«Cultura dello stupro (rape culture) è un contesto in cui lo stupro è tollerato e in cui la violenza sessuale sulle donne è normalizzata e giustificata nei media e nella cultura popolare. Essa è perpetuata attraverso l’uso di un linguaggio misogino, l’oggettificazione dei corpi femminili, e la romanticizzazione della violenza. Questa cultura affligge ogni singola donna. Quasi ogni donna e ragazza vive nella costante paura di uno stupro. Gli uomini, in generale, no. Ecco in che modo lo stupro opera quale potente mezzo di subordinazione della popolazione femminile». Il lettore potrà facilmente indovinare la provenienza di questa citazione. Come? Un romanzo di fantascienza distopica? No, sbagliato. Una pagina di diario di guerra proveniente da uno Stato remoto? Errore, provate ancora. La scritta sul muro di un paziente di una clinica psichiatrica? Ma no! Ve lo diciamo noi: è una pagina del Women’s & Gender Center della Marshall University (West Virginia), dipartimento il cui scopo accademico è «celebrare le identità intersezionali… e istituire campagne a supporto dei problemi legati a genere, femminismo e giustizia sociale». Non è l’iniziativa eccentrica di un ateneo peculiarmente sociopatico. Troverete questo concetto insegnato e diffuso pressoché da ogni dipartimento di gender studies statunitense. Potremmo obiettare che, se lo stupro fosse “tollerato” e la violenza sulle donne “normalizzata” e addirittura “giustificata” dai media e dalla cultura popolare (!), ce ne accorgeremmo: magari i nostri figli tornerebbero da scuola raccontandoci di come il maestro abbia insegnato loro che è giusto abusare delle compagne, con pratici esempi illustrati. Vedremmo spassosi sketch incentrati sulla violazione di qualche spettatrice in diretta nei programmi di intrattenimento preserale. I violentatori potrebbero approcciare tranquillamente le vittime nei parchi pubblici, magari incoraggiati dagli astanti.
Sarcasmo a parte, forse se non ci sembra di vivere in un contesto del genere, è perché l’Europa e l’Italia sono società particolarmente civili (come le statistiche più recenti e affidabili dimostrano), mentre gli Stati Uniti sono forse ancora, nel 2021, il Far West. Qui in Italia insomma nessuno potrebbe parlare di rape culture. Vero? Falso. Chi scrive ha incontrato per la prima volta questa formula, e appreso di vivere in una “cultura dello stupro” (con grande choc), da una giovanissima amica che si riferì proprio alla pagina più sopra citata della Marshall University, per dare voce e credibilità ai propri concreti timori. Ovviamente, se non accettate questa rivelazione e la contestate, diventate “parte del problema” voi stessi, in quanto apologisti della rape culture. Come la poetessa ed editrice Emilie Buchwald argomenta in Transforming a Rape Culture (1993), se la persona comune non è consapevole di trovarsi in una cultura dello stupro, e la nega, questa è una prova di quanto essa pervada capillarmente la società. Si tratta di una classica argomentazione circolare, tipico strumento dei complottismi: se accetti l’esistenza del complotto, il complotto è vero; se la neghi, il complotto è stato particolarmente efficace nel nascondersi, e perciò è vero.
Uomini vittimizzati pressoché nelle stesse percentuali delle donne.
Non neghiamo certo l’esistenza della violenza, in tutte le sue forme (né il suo tragico impatto). Ma l’idea di vivere in una società che la giustifica e l’incoraggia è una grande e violenta menzogna. Purtroppo non è affatto una menzogna innocua: la paura che può infondere nelle donne è molto reale, così come l’odio che fomenta contro il genere maschile, ed è uno dei principali motori di una macchina di produzione di denaro dalle proporzioni insospettate. Per una sintetica storia e decostruzione di questa menzogna, suggeriamo il paper ormai classico The Rape Culture Myth (2015), della critica del femminismo Cathy Young. Per chi volesse approfondire, lo strumento più ampio e definitivo per annichilire questa narrazione è l’opera Rape Culture Hysteria (anch’essa del 2015), della femminista dissidente (e vittima di violenza sessuale) Wendy McElroy, vera pietra miliare, lettura irrinunciabile per chi è interessato all’ “altro versante del vero”. Vogliamo ribadire di cosa stiamo parlando, per cui leggiamo un’altra definizione della cultura dello stupro, quella data dalla Buchwald nel suo volume già citato: «è un complesso sistema di credenze che incoraggia l’aggressione sessuale maschile e supporta la violenza contro le donne; una società in cui la violenza è percepita come sexy, e la sessualità come violenta. […] La cultura dello stupro condona quale normale il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne».
Pioniera di questa visione distopica fu la femminista Susan Brownmiller, che in un’opera del 1975, considerata un classico e infarcita di dati farlocchi, teorizzò: « è un processo consapevole di intimidazione per mezzo del quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in un costante stato di paura». I lettori de La Fionda sanno bene come oltre quarant’anni dopo, simili generalizzazioni vivano e prosperino ancora, ad esempio nella narrazione che del femminicidio fa Michela Murgia. Nel suo documentatissimo lavoro la McElroy smonta uno per uno i principali miti su cui la narrazione della rape culture (negli USA) si fonda. Ne citiamo alcuni ad esempio. Un sondaggio telefonico del CDC (Center for Disease Control) del 2013 rilevò che «1 su 5 donne è vittima di stupro» (così i titoli delle testate che ne parlarono). Analizzando il report si scopre ad esempio che due terzi dei casi riportati sotto la classificazione di stupro riguardavano atti sessuali svolti «sotto l’effetto di alcool, droghe, o in stato di incoscienza» (appiattendo la violenza a qualsiasi incontro di sesso avvenuto dopo aver bevuto qualche birra in più) e che contando l’«essere forzati a penetrare», anziché solo il subire una penetrazione, gli uomini risultavano vittimizzati pressoché nelle stesse percentuali delle donne, e prevalentemente da perpetratrici femminili (con una differenza importante: contando i soggetti che hanno riportato di aver subito la prima violenza entro i 10 anni di età, la percentuale trovata dal CDC è del 12,3% del totale delle vittime femminili, contro il 27,8% per le vittime maschili).
In pratica, ingiustizia di genere.
McElroy smonta altri studi “classici” su cui la propaganda della rape culture fanno leva, come il notorio lavoro di Mary Koss pubblicato nel 1988, che trovò una vittimizzazione di 1 donna su 4. Dedica poi un capitolo a esaminare gli studi più affidabili, offrendo una comparazione accurata dei loro campioni, metodologie, definizioni e arrivando, dati alla mano, a una sintesi per niente terroristica ma decisamente più credibile. Un altro mito che viene smontato è una statistica legata alle false accuse di stupro che ne attesterebbe la casistica al 2% del totale – ma è falsa anch’essa (e anche su questo, McElroy offre una comparazione di più studi pervenendo a un dato più realistico che fissa in un range tra il 16% e il 40%). È impossibile sintetizzare nello spazio di un articolo tutti i meriti di quest’opera. Chi ne affronti la lettura seguirà la storia della formulazione della rape culture e il ruolo chiave che ha avuto nella propaganda femminista internazionale degli ultimi decenni, e sarà portato a comprendere molti dei meccanismi che entrano in gioco nel costruire una statistica falsa, o un’argomentazione scorretta nel dibattito sulla social justice.
Per chiudere con le parole dell’autrice: «La “realtà” della rape culture è stata creata dall’incessante diffusione di narrazioni politically correct negli ultimi decenni. I suoi ideologi ne hanno forgiato la teoria e si sono costruiti ad hoc i dati per supportarla. Grazie al loro predominio nelle Università, le femministe hanno reinterpretato i generi, la politica, la storia, la letteratura, la scienza e il comportamento umano in modo da convalidare la loro ideologia. La cultura dello stupro è una menzogna particolarmente perniciosa, perché bolla metà del genere umano – i maschi, ma specialmente i maschi bianchi – quali stupratori o facilitatori dello stupro. Questa calunnia sarebbe denunciata quale crimine d’odio se fosse diretta contro una qualsiasi altra categoria umana, come i neri, gli omosessuali, o le donne. Ma chi calunnia gli uomini è tollerato se non applaudito, perché la menzogna si è travestita da giustizia. La giustizia “di genere” dovrebbe consistere in un uguale trattamento e uguale rispetto per i sessi. In realtà, è diventata la pretesa delle donne di essere privilegiate mentre gli uomini vengono svantaggiati e umiliati. In pratica, ingiustizia di genere».