Nonostante i colori sgargianti e gli arcobaleni LGBT sventolati e proiettati in ogni luogo, i campionati europei di calcio hanno assunto ormai un aspetto plumbeo e soffocante. Mai prima d’ora si era vista una manifestazione sportiva così potentemente politicizzata e così tanto concentrata su un tema unico. O meglio, un precedente c’è: le Olimpiadi di Berlino del 1936, che furono per Adolf Hitler una vetrina straordinaria, pianificata dal lato propagandistico in ogni dettaglio (salvo uno, la vittoria del “negro” Jesse Owens, che tolse per un bel po’ il sorriso al Führer). Tra svastiche e parate, il regime mostrò in quella sede una sorta di “volto umano”, aperto e pacifico verso l’esterno. Solo che mentre gli atleti si misuravano, le fabbriche tedesche lavoravano a spron battuto per il riarmo del paese e c’erano gerarchi che cominciavano a porre le basi per quella che poi sarebbe stata la “soluzione finale del problema ebraico”. L’attuale manifestazione calcistica europea sembra una riedizione di quel clima, solo che il regime non è più quello di Berlino, bensì quello di Bruxelles, con la UEFA braccio operativo, e la gaia bandiera multicolore, con tutta la sua rocciosa ideologia e le sue potentissime lobby dietro, ha sostituito la croce uncinata. In questo singolo caso attuale, poi, non esiste più una “questione ebraica”, sostituita da una generale “questione etero” e una particolare “questione ungherese” o una “questione Orbán”, che dir si voglia.
Il problema sono dunque Viktor Orbán e la sua Ungheria, attaccati da ogni versante nell’ambito della manifestazione sportiva. Un tizio munito di bandiera LGBT irrompe in campo davanti alla formazione ungherese durante l’inno nazionale, piovono fischi contro gli atleti magiari quando giocano in campo e quando non si inginocchiano, per provocazione si proiettano i soliti colori arcobaleno (ma non ne siete saturi tutti quanti?) sulle mura dell’Allianz Stadium e lo stesso logo UEFA assume la bandiera LGBT come sfondo. Insomma, manca solo uno striscione con scritto «Ungheria Raus!» e il quadro sarebbe completo. Ma non basta ancora: mentre questo accade negli stadi, ben tredici paesi europei (Italia inclusa) firmano un documento contro il governo di Orbán, accusato di violare i trattati comunitari per quanto concerne i “diritti umani”. Il riferimento è a una recente legge del parlamento di Budapest, che viene unanimemente definita “omofoba” e per la quale il nostro Presidente del Consiglio Mario Draghi, mentre con una mano facilita il mega-trappolone parlamentare per il DDL Zan, con l’altra sventola il dito sotto il naso del premier ungherese ricordandogli che si tratta appunto di “diritti umani” e che è compito precipuo dell’UE farli rispettare.
Questa guerra è giustificata?
Si ha così il cortocircuito per cui da un lato uno stato estero dalla sovranità internazionalmente riconosciuta come il Vaticano non può sollevare problemi su un trattato (i Patti Lateranensi) che lo lega a un paese come l’Italia, teoricamente democratico, con un Governo più o meno democraticamente eletto, mentre dall’altro lato le decisioni sovrane di un paese democratico, con un governo regolarmente eletto e in carica, impegnato a realizzare il proprio programma, possono tranquillamente essere messe in discussione da un organismo sovranazionale come la Commissione UE, non eletto da nessuno e non sfiduciabile da nessuno. Ovvero da un’istituzione non democratica, anzi tirannica, pilotata da vari tipi di lobby e gruppi di pressione, a partire da quella LGBT, dominatrice assoluta di quella sorta di nacht und nebel che risultano essere ora gli europei di calcio. E in quello scenario la bugia (ripetuta molte volte) diventa verità, la realtà dei fatti viene sovvertita, le argomentazioni del “nemico” vengono soffocate e nascoste. Occorre infatti avere l’accortezza di cercare nei media ungheresi per poter sentire direttamente la voce del premier Viktor Orbán e capire con quali argomenti sostiene la propria legge. Dall’emittente ungherese Kossuth Radio allora possiamo comprendere se si tratta di qualcosa di davvero oppressivo e omofobo oppure no.
«La nostra legge», dichiara ai microfoni il premier magiaro, «non si applica alle persone con più di 18 anni. Questa legge è una legge per proteggere i nostri figli. Chiunque abbia più di 18 anni non è coperto da questa legge. Vivano come vogliono. Gli adulti quale orientamento, stile di vita e percezione abbiano, dipende da loro. Ma quelli che non sono adulti, cioè bambini e adolescenti devono essere protetti. E questa legge riguarda il modo in cui li proteggiamo. E se i membri della comunità gay leggono bene questa legge, vedranno anche che il punto di partenza è che l’educazione sessuale dei bambini appartiene esclusivamente ai genitori. L’educazione sessuale dei bambini non può essere presa in carico da nessuna istituzione. I bambini appartengono ai genitori. Non alla scuola, non allo Stato. Padre e madre decidono sulla loro educazione. I diritti dei genitori devono essere garantiti e i minori devono essere protetti dall’accesso a contenuti contrari all’idea educativa secondo cui i genitori li stanno crescendo. Una delle questioni importanti è chi decide in merito all’educazione dei bambini nell’Unione europea, e l’Ungheria insiste sulla posizione secondo cui l’educazione dei nostri figli dovrebbe essere decisa dai genitori». Le domande ora sono: davvero in questa ratio spiegata dal premier si intravede omofobia? Davvero è giustificata la feroce persecuzione che viene fatta contro l’Ungheria e l’impietosa condanna delle sue politiche? Per chi avesse ancora dubbi e non si fidasse delle parole di Orbán, qui può trovare l’intero testo della legge, tradotto in italiano, con la connessa sfida a trovarci dentro dell’omofobia.
È doveroso tifare Ungheria.
No, ovviamente no. Si tratta di una legge che tiene conto di alcuni aspetti che fino a non molto tempo fa erano considerati ovvi e normali, in quanto conformi allo sviluppo individuale di ogni persona e al primato della famiglia rispetto allo Stato per quanto concerne l’educazione della prole. Non ci sono barriere, divieti, atti oppressivi nei confronti della comunità omosessuale, non si stabilisce l’impiccagione per i gay, come in taluni paesi islamici: c’è una scelta di governo pienamente legittima e coerente con l’immodificabile statuto dell’umano e dell’individuo, e si riconosce la piena libertà degli omosessuali a viversi in pace il proprio orientamento. È tutto questo una violazione dei diritti umani? Sì, ma solo se si considera parte dei diritti umani la possibilità per un gruppo minoritario di persone di mettere le mani nei cervelli e nelle coscienze in autonoma e autodeterminata evoluzione di bambini/e e ragazzi/e. Solo se l’autorizzazione all’indottrinamento su vicende di cui essi sono totalmente ignari e disinteressati viene fatta rientrare nel novero dei diritti umani. Non è chiaro quando e come questo inserimento sia avvenuto: noi eravamo rimasti che diritti umani erano quelli all’istruzione, alla salute, al lavoro, alla felicità, il tutto in un contesto di assoluta uguaglianza tra tutti gli individui. Dev’essere accaduto qualcosa che ha consentito a qualcuno di ricomprendere tra i diritti umani quello della lobby queer di occuparsi della sessualità dei minorenni. Quel qualcosa è sfuggito a molti, ma evidentemente non al governo ungherese (né a quello polacco), che non ritiene che quello sia un diritto, né tanto meno un diritto umano universale, e giudica dunque doveroso difendere la propria gioventù da invasioni inappropriate.
Forse il problema ungherese è proprio questo: sta difendendo i diritti umani universali di una categoria, bambini e minorenni, destinati al pasto ideologico di una mostruosità fuori dalla realtà, un gruppo di interessi che nel tempo ha acquisito un potere economico e politico eccezionale, come l’andamento dei campionati europei sta dimostrando. A guardarla in faccia, questa mostruosità, viene voglia di ritirarsi dalla battaglia per lasciarla dilagare. Dà l’idea di una piena travolgente, impossibile da frenare. Ecco allora che nasce l’istinto di lasciar passare lo tsunami, sapendo che si disperderà nel nulla e sperando che dopo rimanga qualche coccio da rimettere insieme e da cui ripartire. Tuttavia segnali capaci di incoraggiare la resistenza ci sono, alcuni baluardi si ergono ancora: Ungheria, Polonia e Vaticano, ad esempio. Ma soprattutto ci sono le contraddizioni che minano alle basi la mostruosità che avanza, mostrando la sua intima debolezza. Le cose oggi sono infatti molto più ipocrite e contraddittorie di quanto sembri: è evidente ad esempio che si tratta di un delirio tutto occidentale, un cancro che sta divorando soltanto la civilizzazione europea e anglo-americana ed è quindi tutt’altro che mondiale, come si tende a far credere. Sul web impazzano le ipocrisie dei grandi brand che arcobalenizzano i propri loghi, ma solo nell’area occidentale, lasciandoli ipocritamente nella loro versione neutra sui profili visibili in quelle aree geografiche dove la follia queer proprio non attecchisce (area araba-mediorientale, area slava, africana). Molti poi ironizzano sui prossimi mondiali di calcio in Qatar, sfidando la lobby LGBT a esibire il proprio potere come fa oggi agli europei, cosa che si guarderà bene dal fare. Il ventre molle della mostruosità sta proprio lì, nella comprensione collettiva che si tratta di una malattia localizzata, strettamente connessa con il degrado culturale della civiltà occidentale a guida anglo-americana. Una malattia che vuole colpire e divorare i nostri figli, bambini e ragazzi. Tanto dovrebbe bastare a ogni persona di buon senso, per tifare Ungheria: non in senso calcistico, però, ma sotto il profilo politico, etico e dell’attivismo quotidiano.