«Assolti da stupro di gruppo nel 2015, la Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia: nella sentenza pregiudizio verso le donne»: così il Fatto Quotidiano. Il titolo è fuorviante, crea un nesso tra l’assoluzione da parte del tribunale italiano e la condanna della Corte Europea lasciando credere che il pregiudizio verso le donne sia nell’assoluzione stessa. È falso, la condanna all’Italia non arriva per aver assolto i ragazzi dall’accusa di stupro. La violenza sessuale non c’è stata. Rapporti sessuali plurimi, ma consenzienti. La Corte chiarisce senza ombra di dubbio che i fatti del 2008 non erano configurabili come reati. Forse moralmente discutibili, “incresciosi” li definisce testualmente la sentenza, ma non penalmente censurabili. Aspetto fondamentale: la conclusione della Corte d’Appello non viene contestata nemmeno dalla presunta vittima, infatti l’oggetto del ricorso alla CEDU non è per l’assoluzione ritenuta ingiusta, ma per le frasi contenute nelle motivazioni: «linguaggio e argomenti che veicolano pregiudizi sul ruolo delle donne». Appare un tentativo neanche tanto velato dei giudici UE di condizionare le corti italiane: dalla fase istruttoria non deve emergere il comportamento della presunta vittima, la lingerie “mostrata” la sera della presunta violenza, le osservazioni sulla vorace promiscuità omosessuale ed eterosessuale e le abitudini della giovane di accompagnarsi con partners occasionali anche – ma non solo – la sera del presunto stupro. Ancora la CEDU: «le autorità dovrebbero evitare di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni dei tribunali». Non c’è alcuno stereotipo sessista, si chiama fase istruttoria.
È il lavoro che devono fare gli inquirenti per raccogliere il maggior numero possibile di elementi valutativi al fine di prendere una decisione. Si tratta quindi di una normale fase istruttoria finalizzata a raccogliere informazioni (fatti, non opinioni) che coinvolge soggetti ambosessi: anche un ragazzo potrebbe esibire la propria biancheria intima a degli amici occasionali, anche un ragazzo potrebbe essere bisessuale, anche un ragazzo potrebbe avere abitualmente rapporti occasionali, anche un ragazzo potrebbe esibire gioiosamente la propria disinibita avidità sessuale. La casistica giudiziaria è immensa: per quale motivo i particolari – anche i più turpi e morbosi – emersi nel processo sono legittimi se riguardano un ragazzo, un anziano, un sacerdote, un extracomunitario, un carabiniere, un tossicodipendente, un insegnante, un allenatore sportivo o qualsiasi altra persona, ma diventano vittimizzazione secondaria se riguardano una ragazza? Per la Corte CEDU un’istruttoria troppo approfondita rischia di “ostacolare una protezione efficace dei diritti delle vittime di violenza”. Ma un particolare sembra sfuggire alla CEDU: il processo ha dimostrato che la vittima di violenza nel caso specifico non fosse affatto vittima di violenza. La ragazza ha avuto un comportamento fin troppo disinvolto, ma ampiamente consensuale; non è stato commesso alcun reato.
Si tratta del diritto alla difesa costituzionalmente garantito.
Proviamo a fare chiarezza. Nel 2008: denuncia per un presunto stupro di gruppo ai danni di una ragazza. Nel 2013 c’è la condanna in primo grado per sei dei sette imputati. Nel 2015: assoluzione in Corte d’Appello per tutti. Nel 2021 l’Italia viene condannata dalla CEDU per pregiudizi sulle donne. I fatti: nel 2008 sette ragazzi – secondo la denuncia – stuprano una ragazza di 22 anni approfittando del fatto che fosse ubriaca. Sei degli accusati vengono condannati nel 2013, la motivazione è “violenza sessuale di gruppo” aggravata dal fatto che la ragazza era ubriaca. Va detto che l’ubriachezza compariva solo nei titoli dei giornali, invece l’aggravante dell’incapacità di intendere e volere dovuta all’eccesso di alcol in realtà non veniva accettata nemmeno per la condanna in primo grado. Dal ricorso in Appello emerge una realtà diversa: la ragazza era consenziente, cosciente e consapevole, non era affatto ubriaca. Non ha mai espresso il proprio diniego al sesso di gruppo, né esplicitamente, né lasciandolo intendere, né verbalmente, né con i propri comportamenti. La stessa sera si è accompagnata con altri tre partners occasionali oltre ai sei accusati di stupro. Nella propria versione dei fatti ha mentito cadendo 29 (ventinove) volte in contraddizioni, falsità ed inesattezze, il tutto avvalorato dalle testimonianze di amici ed amiche della ragazza stessa.
Le prove della vistosa inattendibilità della presunta vittima sono emerse dalle indagini difensive effettuate dai legali degli accusati. È comprensibile che abbiano rilevato particolari imbarazzanti e poco piacevoli da leggere per tutti: la ragazza stessa, i genitori, il fidanzato dell’epoca, i testimoni, il centro antiviolenza dell’Ospedale Careggi, il centro antiviolenza Artemisia che ha assistito la presunta vittima. Ma è lecito chiedersi cosa avrebbero dovuto fare giudici e avvocati. Se la presunta vittima di stupro si é appartata nei bagni più volte con partners diversi, bisogna fingere di non saperlo? Se dagli esami di laboratorio risulta che sulla maglietta della ragazza ci fossero tracce di 4 diversi tipi di sperma, 3 dei quali non appartenenti a nessuno degli accusati, la cosa avrebbe dovuto essere taciuta per non urtare la sensibilità della presunta vittima? Si tratta del diritto alla difesa costituzionalmente garantito, ma forse i legali non avrebbero dovuto esercitarlo per non mortificare la ragazza.
«Avvocato, c’erano parecchi elementi a discolpa dei nostri figli, perché non li ha tirati fuori?».
«Beh, poi la ragazza ci sarebbe rimasta male».
«Chissenefrega, quella prima va in giro a dispensare le sue grazie a mezza Firenze e poi ci ripensa e dice di essere stata violentata mettendo nei guai i nostri ragazzi».
«Ok, ma se esce fuori tutto poi la CEDU ci tira le orecchie, meglio tacere».
«E chissenefrega pure della CEDU, roviniamo degli innocenti perché non si può dire la verità?».
«Datemi retta, meglio non dire le cose come stanno».
«Così Artemisia è contenta?».
«Artemisia non lo so, ma la CEDU si».
Dai tracciati delle celle agganciate dai cellulari risulta che i tempi e i luoghi del presunto stupro smentiscono la narrazione della presunta vittima. La ragazza sostiene di essere stata tanto ubriaca da non reggersi in piedi (e quindi da non poter fuggire né opporre alcuna resistenza agli stupratori), ma numerosi testimoni l’hanno vista esibirsi sul toro meccanico, performance che richiede equilibrio, agilità e riflessi pronti. Dopo il sesso orale praticato nei bagni a un ragazzo del gruppo, torna a ballare mostrandosi disponibile con tutti. La Corte d’Appello scrive: «allusioni e strusciamenti da parte del gruppo sulla pista da ballo venivano accettati dalla ragazza in un clima di allegria». In un clima di allegria. In certi ambientacci definirebbero la ragazza “una zoccoletta da due soldi”, oppure “un troione da paura” direbbero altri. Sbagliando, tutti: mai infierire su una persona problematica. Infatti la Corte d’Appello si limita a scrivere “disinibita”, ma alla CEDU non sta bene. I giudici d’Appello sostennero che con la sua denuncia la donna aveva cercato di «rimuovere» un suo «discutibile momento di debolezza e fragilità».
Per i giudici di Strasburgo questo passaggio è «fuori contesto e deplorevole». Tradotto: la ragazza è liberissima di divertirsi come preferisce, se ama una promiscuità sessuale estrema nessuno può bacchettarla. Almeno fino a quando non si pente di ciò che ha fatto deliberatamente e denuncia di essere stata costretta a subire atti che invece tutti i testimoni sostengono fossero accettati “in allegria”, testuale. Resta il fatto che non c’è stato alcuno stupro, questo è stato appurato dalla Corte d’Appello, ma la stampa continua ad indurre i lettori all’equivoco sostenendo che la CEDU avrebbe sanzionato l’Italia per aver violato la dignità della ragazza “stuprata”. Avendo a disposizione le 21 pagine della sentenza integrale sarebbe sin troppo facile indugiare sui tanti particolari, ma veramente tanti, dai quali emerge il ruolo non solo attivo ma addirittura propositivo della ragazza nel consumare sesso di gruppo. Non ci interessa rimestare morbosamente nel torbido, preferiamo sorvolare su mille altri dettagli limitandoci a prendere atto dell’assoluzione: non c’è stata violenza sessuale poiché la ragazza era ampiamente consenziente. Nonostante l’assoluzione, però, c’è chi continua a pensarla diversamente.
“Non ha bisogno di leggere” perché “già sa”.
La Corte d’Appello aveva assolto 7 giovani definendo la vittima “disinibita”. Oltretutto gli assolti erano 6, la posizione del settimo era stata stralciata già in primo grado perché la sera del presunto stupro nemmeno era presente, accusa di stupro più falsa di una banconota da 11 euro. Da cogliere l’ulteriore mistificazione nei confronti dei lettori, l’assoluzione non è oggetto di critiche né tantomeno di sanzioni da parte di Strasburgo. Inoltre colei che ci si accanisce a definire “la vittima” non è vittima affatto, non è l’opinione di chi scrive ma la decisione di un collegio composto da tre magistrati di cui due di genere femminile. La presunta vittima, oltre ad essere oggettivamente disinibita, con le sue accuse ha messo sulla graticola 7 innocenti che hanno dovuto attraversare un calvario lungo 13 anni e non ancora sopito. Chi sono le vere vittime? Arriva poi il commento di un follower del blog, che aggiunge alcune personalissime riflessioni. Scrive Roberto: «questa vicenda, nella sua interezza processuale e mediatica andrebbe analizzata a fondo, perché mostra uno spaccato chiaro del modo di muoversi dell’associazionismo femminista su più livelli con la più totale spregiudicatezza. Non che altre vicende non siano altrettanto chiare ma in questo caso il testo della sentenza è girato in rete per intero e mostrava chiaramente come le dichiarazioni iniziali da parte delle legali dell’associazione femminista che ha seguito la ragazza erano consapevolmente distorte e funzionali a mobilitare la mandria di utili idioti.
Forse, quando hanno capito che in appello avrebbero perso hanno fatto scattare il piano B, probabilmente per nascondere nel polverone quello che era effettivamente emerso in tribunale e soprattutto distogliere l’attenzione dai presupposti e dagli esiti della loro “assistenza” alla ragazza. Il risultato è stato un delirio collettivo di discorsi sconclusionati, staccati dalla realtà, e coerenti solo con la narrazione standard sulla “cultura dello stupro”. Per esempio: “Non ho letto per intero l’ignobile sentenza assolutoria dei sei stupratori fiorentini (quindi italiani, di buona famiglia, cattolici). Né l’affranta lettera aperta della ragazza, oggi ventinovenne. Non ne avevo bisogno. Lei è sola, disperatamente sola. Nessuno potrà capirla, tranne un’altra donna. E non so se potrà bastarle. Non doveva scrivere. Non doveva discolparsi. Non doveva giustificarsi. Eppure è stata spinta – da sé medesima – a farlo. Ognuna di noi, nelle sue condizioni, si sarebbe comportata come lei. Non ho letto, perché già so.(…)”. Chiamando a raccolta chi “non ha bisogno di leggere” perché “già sa”, con tutto il conformismo annesso, queste organizzazioni hanno potuto mettere in piedi manifestazioni come questa, con le seguenti motivazioni palesemente scollegate con il senso letterale del testo della sentenza e i fatti in essa richiamati.
Perché non credere ai centri antiviolenza?
“La libertà è la nostra “fortezza” Ci riprendiamo la Fortezza perché… – le motivazioni della sentenza di Firenze sono inaccettabili; – questa sentenza ha leso l’autodeterminazione di tutte le donne; – il processo è stato fatto alla ragazza e alla sua vita; – vogliamo sapere perché la procura generale non ha fatto ricorso facendo scadere i termini. Riaffermiamo la nostra libertà: siano processati i violenti e non le vittime! Non vogliamo essere giudicate per come ci vestiamo, per il nostro orientamento sessuale e i nostri comportamenti. Troviamoci martedì 28 luglio alle 21,00 all’ingresso principale della Fortezza da Basso in piazza Bambine e Bambini di Beslan, Firenze”. Il giorno dopo, la stessa gente che ha promosso quella manifestazione montando le frange più esagitate, sfoggiava la più sfacciata ipocrisia parlando di “nota stonata”: “(…)Purtroppo c’è stata una nota stonata quando un gruppo si è staccato dalla manifestazione ed ha esposto uno striscione con la scritta: Italia stupra impunita se non ci sarà giustizia ci sarà vendetta. Il corteo proseguendo verso il centro di Firenze ha scandito i nomi dei sei uomini imputati.(…)”. Una cosetta da nulla… come se non fosse il frutto voluto di una precisa pianificazione e manipolazione fondata sulla menzogna a cui la blogger ha contribuito da una posizione tutt’altro che marginale nelle associazioni organizzatrici».
Dobbiamo parzialmente dissentire. Non possiamo credere che i legali della presunta vittima assistita dal centro antiviolenza Artemisia della rete Di.Re. abbiano fatto dichiarazioni iniziali consapevolmente distorte e funzionali a mobilitare la mandria di utili idioti. Nutriamo incondizionata fiducia nei centri antiviolenza, strutture specchiatamente super partes costrette a vivacchiare con quei pochi spiccioli che ogni anno, anche in piena pandemia, vengono loro erogati. Quale centro antiviolenza suggerirebbe strategie aggressive alle proprie assistite? Quale centro antiviolenza spingerebbe una donna a denunciare anche senza un reale motivo? Quale centro antiviolenza agirebbe in malafede? Quale centro antiviolenza spingerebbe una donna a taroccare la gravità degli episodi denunciati, o inventarli del tutto? Quale centro antiviolenza avrebbe interesse a gonfiare i dati delle richieste d’aiuto ricevute? Crediamo che ogni centro antiviolenza sia sempre al servizio della Verità, quella con l’iniziale maiuscola, mai e poi mai mostrerebbero accanimento contro un uomo ed empatia verso una donna inquantodonna, a prescindere da cosa sia effettivamente accaduto. Per nessun motivo al mondo potrebbero accadere bassezze del genere: le decine di migliaia di archiviazioni e assoluzioni che ogni anno riguardano uomini trascinati in tribunale con accuse che poi si dimostrano costruite sul nulla sono sempre frutto di una cronica incapacità dei nostri magistrati che pretendono – pensa un po’ – di fare il loro lavoro verificando la fondatezza delle accuse invece di accettare acriticamente la versione dei fatti fornita da una donna inquantodonna. Eppure Roberto mostra uno scetticismo che ci lascia perplessi.
Chissenefrega dei tribunali, la vera giustizia si fa in piazza.
È complottista poiché pensa di vedere – lui, noi no… – una macchinazione per fomentare le folle, la stampa e quindi l’opinione pubblica in generale, per gettare benzina sulle fiamme dell’odio. Salvo poi, ottenuto il risultato di far lievitare la rabbia, effettuare una veloce retromarcia e prendere le distanze dalle schegge impazzite che minacciano vendetta se la giustizia non darà loro ciò che vogliono, cioè la testa dei “colpevoli”, e marciano in testa al corteo scandendo i nomi degli stupratori. È un dettaglio insignificante e forse anche fastidioso che la Corte d’Appello li abbia assolti, per certa gente i ragazzi accusati sono e saranno sempre “gli stupratori”. Roberto mostra anche una candida ingenuità nel momento in cui si stupisce, o finge di farlo, per altri sfoghi più o meno deliranti apparsi sul web. Commovente il passaggio in cui dice «chiamando a raccolta chi “non ha bisogno di leggere” perché “già sa”, queste organizzazioni hanno potuto mettere in piedi manifestazioni». Sveglia Roberto, succede sempre così. È una tattica reiterata negli anni, nel 90% dei casi chi scende in piazza non conosce affatto il testo che è stato indotto a contestare. È accaduto per le arrabbiatissime contestatrici del cosiddetto Decreto Pillon, che pretendevano di stroncare senza aver nemmeno mai visto l’intestazione altrimenti avrebbero saputo che non era un decreto ma un disegno di legge. Sta accadendo ora per la legge Zan, di cui i testimonial VIP con la scritta sui palmi delle mani non hanno mai letto l’articolato e non conoscono le implicazioni. Accade per il gender pay gap, per gli slogan “un femminicidio ogni due giorni” e “un reato violento ogni 15 minuti”.
Gli utili idioti, come li definisce Roberto, sono soggetti la cui crescita é frutto di operazioni di propaganda che ricalcano un copione collaudato. Propaganda pianificata da una regia sottile che non ha nulla a che vedere col qualunquismo del gregge. Costruite più sugli istinti che sulla ragione, tali operazioni costituiscono degli esperimenti per misurare il tasso di assoggettamento delle masse e il livello di penetrazione nella società. Il bue aggiogato è fidelizzato all’indignazione, non ha bisogno di conoscere i motivi per cui di volta in volta è chiamato ad indignarsi. Credimi, credimi ciecamente, non devi documentarti. Un’ideologia fin troppo simile ad una religione, devi credere e basta, e se c’è qualcosa che non torna non farti domande ma abbi fiducia nel Guru… mistero della fede. Manipolazione a pioggia, come i titoli che continuano a strillare “non rispettata la dignità della ragazza stuprata”. La ragazza è stata stuprata e i ragazzi sono stupratori, checché ne dica il sistema giudiziario. Chissenefrega dei tribunali, la vera giustizia si fa in piazza.