Quando Hillary Clinton, first lady degli Stati Uniti per 8 anni, avvocato, senatrice, miliardaria, Segretaria di Stato per 4 anni, candidata democratica alla Presidenza degli Stati Uniti nel 2016, membro dei consigli d’amministrazione delle multinazionali Walmart e Lafarge, e attuale rettrice della Queen’s University Belfast, afferma di essere “vittima” inquantodonna, a noi, comuni mortali lettori de La Fionda, di fronte a questa denuncia, si aprono due alternative: o riteniamo che mente spudoratamente, una sfacciata ipocrita che non crede in quello che dice, o la riteniamo affetta da dissonanza cognitiva. Chiamatemi pure ingenuo, ma io credo che quasi tutte le femministe siano pienamente convinte delle stupidaggini che affermano, compresa Hillary Clinton. Come i bambini, le femministe sono affette da dissonanza cognitiva, il loro desiderio di sentirsi vittime obnubila il loro pensiero: credo sinceramente che Hillary sia convinta di aver vissuto una vita peggiore e più faticosa di quella vissuta dal marito, Bill Clinton, ma anche di quella vissuta da qualsiasi altro uomo, anche di quelli che dormono per strada. La dissonanza tra il desiderio di queste donne di essere al centro dell’attenzione di tutti e la realtà di chi sta peggio e merita molto di più di loro questa attenzione – e meriterebbe anche la loro attenzione – conduce queste donne a vittimizzarsi e a elaborare la conclusione che “la vittima sono io inquantodonna“. Di conseguenza, in linea con la realtà, il sacrificio speso dalle figure storiche e guida del movimento femminista a favore della propria causa nella lotta contro l’oppressione delle donne è tanto inesistente quanto l’oppressione che proclamano di combattere. Detto in altre parole, il loro sacrificio è direttamente proporzionale all’ingiustizia che vivono di persona: nessuna. Il sacrificio speso in vita da Hillary Clinton, eroica combattente contro il patriarcato, per la “liberazione” delle donne, non va oltre a qualche conferenza, chiacchierata, incontro e libro. Ridicolo, se paraganato ai sacrifici spesi da uomini e donne in tante altre rivoluzioni avvenute lungo la Storia.
Se Hillary Clinton raffigura oggigiorno molto bene la capricciosa velleità di voler essere vittima benestante inquantodonna (penso che un esemplare italico possa essere, ad esempio, Laura Boldrini), la figura di Virginia Woolf non sfigura affatto come rappresentante della prima ondata femminista (a onor del vero la prima ondata è piena zeppa di queste figure). La scelta di Virginia Woolf non è casuale. Figura emblematica del femminismo grazie a due saggi, Una stanza tutta per sé (A Room of One’s Own) e Le tre ghinee (Three Guineas), si tratta di una figura innalzata a esempio morale e oggi quasi divinizzata. El Mundo – secondo giornale spagnolo per tiratura e primo giornale online nel mondo in lingua spagnola – la definisce «mujer con mayúsculas» (donna con la D maiuscola). Prima ancora di iniziare a demolire l’aureola di esemplarità morale di queste tenaci combattenti femministe, vorrei fare due premesse. Primo, ho già detto in altri interventi che queste donne sono figlie del loro tempo e della classe sociale alla quale appartengono; spesso sono tanto guerrafondaie, nazionaliste, conservatrici o razziste quanto la società nella quale si muovono. Se sono operaie, per tanti versi, ragionano e si comportano come il resto della classe operaia; se sono aristocratiche la pensano e si comportano come gli altri aristocratici. Ciò non rende queste donne né delle diaboliche arpie né degli edificanti modelli da emulare, come vorrebbe farci credere il femminismo. Secondo, in specifico su Virginia Woolf, la mia critica è rivolta verso l’immagine moralmente edificante che costruisce su di lei il femminismo, in nessun modo voglio esprimere un giudizio di valore sul talento e sulla creazione artistica e letteraria della scrittrice.
Figuriamoci se si interessano per le condizioni degli operai.
Una stanza tutta per sé (1929) è uno dei testi più citati dal movimento femminista. La Woolf denuncia le difficoltà delle donne e l’oppressione del patriarcato. Era convinta di quel che scriveva? In che modo quest’oppressione quotidiana sulle donne non la faceva dormire? In che modo la colpiva di persona, lei e le donne della sua cerchia, e se ne lamentava? In che modo questa la impegnava in vita a lottare, in una causa così meritevole, contro le ingiustizie che vivevano le donne? Per rispondere a queste domande, Virginia Woolf ci ha donato un lascito straordinario, centinaia di lettere che parlano della sua quotidianità e dei suoi interessi, raccolte e pubblicate dopo la sua morte. Si tratta di circa cinquecento lettere tra Virginia Woolf e la sua amica/amante Vita Sackville-West, scambiate tra il 1922 e il 1941. Vita Sackville-West è una donna aristocratica con una vita sessuale piuttosto dissoluta, senza discriminare tra uomini e donne. Il contenuto dello scambio epistolare narra la quotidianità di queste due donne, i loro sentimenti, i loro vissuti, i loro interessi. Talvolta sdolcinate, non di rado di una banalità pazzesca, parlano delle loro passeggiate, giardinaggio, tennis, viaggi, vacanze, feste, incontri, della scrittura di poesie e lettura della rivista “Vogue”, del loro amore lesbico, delle loro uscite notturne in macchina, da sole, «per le strade deserte, tra i villaggi addormentati del Sussex e del Kent». Insomma, della loro vita mondana, privilegiata. Per inciso, da notare la guida femminile, tra l’altro da sole e di notte, raccontata in maniera del tutto naturale, in Inghilterra anno 1925, in linea con l’autore Scott Fitzgerald che nel suo romanzo Il grande Gatsby (1925) descrive scene simili, negli Stati Uniti, senza mai sottolineare la straordinarietà dell’evento, al contrario. Negli anni ’20 era pacifico per tutti che le donne benestanti e/o aristocratiche sapessero e potessero guidare.
Dal contenuto delle carte non compare alcuna preoccupazione o impegno sociale, da nessuna delle due. Nessuna preoccupazione per la situazione dei sudditi dell’Impero britannico. Nessuna preoccupazione per le classi più povere o per le condizioni di lavoro della classe operaia. Questa è l’opinione che avevano sui manovali (maschi), che facevano dei lavori a casa: «Domani passerò la notte a Brighton, quindi mandami la risposta all’Hotel Metropole, per favore – se puoi venire, tutte le domande riceveranno una risposta affermativa. Qui è praticamente impossibile entrare e uscire di casa, dato che stanno mettendo il riscaldamento e ci sono buchi aperti di fronte a ogni porta – bisogna fare un salto – molto pericoloso ma piuttosto eccitante. E uomini dall’odore nauseabondo strisciano ovunque sul pavimento come scarafaggi. Ma chi se ne importa – solo, fai un bello sforzo, vieni qui – e vedrai quanto sarò gentile» (Lettera di Vita a Virginia, dicembre 1927). Il termine «scarafaggi» rispecchia molto bene la loro mentalità aristocratica e sessista (classe e sesso). Ho già criticato in un altro intervento la visione infantile che aveva Virginia del lavoro. Sono donne privilegiate che non hanno mai dovuto avvicinarsi al sacrificato mondo lavorativo, non lo conoscono, e mostrano una mancanza di empatia terrificante. Sono donne che hanno il servizio domestico e non devono fare nulla nemmeno a casa: «Scriviamo insieme un libriccino sulla poesia? Ma ora devo pranzare: una fettina di vitello, credo, un’arancia, e un nuovo tipo di torta a strati bianchi, rossi e arancioni» (Lettera di Virginia a Vita, gennaio 1926). Non sanno, né si preoccupano di cosa sarà servita a tavola, figuriamoci se si interessano per le condizioni degli operai.
La guerra concepita come un privilegio maschile.
Queste donne con la D maiuscola celebrano invece valori che oggi le femministe molto spesso associano al patriarcato (il “capitalismo eteropatriarcale”): il consumismo, il capitalismo. «Ma se l’hai già comprato, il cappotto, naturalmente lo sfoggerò a Haymarket, ti ricordi? […] Ci aggiriamo come fantasmi in un mondo di incredibile bellezza – ritiro tutti i miei insulti all’Inghilterra. Ho appena comprato le sigarette a Tottenham Court Road – fiumi di argento, ricoperti di piume d’oro: autobus e negozi egualmente magnifici. Perché mai andare in Persia quando c’è Tottenham Court Road?» (Lettera di Virginia Woolf a Vita, marzo 1927). Ma molto più grave, per l’argomento che trattiamo, nessun lamento per la condizione femminile. Nessun accenno all’oppressione delle donne, nessun denuncia di qualche ingiustizia, nessun commento indignato. Nulla. Succede proprio il contrario. Come capita spesso, l’inconscio tradisce le femministe senza che se ne accorgano, e la realtà da loro descritta smentisce le loro tesi: «Tra due settimane andiamo in Irlanda in auto fino alla costa, poi passiamo il canale, e ci fermiamo da Eli Bowen, e da lì risaliamo alle isole più lontane, dove le foche latrano e le vecchie sottovoce cantano nenie ai cadaveri degli uomini annegati, non è così?» (Lettera di Virginia Woolf a Vita, aprile 1934). Le donne sopravvivono ai loro uomini, marinai morti precocemente sul mare per portare a casa il sostentamento delle loro donne e bambini. E come succedeva in ogni cultura, le donne sopravvissute onoravano la memoria dei loro uomini, pescatori, cacciatori, guerrieri, minatori; in questo modo ringraziavano, al contrario di quello che fanno le femministe.
Dallo scambio epistolare sorge un altro particolare molto interessante. La Woolf spedisce a Vita il suo nuovo saggio Le tre ghinee. La tesi del libro: le guerre sono responsabilità degli uomini. Vita non apprezza, non è «d’accordo con il 50%». Scrive: «a pagina 194 asserisci che “l’istinto al combattimento è una caratteristica sessuale che la donna non può condividere”, ma non è forse vero che molte donne sono estremamente bellicose e spingono i propri uomini a combattere? E che dire della campagna della piuma bianca durante la scorsa guerra? Sono completamente d’accordo con te sul fatto che le donne non dovrebbero essere così, ma i fatti dimostrano che lo sono di frequente. La donna comune ammira quelle che considera qualità virili» (Lettera di Vita a Virginia, luglio 1938). La tesi femminista di Virginia smentita dall’amante, Vita, con un po’ di buon senso e un ragionamento elementare. Una contestazione simile l’avevo sollevata io su un altro testo di Virginia sulla guerra concepita come un privilegio maschile: «Virginia non poteva non aver visto l’aumento esponenziale del numero degli storpi, ciechi e sordi per le strade dell’Inghilterra, come avviene dopo ogni guerra. Lei fu testimone diretta della seconda guerra boera (1899-1902) e della Prima guerra mondiale». Virginia era una testimone diretta tanto della campagna della piuma bianca quanto delle conseguenze delle guerre sui soldati.
Desiderio contro realtà.
Qualcuno potrebbe obiettare che in una corrispondenza epistolare tra amiche – di centinaia di lettere, durata anni –, non deve per forza trasparire, in automatico, il loro interesse primario: la loro oppressione. Forse queste donne rivoluzionarie – in fondo parliamo della “Rivoluzione” femminista – preferiscono discorrere nelle loro lettere di tutto altro tranne che dell’argomento che dovrebbe essere la loro preoccupazione costante. Tuttavia la Storia offre altri esempi di rivoluzionari che hanno tenuto un folto carteggio. Il carteggio di Marx ed Engels, ad esempio, oltre ad essere un’importante fonte sulle questioni di vita personale (come tra Virginia e Vita) e sulla loro provata amicizia (come tra Virginia e Vita), costituisce una documentazione fondamentale sulla dedizione al movimento operaio e sulla politica internazionale (al contrario di Virginia e Vita). Marx ed Engels sono persone convinte delle proprie idee e della propria lotta, e il tenore delle lettere così lo conferma. In conclusione, da una parte c’è Virginia la femminista, donna impegnata socialmente che scrive libri di denuncia sulla condizione delle donne. Dall’altra c’è Virginia la viveur, che nella sua quotidianità non si preoccupa affatto dell’oppressione che denuncia e fa emergere dal suo racconto di ogni giorno una condizione delle donne completamente differente. E infine ci sono le istituzioni e i media, che oggi la propongono come l’ennesimo esempio morale di donna sacrificata nella lotta contro il patriarcato, un donna con la D maiuscola. Desiderio contro realtà. Hillary Clinton e Virginia Woolf, stessa dissonanza cognitiva.