Ieri abbiamo raccontato alcuni fatti intorno la storica sentenza della High Court of Justice che ha sancito l’impossibilità per un soggetto under16 di fornire un consenso informato e consapevole sul trattamento sperimentale tramite ormoni bloccanti della pubertà per curare la disforia di genere (gender dysphoria, GD). Avevamo chiuso interrogandoci sulle ragioni di un’alta variabilità di protocolli e legislazioni. Gli specialisti sono estremamente divisi in merito: da un lato c’è il dovere etico di farsi carico di una sofferenza oggettiva di soggetti adolescenti; dall’altro, la preoccupazione sulle potenziali conseguenze nocive a lungo termine di intraprendere un tale percorso, sulle quali l’evidenza non è al momento decisiva. Ma la ricerca scientifica evidenzia alcuni punti fermi molto significativi. Il primo è che i minorenni con disforia di genere non presentano maggior rischio di suicidio; e il trattamento spesso non sfocia in un miglioramento della qualità della vita. Vengono sovente citati studi che avrebbero trovato un elevato tasso di suicidalità (fino al 41%) tra i giovani con disforia di genere, per portare avanti lo struggente argomento che la terapia “salva vite”. La minaccia del suicidio da parte di chi soffre di disforia è ampiamente pubblicizzata e addirittura incoraggiata, al punto che si parla di una vera e propria narrazione “transizione o morte”. Un’attenta analisi della letteratura esistente dimostra che la correlazione tra disforia e maggiore suicidalità è attestata solo da una parte della ricerca disponibile, che però presenta seri problemi nella scelta del campione, oppure nella mancanza di dati sul follow-up (e di solito lo ammettono).
Ad esempio, uno dei più citati, l’US National Transgender Discrimination Survey del 2014, usa un campione non randomizzato; si basa su un’unica domanda netta (“Hai mai tentato il suicidio?”) anziché su una serie di domande incrociate, il che può portare a gonfiare il risultato fino al doppio rispetto al dato reale. Inoltre, risulta che la maggior parte dei tentati suicidi riportati avvengono dopo la terapia. Una completa analisi dello studio può essere letta qui. Bisogna poi distinguere tra suicidio effettivo e tentativi di suicidio, o altri comportamenti (come l’autolesionismo), categorie che nella propaganda vengono appiattite tra loro. Una valutazione critica più ampia delle ricerche disponibili mostra che il tasso di comportamenti autolesionisti e suicidalità non è maggiore nei giovani con disforia rispetto alla generalità degli adolescenti GLBT, o di quelli con altri tipi di fragilità psicologica. Inoltre, esiste una consistente letteratura che attesta quanto dopo la terapia o la transizione la suicidalità non diminuisce, anzi addirittura aumenta (qui e qui due analisi della letteratura e delle implicazioni), né migliorano la qualità della vita e la salute mentale, come evidenziato da molteplici fonti. Tra queste, una meta-review sistematica condotta dal NICE nell’ottobre 2020, a seguito delle accuse di David Bell alla clinica Tavistock – che arriva peraltro alla sconcertante conclusione che «non è stata trovata evidenza di un rapporto positivo tra costi e benefici per la terapia con ormoni bloccanti della pubertà».
La disforia regredisce durante l’adolescenza.
In secondo luogo è stato rilevato che non è vero che il trattamento ormonale consente una “pausa” della pubertà neutra e reversibile. Spesso il trattamento con i bloccanti della pubertà è pubblicizzato come una interruzione temporanea del processo di sviluppo dell’adolescente, ma del tutto privo di conseguenze e totalmente reversibile, come mettere in pausa un video. Ma la ricerca ha individuato effetti nocivi permanenti sulla densità ossea e sulla fertilità di chi subisce il trattamento e si sospettano anche compromissioni nello sviluppo cerebrale, come ad esempio la meta-review del NICE citata più sopra (si veda anche questo paper del 2017), sebbene l’evidenza non sia ancora schiacciante. Un altro aspetto importante è che la terapia ormonale in adolescenza comporta un maggiore investimento nel percorso di transizione da parte del paziente, e infatti la quasi totalità di chi la intraprende continuerà poi, al raggiungimento della maggiore età, con l’intervento chirurgico. Ci sono prove che in realtà sia incoraggiata proprio per questo motivo: ad esempio un’inchiesta della Charity Commission sulla British Psychological Society, scaturita da un pronunciamento della BPS in favore della prescrivibilità degli ormoni bloccanti da parte degli psicologi che rifletterebbe procedure «sbilanciate nella direzione di rendere più comuni i trattamenti, e orientate verso il modello gender affirmative, che prevede una diagnosi precoce e prestabilita, ignorando altre possibili eziologie del disagio del paziente con GD». Un report del 2010 su un campione di pazienti della clinica Tavistock contiene l’ammissione, solitamente omessa, che lo scopo della terapia ormonale è preparare il campo alla chirurgia trasformativa.
Terza evidenza. Nella maggior parte dei casi, la disforia in bambini e adolescenti regredisce con l’ingresso nella vita adulta – a meno che non vengano trattati con terapia ormonale e/o transizione sociale. Ci sono pochi aspetti nella letteratura sulla GD con tanto consenso quanto questo, ed è uno dei più cruciali (e più taciuti dalla propaganda GLBT): circa l’80% dei pazienti minorenni presenta una regressione della disforia dopo la pubertà (di solito passando a un’identificazione con il genere assegnato alla nascita, ma con orientamento omosessuale); ma solo quando non siano state intraprese misure pervasive come la transizione sociale o la terapia ormonale: in questi casi (in cui, come si è discusso più sopra, il percorso da persona transgender viene quasi sempre proseguito) la persistenza della disforia in età adulta aumenta considerevolmente. Si veda ad esempio qui e qui.
E se a raccontare questa esperienza si rischiasse di finire davanti a un giudice o in carcere?
Infine, non per importanza, le richieste di presa in carico, e le diagnosi, di disforia in età giovanile sono aumentate costantemente e vertiginosamente negli ultimi 15 anni. Anche su questo punto c’è ampio consenso: le cliniche che offrono servizi specializzati per il trattamento della GD in infanzia e adolescenza hanno visto aumentare le richieste in modo importante (ad es. da poche decine a diverse migliaia, o da pochi pazienti a diverse centinaia), e si tratta di un fenomeno coerente a livello internazionale (Europa, USA, Canada e Australia). Questo riflette la contemporanea emersione di un nuovo fenomeno detto rapid-onset gender dysphoria: la comparsa della disforia di genere improvvisa e durante la prima adolescenza (a differenza dei due scenari noti in precedenza: la comparsa nell’infanzia, o dopo l’adolescenza). La comunità scientifica nell’interrogarsi sull’eziologia della ROGD ha formulato l’ipotesi di un’incidenza in essa della maggiore copertura mediatica e diffusione sociale delle questioni legate alla cultura GLBT. In uno studio classico sul tema, L. Littman «ha argomentato in favore dell’influenza della cerchia sociale e dei social media nell’induzione della GD… è possibile che questi adolescenti nello sforzo di formarsi un’identità e nella ricerca di un milieu sociale in cui sentirsi supportati e accettati? Sarebbe accaduto lo stesso in un ambiente diverso dall’Occidente postmoderno?» (citazione dal paper già menzionato di K. J. Zucker; la stessa ipotesi è sostenuta in questa meta-review già citata). La ricerca della Littman (che fu inizialmente sconfessata dall’istituzione che la pubblicò, per poi essere riabilitata – e non c’è migliore attestazione di scientificità di questa), partita dalle osservazioni e testimonianze di alcune comunità di genitori, arriva ad argomentare un’influenza della società sullo sviluppo della disforia e/o l’attivazione di strategie di funzionamento maladattive. Questo non equivale a sostenere che si possa “persuadere” qualcuno, tramite film, siti web o l’influenza degli amici, a sviluppare a volontà la GD, più di quanto si possa indurre un soggetto eterosessuale ad essere attratto da persone del proprio sesso. Infatti, come dicevamo, la stragrande maggioranza dei casi di ROGD regredisce con la fine dell’adolescenza. I ricercatori piuttosto suggeriscono che, in una fase in cui l’adolescente è alla ricerca della propria identità, possa sviluppare, tramite la percezione delle questioni legate al transgenderismo in social media e cerchie di amici, e meccanismi imitativi, un’immagine erronea (in termini di disforia di genere) con cui etichettare un disagio che realmente prova, ma transitorio e correlato ad altri fattori combinati con i tumulti tipici dell’età dello sviluppo (altri tipi di fragilità, oppure un orientamento omosessuale).
Alla luce di tutto questo ci si può legittimamente interrogare su quanto sia opportuno facilitare e rendere pressoché immediato il deferimento del paziente bambino o adolescente con GD a trattamenti altamente “costosi” in termini di investimento materiale, personale e conseguenze a lungo termine. E quanto sia opportuno far accedere alla scuola programmi come quello proposto dall’ACLU nel 2015, School in Transition, o le linee guida offerte per un webinar programmato per il prossimo settembre per la regione Lazio (sebbene annullato per ragioni formali), che istruiscono punto per punto docenti e operatori scolastici su come facilitare la transizione sociale anche nel caso di genitori ignari o non concordi. Chi scrive ha conosciuto personalmente una ragazza che, parte di un gruppo di amici prevalentemente GLBT, a 14 anni si definiva transgender non-binaria, ma adesso, a 17 anni, si identifica pienamente quale femmina eterosessuale. Cosa sarebbe successo se avesse potuto iniziare subito la terapia ormonale? E se succedesse a vostra figlia, come reagireste? E se a raccontare questa esperienza si rischiasse di finire davanti a un giudice o in carcere, come vorrebbe il DDL Zan, quanto sareste ottimisti per il futuro?