso del Disegno di Legge n.1423, approvato settimana scorsa all’unanimità dalla Commissione Lavoro della Camera dei Deputati. A presentarla sono 38 deputati, tra i quali spiccano nomi a noi tristemente noti: Cirinnà, Valente, Boldrini, Fedeli. Con questo parterre de roi non stupisce che la legge si presenti come un coacervo di bugie clamorose esposte in premessa, e una serie di disposizioni in parte del tutto inutili, in parte assolutamente folli nell’articolato. «I livelli salariali e occupazionali sono ben lontani dal soddisfare i requisiti delle pari opportunità», si dice nell’introduzione, già così mescolando furbescamente due fenomeni, il salario e i livelli occupazionali, che a rigore, per le loro caratteristiche, andrebbero esaminati separatamente. Per la parte occupazionale si prendono a riferimento i dati ISTAT sull’occupazione, ignorando astutamente quelli sul numero di donne inattive (ossia che non cercano e non vogliono un lavoro), doppio rispetto a quello degli uomini (ne abbiamo parlato qua). Per rafforzare si cita anche quell’immonda falsificazione internazionale che è il “Global Gender Gap Report” del World Economic Forum. Per intenderci, quello secondo cui c’è parità soltanto se la sfera femminile soverchia quella maschile, in tutti gli altri casi c’è sempre disparità.

Con grande disinvoltura, come se non si trattasse di un elemento chiave, si registra al volo che il divario occupazionale in buona parte è dovuto alle differenze sulla (libera) scelta degli indirizzi formativi di uomini e donne, dove queste ultime sembrano eccellere particolarmente. Un aspetto incontrovertibile e basilare, superato di slancio con una frase ad effetto: «Insomma più istruite ma non più occupate». Nella conclusione aleggia non la preoccupazione per la scarsa resa e l’alto abbandono scolastico maschile (chi se ne frega!), bensì la presenza di un qualche misterioso bias maschilista che penalizza le donne a prescindere, sebbene siano preparatissime. Quando si passa a introdurre il divario salariale si scivola inevitabilmente nella menzogna e nell’ipocrisia, a partire dai dati: le donne guadagnano nel settore privato il 20,7% in meno degli uomini. Come mai? Spiegazione banale: è “colpa” della maternità, squalificata così a evento da aborrire, dato che impedisce alle donne di farsi schiavizzare da un datore di lavoro, invece che dedicarsi a un rapporto affettivo qualificante. Ma colpa anche del fatto che i lavori “prestigiosi” sono tutti appannaggio della sfera maschile. Un modo astuto per dire: su una piattaforma petrolifera, dove si può guadagnare un botto di soldi, le donne non vanno, troppo pericoloso e faticoso. Per loro vanno bene lavori di prestigio, ma comodi e sicuri: nel board di un consiglio d’amministrazione o a capo di un ministero, da cui quindi andrebbero cacciati gli odiati “maschi”. E se si tratta di  lavori da operaie, be’ allora è ancora peggio perché le donne lavorano in fabbrica e anche a casa, dove vigono rigidissimi “stereotipi di genere”, quelli per cui il marito arriva dal lavoro e si mette con la birra sul divano in attesa di essere servito. Una roba che già si vedeva poco e solo in determinate aree geografico-sociali in passato, e che ora vive soltanto nel mito e nelle strumentalizzazioni ideologiche delle femministe.

divario salariale di genere

Una violenza al libero mercato.

Poi c’è la mistificazione assoluta, assunta come cosa del tutto vera nell’introduzione della legge: la definizione di divario salariale di genere. «In concreto, esso è la differenza di retribuzione lorda media oraria tra uomini e donne in tutti i settori dell’economia». Bugia clamorosa. Come abbiamo già spiegato in passato, quel 20,7% di divario viene dal confronto della mediana, non della media, delle retribuzioni lorde maschili e femminili messe entrambe in ordine crescente. Media e mediana sono due cose radicalmente diverse per natura e significato, come si insegna in qualunque corso elementare di statistica, dove si specifica sempre che il confronto tra mediane è, al massimo, un gioco ragionativo, qualcosa che concretamente viaggia tra l’assoluta inutilità e la scarsa utilità. A meno che non lo si strumentalizzi per affermare l’esistenza di qualcosa di inesistente, come appunto il divario salariale di genere. Al di sopra di tutto questo però c’è una contraddizione molto più grande, che i parlamentari della Commissione Lavoro hanno finto di non vedere, approvando il tutto all’unanimità senza battere ciglio, a ulteriore dimostrazione della loro pochezza o della loro malafede. E la contraddizione è: se in Italia è possibile pagare un dipendente donna ben il 20,7% in meno di un uomo, come mai allora l’occupazione femminile langue al 49,7%, ponendoci al penultimo posto in Europa? Le due cose stanno assieme soltanto ipotizzando che gli imprenditori italiani siano tutti pazzi: hanno l’opportunità di assumere persone preparatissime di sesso femminile pagandole quasi un quarto di meno di persone altrettanto preparate (o anche meno preparate, visto come vanno male negli studi…) di sesso maschile, eppure… non lo fanno.

In un paese normale, con un Parlamento composto da persone normali, non solo basterebbe questo nonsense per far archiviare la legge nel cassetto etichettato come “cazzate colossali”. Invece in questa meravigliosa Italia la Commissione Lavoro la approva all’unanimità, con tutti i suoi contenuti. Che, come detto, si collocano tra l’inutile e il pericoloso. Inutili laddove stabilisce la «parità retributiva tra donne e uomini per un lavoro di pari valore». Quel “pari valore” è una terminologia volutamente ambigua, in ogni caso riconducibile a norme già esistenti, sia di rango costituzionale che ordinario, a partire dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), dove di fatto è già obbligatorio riconoscere la stessa retribuzione a lavoratori con lo stesso identico inquadramento. Le uniche differenze, come nota anche questo DDL, possono «annidarsi» (sì, usa proprio questo termine, come se si trattasse di serpenti velenosi) nei “bonus” che un’azienda potrebbe riconoscere ai più produttivi o meritevoli, magari perché disponibili a trasferte, straordinari, reperibilità o a fare lavori ad alto rischio. Mediamente si tratta di attività a cui gli uomini sono più propensi, come ammette lo stesso DDL quando, parlando delle donne, dice: «Esse restano comunque svantaggiate nella carriera, rispetto ai colleghi uomini, perché meno disposte a straordinari o viaggi per lavoro». Dunque non c’è nulla che si “annida” in nulla: ci sono scelte individuali premianti dal lato della retribuzione e scelte non premianti, che le persone assumono in piena libertà. E a cui le aziende, in piena e giustissima autonomia, attribuiscono o meno premi e riconoscimenti. Si chiama libero mercato, libertà d’impresa e il suo contrario è il livellamento di tipo sovietico.

parità salariale

Una bugia approvata all’unanimità in Commissione Lavoro.

Proprio questo è l’aspetto che assume la legge laddove smette di essere semplicemente inutile, normando qualcosa che è già ampiamente normato, e incomincia a concepire controlli, standard e sanzioni. Negli articoli dal 3 al 9 si costruisce infatti un sistema di controllo asfissiante: primo, le aziende devono garantire massima trasparenza sui “bonus” concessi e sulle retribuzioni in generale. Accade già, per legge, ma qui significa che l’impresa dovrà giustificare perché abbia riconosciuto una premialità a un lavoratore maschio e non anche a una lavoratrice femmina e dovrà comparare i livelli salariali interni utilizzando (guarda un po’) il confronto tra mediane. Se gli esiti di tutto questo saranno che c’è parità nei salari di uomini e donne, le Camere di Commercio, in collaborazione con le “Consigliere di Parità” (tassativamente al femminile) potranno certificare l’azienda, un bollino blu tipo Chiquita che garantirà all’azienda l’accesso a un credito d’imposta pari a 10 mila euro annui. In sostanza lo Stato, con questa legge, corromperà le imprese affinché livellino stipendi e premialità di dipendenti uomini e donne, e per farlo dovranno prescindere dalle performance lavorative. Un livellamento sovietico invertito, insomma: non verso il basso, come avveniva in URSS, ma verso l’alto e solo per le lavoratrici, a prescindere che lo meritino o no. E dato che delle aziende private lo Stato non si fida, la sussistenza e permanenza dello stato di parità così forzosamente ottenuto sarà verificato tramite audit periodici dell’Ispettorato per il lavoro, che così diventa una specie di commissariato politico di verifica di conformità all’ideologia femminista presso il tessuto delle aziende private italiane.

Ma non basta, ovviamente. Oltre alla piccola carota del credito d’imposta, serve anche un randello bello grosso. Ecco allora che chi non si adeguerà a questa legge stalinista rischierà: una sanzione pecuniaria da 1.500 a 9.000 euro a seconda della dimensione dell’impresa, la sospensione per un anno di ogni beneficio contributivo eventualmente goduto, l’esclusione dagli appalti pubblici, la risoluzione automatica di ogni contratto in essere con le amministrazioni pubbliche. Non male per un paese in cui dovrebbe vigere la libertà d’impresa (e la libertà in generale), vero? Per rendere tutto digeribile, la legge poi interviene con «misure a sostegno della maternità e paternità», titolo ipocrita che nasconde misure per trascinare le madri fuori casa e metterle a lavorare. Non c’è traccia di modernità in queste misure, non c’è la realtà fattuale di uomini e donne desiderosi di contribuire paritariamente alla gestione domestica e soprattutto dei figli. C’è un’idea antica di donna e una totale criminalizzazione dell’uomo. Una norma a sostegno di maternità e paternità semplicemente dovrebbe stabilire un anno (minimo) di congedo genitoriale rispettivamente per madre e padre, di cui otto mesi obbligatori per ciascuno, da svolgere in regime alternato, in modo da ammortizzare paritariamente le difficoltà professionali derivate dal meraviglioso evento della nascita di un figlio. Per altro una disposizione del genere sarebbe pure perfettamente paritaria, ed è proprio per questo che non si fa. Ogni legge, ormai di default, deve confermare implicitamente o esplicitamente la designazione delle donne come vittime e degli uomini come privilegiati, anche falsificando totalmente la realtà e di conseguenza violentandola. Esattamente come fa questo DDL folle che, va ricordato, è stato approvato all’unanimità in Commissione Lavoro alla Camera.



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