Abbiamo riscontrato settimana scorsa quali e quanti cortocircuiti abbia creato la vicenda della povera Saman, scomparsa (probabilmente uccisa dallo zio) dopo aver rifiutato di sottostare alla decisione della famiglia a che sposasse un cugino. Si è letto e sentito di tutto in merito: femminicidio sì, femminicidio no; questione religiosa sì, questione religiosa no; meglio appoggiare la ricerca di consenso politico sulla lotta alla misoginia, rischiando di risultare razzisti, o meglio puntare alla lotta al razzismo, rischiando tutta la gogna conseguente al non pagar pegno al femminismo suprematista? Veri e propri fuochi d’artificio nel cielo plumbeo che sovrasta e schiaccia l’opinione pubblica italiana, con il progressismo postmodernista che si affolla sul cadavere della giovane strappando ognuno tutto quello che può, e le aree legate alla destra impegnate solo ad additare l’immigrazione e l’Islam come causa di ogni male.
Uno scenario miserabile, che trasforma tutto in una mega fake news utile a dividere l’opinione pubblica in due partiti che si contrappongono e si odiano visceralmente, con il non indifferente risultato di far scomparire la verità dei fatti. Che è composta essenzialmente da due fattori: il primo è che la prassi del matrimonio forzato (e dell’uccisione “d’onore” di chi cerca di sottrarvisi) non ha nulla a che fare specificamente con la religione musulmana. Esattamente come l’infibulazione, si tratta di pratiche circoscritte ad alcune tradizioni locali portate avanti da un tipo specifico di clan o famiglie particolarmente refrattarie all’evoluzione socio-culturale moderna. Non molti anni fa il “Servizio nazionale contro i matrimoni forzati” della Federazione Svizzera registrò una molteplicità di casi, rilevando, tra le altre cose, che «tra le vittime ci sono cristiani, musulmani, buddisti, indù… In altre parole l’appartenenza religiosa può svolgere un ruolo, ma non è la causa principale dei matrimoni forzati». Si mettano dunque il cuore in pace leghisti, fratelliditalisti e destrorsi vari: attaccare l’Islam in questo caso serve al massimo a denotarvi come capre.
Via alla splendida festa di morte.
Il secondo aspetto è forse il più scomodo: ciò che è accaduto a Saman è rilevante perché è accaduto sul territorio italiano, sotto la giurisdizione italiana, nello scenario della società italiana, ma all’interno di una famiglia pakistana. Due mondi che non si sono integrati, uno è rimasto un corpo estraneo interno all’altro: la famiglia di Saman evidentemente non ha saputo, o meglio non è stata indotta/costretta, a prendere coscienza di non essere più in Pakistan bensì in un contesto estremamente diverso, dunque si è sentita legittimata a perpetuare un orrido costume che disgraziatamente riteneva legittimo. Non è irrilevante che ovunque un occidentale si installi a vivere, specie in aree socio-culturalmente molto diverse da quella occidentale, per sua stessa inclinazione si adegui alle leggi, agli usi e ai costumi di chi lo ospita. Quella di condurre la propria vita altrove è una scelta radicale che richiama responsabilità altrettanto radicali e in questo senso vanno le norme e la pressione dei pari che si possono riscontrare i molti paesi che tutelano severamente la propria identità nazionale e popolare. In quest’ottica il dito si ficca violentemente nella piaga italiana: quel poco di orgoglio identitario per la nostra cultura, storia, società è stato gradualmente cancellato dalle necessità del business e del mercato legato all’immigrazione indiscriminata, rendendo del tutto inefficaci, anzi inesistenti, tutti i possibili processi di integrazione dei nuovi arrivati. Non fosse stato così, la famiglia di Saman avrebbe saputo, avrebbe sentito sulla propria pelle che, per stare in Italia, doveva abbandonare determinate pratiche e convinzioni incompatibili con le nostre leggi, i nostri usi, la nostra cultura. Saman sarebbe ancora viva.
Queste due verità, le uniche derivabili dalla tragica vicenda della ragazza, restano coperte dal rumore mediatico e dalle baruffe politico-sciacalle che vi si sono innestate sopra, il tutto impregnato da un’ipocrisia mostruosa derivata, ça va sans dire, dalla chiave di lettura imposta dal femminismo nazionale. Quello di Saman è un femminicidio, si dice. Colpevole è il maschilismo, la maschilità tossica, la cultura patriarcale, sia essa autoctona o declinata all’islamica, poco importa, basta che tutto sia riportato alla chiave di lettura solita: la colpa è della sfera maschile, la vittima è sempre la sfera femminile. C’è chi si è adontato per la nostra precisazione nell’articolo di giovedì relativa al fatto che l’obbligo matrimoniale imposto a Saman gravava anche sul cugino, della cui volontà nessuno ha ritenuto di doversi occupare. Nessuno sa, ancora oggi, se questi fosse felice e desideroso di sposare la ragazza oppure no. Il concetto di base è che, quand’anche non fosse stato felice, chi se ne frega: abbiamo una vittima di sesso femminile, è quella che conta. D’altra parte, se Saman si fosse piegata e quand’anche il cugino non avesse voluto sposarla, a perderci sarebbe stata sempre e comunque lei. Il cugino infatti si sarebbe valso della nota “cultura dello stupro” e avrebbe avuto carne sessuale sempre disponibile per la sua maschilità predatoria, dunque resta colpevole a prescindere. Senza contare che le cose sono andate diversamente: a sparire è stata Saman, probabilmente uccisa, lui invece è ancora vivo, dunque via alla splendida festa di morte sui media e da quella fogna senza fondo che è la bocca di opinionisti e politici.
Le immagini dell’arresto dell’assassino di Mohamed Ibrahim, pubblicate da “Torino Today”.
Gli uomini morti sono irrilevanti. Anzi non esistono.
Sì ma… e Mohamed Ibrahim? Voi direte: e chi è?. Mohamed Ibrahim è un ragazzo di cui pochissimi di voi avranno sentito parlare. Ve ne parliamo noi. Era un ragazzo pakistano di 25 anni. Diciamo “era” perché è stato trovato decapitato il 9 giugno nella sua abitazione in Corso Francia a Torino. Il giorno dopo il suo assassino è stato catturato: è un altro venticinquenne, pakistano anche lui. Appena arrestato si è detto «sconvolto per tutto il sangue che è uscito quando gli ho tagliato la testa». Movente di questo sconvolgente assassinio? Mohamed Ibrahim era stato destinato a sposare una parente dell’arrestato, gli erano anche già stati consegnati i soldi (la “dote”) per organizzare il matrimonio, che però lui non voleva. Già, proprio come Saman. Il suo assassino l’ha raggiunto per punirlo di questa sua opposizione, oltre che per riprendersi i soldi. La famiglia della promessa sposa è probabilmente meno organizzata di quella di Saman, dunque il corpo non è stato fatto sparire: Mohamed Ibrahim è stato decollato senza tante storie e lasciato lì nel suo appartamento. Reazione della stampa, degli opinionisti, dei politici a questo “caso-Saman” a sessi invertiti? Eccola: … Sì, è riducibile, a confronto con l’esposizione mediatica dedicata a Saman, a tre puntini di sospensione, non di più. Una notizia su “La Stampa” di Torino, qualche trafiletto sull’arresto dell’omicida e tanti saluti. È già fin troppo così.
La realtà è bizzarra, la vita è una commedia (come diceva qualcuno): poco più di un mese dopo la scomparsa di Saman, caso di cui si dibatte tuttora, accade un fatto che spazza via in un colpo solo il 99% delle chiacchiere farlocche fatte sulla povera ragazza di Novellara. E sì che in moltissime non stavano nella pelle dalla gioia per il pretesto fornito dalla vicenda, utile per attaccare ancora più ferocemente la sfera maschile, e non si sono risparmiate parole su parole, scritte e orali, in questo senso. Poi arriva Mohamed Ibrahim, tenendo la sua testa fra le braccia come nelle immagini di certi martiri, e dal lago di sangue in cui è stato lasciato addita la malafede e la miserabilità di tutta la comunicazione pubblica nazionale e la politica al seguito. Le chiacchiere stanno a zero, dice quella testa: per Saman si è sollevato un caso nazionale inquantodonna e sul banco degli imputati sono finiti tutti gli uomini e un’inesistente “cultura maschilista”, mentre per Mohamed Ibrahim, a parità di condizioni e movente, ci sono soltanto silenzio e indifferenza. È un modello standard di come vanno le cose. Anzi un doppio standard, asservito a una gigantesca bugia, che si replica continuamente e si diffonde più velocemente e più profondamente di un virus. Tra Saman e Mohamed Ibrahim passa, dal lato della comunicazione e dell’attenzione politica, la stessa differenza che c’è tra 40 cosiddetti “femminicidi” e 204 uomini morti ammazzati all’anno. Esistono soltanto i primi, i secondi sono irrilevanti. Anzi, non esistono proprio.