Una delle tante attività degli enti pubblici è dare in appalto all’esterno determinati servizi. C’è un intero codice che regolamenta la questione, anche perché in ballo in genere ci sono molti molti soldi (pubblici) e il rischio di pasticci e corruzione è sempre dietro l’angolo. Per questo comuni e regioni, quando necessitano di servizi esterni, emanano un bando pubblico, con regole precise e spesso molto severe. Le aziende private che vogliono gareggiare per ottenere la commessa, mandano le loro offerte, dopo di che l’ente pubblico decide e affida il lavoro. Capita poi che alcuni, particolarmente zelanti, aggiungano nei bandi clausole non previste. È capitato per il Comune di Salve, in provincia di Lecce, che nel 2020 ha emanato un bando per l’assegnazione di un posteggio finalizzato all’attività di commercio pubblico dove era previsto un “bonus” nel punteggio complessivo se l’azienda partecipante era guidata da una donna. La logica della disposizione è, ovviamente, quella di “favorire l’imprenditoria femminile”, anche se non è chiaro perché la si debba favorire. Ci sono prove che le aziende guidate da donne danno più lavoro, muovono meglio l’economia, falliscono di meno, sono più efficienti? No. Dunque non c’è ratio in generale per questo tipo di incentivi. O meglio c’è, ma è puramente ideologica.
Ed è proprio l’ideologia a guidare la mano dei dirigenti del Comune di Salve, che inseriscono la via preferenziale legata alla proprietà femminile dell’azienda che concorre al bando. Ed è infatti una di quelle a vincere, proprio grazie al “bonus”. Il secondo arrivato in graduatoria è un imprenditore (di sesso maschile), che però non ci sta e ricorre al TAR della Puglia. Esito: i giudici amministrativi fulminano il bando del Comune e annullano l’esito della gara. «L’assegnazione ‘tout court’ di un ulteriore punto per l’impresa femminile», scrivono i giudici, «viola il divieto, normativamente imposto in primo luogo a livello costituzionale, di ogni discriminazione sulla base del sesso». Alla buon’ora. Qualche toga ricorda ancora l’esistenza dell’Art. 3 della Costituzione. Certo al TAR i magistrati amministrativi non sono immuni dalla propaganda generale, infatti nella sentenza fanno un paio di scivoloni che la dicono lunga sulla pervasività dell’ideologia tossica femminista. Scrivono infatti che il bando del Comune di Salve (corsivi nostri): «ridonda in una previsione oggettivamente discriminatoria per il sesso maschile, ossia in una sorta di discriminazione al contrario». Come sarebbe a dire “al contrario”? Metterla così significa dare per scontato che nell’ordinarietà delle cose sono le donne a essere discriminate, il che non è vero. Qui c’è lo stesso fenomeno per cui se una donna perseguita un uomo i giornali parlano di “stalking al contrario”. Pregiudizi sessisti e discriminatori di carattere antimaschile, né più né meno.
Rimangono i pochi a salvare gli uomini dalle discriminazioni.
Allo stesso modo i magistrati del TAR temono, si vede, che la loro decisione possa scatenare qualche polemica di dimensioni nazionali, e allora nel dispositivo cercano di mettersi al riparo. Dicono infatti a chiare lettere che il “bonus rosa” «viola i principi di non discriminazione e di parità di trattamento tra donne e uomini, sanciti dalle plurime disposizioni sovranazionali, costituzionali e legislative, oltreché dei principi, di derivazione comunitaria, di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione fra operatori economici», ma tengono anche a precisare che le intenzioni dell’amministrazione locale erano sacrosante perché iscrivibili «nell’alveo delle misure di sostegno alla imprenditoria femminile, adottate con il meritorio obiettivo di promuovere le pari opportunità in un settore evidentemente caratterizzato da un tasso di disparità uomo-donna». Disparità di che, giudici cari? Siamo nell’ambito della libera impresa, chiunque può aprire un’azienda, stare sul mercato e partecipare a bandi pubblici. Nessuno vieta alle donne di aprirsi un’impresa e se le imprese a guida femminile sono meno è perché poche donne scelgono la strada dell’imprenditoria. Di quale disparità andiamo dunque cianciando? Con questa aggiunta è piuttosto evidente che i magistrati del TAR si stiano in qualche modo parando le spalle da eventuali polemiche, quasi sembra che si scusino del tipo: «perdonateci, qua dobbiamo proprio far rispettare la legge, ma siamo comunque dalla vostra parte…». Peccato: così un atto di giustizia viene sporcato da un dogma puramente ideologico e privo di fondamento.
Sì, perché c’è qualcosa di più profondo in questa forma di scuse dei magistrati, dietro al loro istintivo parlare di “discriminazione al contrario”, dietro al loro endorsement per le corsie preferenziali riservate all’imprenditoria femminile. C’è la solita idea: da secoli, da sempre le donne vivono in uno stato di sudditanza, oppressione, minorità a causa di un volontario progetto di dominazione maschile. Qualunque esempio, anche il più banale, tratto dalla storia umana smentisce all’istante questo preconcetto, purtuttavia esso permea di sé fino nelle radici più profonde tutta la cultura diffusa, inclusi i magistrati. Si tratta di una bugia ripetuta un numero sufficiente di volte e dunque divenuta verità. E a quella verità consegue sempre in automatico la legittimazione di “discriminazioni positive”, che è il nome politicamente corretto dato a una forma di risarcimento a favore della sfera femminile per i tanti secoli trascorsi sotto il pugno di ferro dei maschi. Data per certa la discriminazione delle donne ad opera degli uomini, diventa “discriminazione al contrario”, non discriminazione e basta, quando applicata a parti invertite. Non solo: quella a parti invertite denota una forma di “giustizia riparativa”, quindi accettabile e legittima. Da lì gli incentivi per l’imprenditoria, le quote rosa, le leggi repressive implicitamente indirizzate contro la sfera maschile e tutto il resto che ben conosciamo. Soprusi legalizzati basati su una bugia storica. Come se gli uomini si organizzassero per recriminare che storicamente solo il loro genere è stato mandato a morire in guerra, e pretendessero ora un risarcimento da chi, per secoli, se n’è rimasta al sicuro in casa mentre mariti, figli, padri e fratelli andavano a farsi sbudellare. La (il)logica è la stessa, ma grazie all’ossessivo battage femminista è diventata legge assoluta . A salvare gli uomini dalle discriminazioni, come si vede con la vicenda del TAR della Puglia, rimangono allora poche leggi di base e alcuni timidi e impauriti magistrati a farle rispettare.