La Fionda

L’ISTAT ci risponde e di nuovo svela la grande truffa

Lunedì scorso abbiamo chiesto conto all’ISTAT di alcuni aspetti a nostro avviso molto anomali nel report da loro pubblicato il 17 maggio, relativo alle presunte violenze subite dalle donne durante il lockdown. Le nostre perplessità nascevano sostanzialmente dal fatto che l’Istituto avesse acquisito acriticamente i dati del 1522 e dei centri antiviolenza, senza svolgere alcun tipo di verifica sulla loro credibilità e fondatezza. A nostro avviso, e da tempo, del tutto assente per due motivi: il 1522 conteggia le “chiamate” ricevute e non il numero di donne che hanno chiamato. Una sola donna potrebbe chiamare cento volte, tutte verrebbero contate dal 1522 ed è qualcosa di non verificabile dato che le chiamate sono anonime. I dati dei centri antiviolenza poi sono ancora più impalpabili dato che, con la scusa della privacy, non forniscono mai evidenza dei numeri che dichiarano, così prendendosi la libertà di dichiarare un po’ quello che vogliono. Nonostante queste mancanze non da poco, l’ISTAT ha fatto proprie le loro rilevazioni, pubblicando il solito report iper-allarmistico, che però contrasta fortemente con altri dati ben più verificati, pubblicati dal Consiglio Superiore della Magistratura e dalla Polizia di Stato, che per il periodo di lockdown hanno registrato un calo generalizzato delle violenze, in particolare di quelle sulle donne. Abbiamo dunque posto all’ISTAT una serie di domande, a cui l’ufficio stampa dell’Istituto ha risposto qualche giorno dopo.

Avevamo previsto che la risposta sarebbe stata insoddisfacente e, facile predizione, non abbiamo sbagliato. Andare a vedere le carte dell’ISTAT era già risultato utile in passato e lo è di nuovo: nelle loro risposte si nasconde il disvelamento del grande inganno statistico e comunicativo in atto da anni sul tema della violenza di genere. Ma andiamo per ordine. La nostra prima domanda riguardava proprio la mancanza di chiarezza nel report sulla questione chiamate/donne: in più parte i due elementi, sebbene non sovrapponibili, si confondevano, suggerendo una corrispondenza non verificabile, data l’anonimizzazione dei contatti. La risposta dell’ISTAT è, in sostanza: sì, vero, nel report non abbiamo specificato questa cosa, ma l’avevamo già precisato in altri due documenti, qui e qui, dove si specifica che il 1522 riesce a individuare le donne che «hanno chiamato per la prima volta». Sorpresa! Non sapevamo che ci fosse questa possibilità, che tuttavia contrasta subito con la certezza dell’anonimato. Come fanno a saperlo? Registrano il numero chiamante o l’ip in caso di contatto via chat? Nossignori, tutto molto più semplice. Basta andarsi a sorbire i due documenti segnalati e la truffa vi travolge come un treno in corsa. In entrambi si spiega l’arcano, e riguardo alla rilevazione di chi chiama per la prima volta si dice: «Il sistema ad oggi, anche per motivi di privacy, non controlla queste informazioni se non attraverso una domanda che viene rivolta a colui che chiama, con la quale si chiede se sia la prima volta o meno che l’utente si sia rivolto al numero di pubblica utilità». Ah ecco. Quindi si chiede alla persona chiamante e si crede sulla parola. Non male come metodo statistico scientificamente fondato, davvero niente male. In pratica se la Presidente di Telefono Rosa fa 500 chiamate al giorno e rassicura che sia la prima volta, viene conteggiata come 500 “prime chiamate”. Fico fare le statistiche così.

1522 telefono

Believe women, sempre lì siamo, anche per l’ISTAT.

Più convincente è la seconda risposta dell’ISTAT. Chiedevamo come rilevassero i dati socio-demografici delle chiamanti, essendo le chiamate anonime e giustamente ci è stato risposto che durante la telefonata, a seconda delle situazioni, le operatrici possono fare domande specifiche e tenere nota delle risposte. Anche in questo caso, dunque, si crede sulla parola a ciò che l’interlocutrice dice, ma per lo meno la risposta dell’ISTAT è ragionevole. Sempre scientificamente autorevole come una teoria terrapiattista, ma ragionevole. Chiedevamo poi come si conciliavano le rilevazioni allarmistiche del 1522 e dei CAV con i dati reali del CSM e della Polizia di Stato. La risposta è da incorniciare (corsivi nostri): «Il percorso di uscita dalla violenza per una donna vittima della violenza non necessariamente passa dalla denuncia, quindi i dati non sono necessariamente collegati. Il quadro che emerge dalle diverse fonti è molto complesso e solo se completo può essere efficacemente analizzato. Si ritengono altamente attendibili e validi sia i dati della fonte del 1522 (Dipartimento Pari Opportunità), sia delle rilevazioni sui Centri Antiviolenza e sulle Case Rifugio». Per inquadrare al meglio questa risposta occorre vedere come l’ISTAT risponde all’altro nostro quesito, dove chiedevamo perché prendessero i dati non verificati del 1522 e dei CAV e non dalla app “YouPol”, assai più immediata ed efficace. La risposta è stata: «Nel luglio 2020, già l’Istat ha utilizzato i dati delle chiamate all’app “YouPol” e degli interventi delle volanti, che può trovare pubblicato qui». Ottimo! Andiamo a leggerci l’ennesimo documento a cui veniamo rinviati e notiamo che da nessuna parte si cita la app in questione (quindi l’ISTAT ci risponde mentendo). In compenso, a pagina 18, si dice qualcosa di assai più significativo.

Si tratta del capitolo dove l’ISTAT, obtorto collo, raffronta i dati gonfiati del 1522 con quelli assai più realistici delle forze di Polizia, e prende atto del divario abissale. Ne scaturisce uno scenario dove migliaia di donne italiane vittime di una feroce violenza da parte di spietati carnefici, invece di far intervenire le divise, a riprova che si tratta di fatti gravi, preferiscono farsi quattro chiacchiere con un mero servizio di informazioni come il 1522. Ecco perché da un lato il 1522 stesso è subissato di contatti e la Polizia no. Roba da dissonanza cognitiva immediata, ma il cortocircuito ha una spiegazione: «la dinamica è sicuramente complessa», scrive l’ISTAT, preparandosi a una supercazzola che poi sfocia in una conclusione clamorosa (corsivi nostri): «La misura del fenomeno della violenza contro le donne durante l’emergenza sanitaria si potrà avere però solo dai dati dell’indagine sulla violenza contro le donne che grazie ad interviste dirette alle donne, potrà approfondire il tema e fornire delle stime attendibili delle violenze subite nella coppia e al di fuori di essa in questo periodo di emergenza sanitaria». In sostanza: i dati allarmistici del 1522 e dei CAV appaiono ampiamente irrealistici e sono statisticamente non verificabili; quelli delle autorità ufficiali sono verificabili e autorevoli e parlano di un calo netto delle violenze. La contraddizione si risolve “chiedendo alle donne” e considerando le loro risposte come una fonte per “stime attendibili”. Believe women, sempre lì siamo. E in un tipo di believe women molto italiano, quello da cui poi scaturiscono i milioni di donne vittime di violenza, che però poi all’Unione Europea, sempre chiedendo direttamente alle donne italiane, non risultano. Anzi.

statistiche farlocche

Ci vuole sempre meno perché tutto scivoli in conflitto.

Speriamo che già così sia chiaro il meccanismo ideologico e falsificatorio portato avanti dalla santa alleanza tra ISTAT, 1522, centri antiviolenza e la più ampia rete di interessi di ispirazione femminista interessata a dipingere le donne italiane come sistematicamente vittime di bruti uomini italiani. Un teorema che sorregge un grande business, grandi circuiti clientelari e di potere, nonché la scusa giusta per far passare leggi sempre più oppressive e a senso unico. Ma non basta, serve la conferma che così deve essere e non si devono fare domande scomode. Come la nostra ultima all’ISTAT, riguardante l’evidente conflitto di interessi tra la mission e il business del 1522 e CAV e i dati non verificati che forniscono. La risposta dell’Istituto è questa: «Come già espresso precedentemente, si ritengono validi e attendibili i dati delle suddette rilevazioni. Le rilevazioni Istat sui Centri antiviolenza e le Case Rifugio hanno la stessa validazione di qualità di tutte le altre indagini Istat». Rivelate nel loro significato vero e più profondo, queste frasi significano: «per noi i dati sono buoni così, smettetela di rompere il cazzo». Un ISTAT stile Marchese del Grillo, insomma. Però noi, plebei in lotta per una vera parità e per statistiche sensate, non demordiamo: inutile tentare di subissarci di documenti comprovanti sperando che ci passi la voglia di leggere pagine e pagine di dati gonfiati e commenti ideologici. Leggiamo tutto, dall’inizio alla fine. La magagna la troviamo sempre e non manchiamo di evidenziarla. Così, per la seconda volta nel giro di qualche mese, se interrogato, l’ISTAT s’inguaia da solo, dimostrando a tutti di non essere uno strumento di elaborazione statistica al servizio della corretta informazione ma, al massimo, uno strumento di potere in mano a lobby specifiche.

Lunedì scorso già ventilavamo quest’ipotesi, che in realtà abbiamo affermato più volte in passato. Ci chiedevamo, alla luce dell’evidenza della scarsissima credibilità dei dati, come mai nessuno nei media o nella politica volesse andare a fondo, fare inchieste o interrogazioni parlamentari. Non possiamo far altro che chiedercelo ancora e registrare, sotto questo profilo, un’inerzia davvero colpevole. Colpevole per lo meno di complicità verso una costruzione falsificata mirante a dividere e portare allo scontro non più due classi sociali, come capitava in passato, ma due generi per loro natura impostati per cooperare. Sono anche queste rappresentazioni che innescano storture scandalose come gli sconti alle studentesse inaugurate di recente dall’Università di Bari. Un vero atto di sessismo antimaschile che passa pressoché sotto silenzio proprio perché il seme della malapianta cade in un terreno socio-culturale ampiamente predisposto da report statistici come quelli visti fin qui, tradotti per il popolo da un’informazione ugualmente servile verso le lobby del femminismo suprematista. Quello che si sta costruendo è uno scenario di ingiustizia strutturale e sistematica, che non può durare e non durerà. L’inversione di marcia è necessaria e urgente, ora che il malcontento di uomini e donne di buon senso resta ancora sui binari del mero rumoreggiamento e del blando scontento. Attenzione però perché ci vuole sempre meno perché tutto in breve scivoli in un contesto di conflitto. Chi può decidere e influire sulle grandi tendenze è bene che se ne renda conto in fretta.



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