Lo scorso 1° dicembre 2020 la High Court of Justice per Inghilterra e Galles ha sentenziato un provvedimento storico: la somministrazione di ormoni bloccanti della pubertà a persone con disforia di genere necessita un consenso informato e competente sugli effetti immediati e sulle potenziali conseguenze a lungo termine, del trattamento. Tale piena comprensione delle conseguenze non può essere assicurata nel caso di ragazzi under16. Quindi, la somministrazione di tali farmaci è consentita solo dai 16 anni compiuti. La decisione ha una storia complessa, con due radici convergenti. La prima è uno scandalo che ha coinvolto qualche anno prima una delle parti a processo, la Tavistock & Portman NHS Trust. La clinica è l’unica nel Regno Unito ad avere un centro specializzato per il trattamento della disforia di genere nei minorenni. A fine 2018 un membro senior dello staff, lo psichiatra David Bell (che ha partecipato al processo come testimone), consegnò un rapporto alle istituzioni della clinica a denuncia di procedure anomale osservate da lui stesso e da dieci colleghi.
Per comprendere il peso di ciò che era stato denunciato occorre fare una digressione. La disforia di genere (gender dysphoria, GD da ora in poi) è definita nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5; American Psychiatric Association, 2013) come «una marcata difformità tra il genere sessuale assegnato alla nascita, e l’identità di genere percepita, con associato disagio psichico» (ovvero possono esistere persone che percepiscono tale difformità, ma senza alcuna sofferenza: in tal caso non si parla di disforia di genere). Nel complesso, studi e sondaggi individuano la percentuale della popolazione con un qualche grado di varianza di genere (con o senza disforia) in un valore medio intorno all’1%. Per il trattamento della GD in infanzia e adolescenza esistono tre modelli principali. Il primo (il meno perseguito e studiato nei suoi effetti) consiste in una psicoterapia che cerca di armonizzare la percezione di sé del paziente con il proprio corpo. Il secondo, il cui protocollo più noto è il cosiddetto “Protocollo Olandese”, prevede la somministrazione di ormoni bloccanti della pubertà: farmaci che ritardano (temporaneamente) lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, per alleviare le sofferenze del paziente e consentire un processo di valutazione. Il terzo modello, detto “gender affirmative care”, figlia moderna degli orridi e mortali test di John Money, prevede l’assegnamento di una diagnosi come futura “persona transgender” e l’utilizzo sia degli ormoni bloccanti della pubertà, sia – già nell’infanzia – della cosiddetta “transizione sociale”, ossia l’impiego immediato di un’identificazione del paziente nel genere percepito (ad esempio, un bambino che si senta bambina inizierà ad essere chiamato con un nome femminile e pronomi femminili in tutti i contesti, dalla famiglia alla scuola alla clinica), in attesa degli interventi medici. Teoricamente, i due modelli di approccio più “aggressivi” richiedono un lungo periodo diagnostico, che prevede un costante monitoraggio e colloqui psicologici, per verificare l’applicabilità di eventuali interventi.
In UK nessuna transizione sotto i 16 anni.
Torniamo dunque alla clinica Tavistock. Bell e colleghi denunciano nel loro report che spesso la clinica prendesse in carico pazienti (minorenni) per i quali non sembrava esserci urgenza di trattamento, con diagnosi “troppo facili” di disforia assegnate da membri senior dello staff – in alcuni casi, il trattamento con gli ormoni bloccanti sarebbe stato raccomandato dopo solo due colloqui. Un collega segnalò a Bell un caso di un bambino di otto anni deferito a un endocrinologo per iniziare un trattamento ormonale. Ma Bell e colleghi non erano gli unici a rilevare problemi alla Tavistock: una contemporanea lettera di un gruppo di genitori di pazienti denunciava una tendenza della clinica a “accelerare” il percorso verso i trattamenti, per snellire le code di attesa. La clinica era infatti passata da avere in carico meno di cento pazienti nel 2009, a 2700 nel 2019 (ad oggi c’è una coda di attesa di 5000 pazienti oltre ai 3000 attualmente in carico). Bell è stato sottoposto a un’indagine disciplinare (e a vari episodi di mobbing) a causa della sua denuncia. La clinica ha avviato un’inchiesta interna i cui risultati non sono stati resi pubblici, ma che secondo quanto riferito da Bell, «riconosce la pressione di movimenti GLBT» sulle procedure adottate.
L’altra radice della sentenza della High Court è l’accusa, costituita da due soggetti: la madre di una ragazza di 15 anni in attesa di trattamento, e Keira Bell, paziente della clinica (ora 23enne), di cui abbiamo parlato anche qui, cui sono stati somministrati gli ormoni fin dall’età di 16 anni, e a 20 anni ha subito una doppia mastectomia. Keira ha in seguito rimpianto l’accaduto e fatto causa alla clinica. La Corte ha argomentato appunto che, dato il carattere “sperimentale” della terapia ormonale e i potenziali effetti nocivi a lungo termine, ancora non sufficientemente misurati, è impossibile dare un consenso informato e responsabile sotto i 16 anni di età. Ma la clinica ha ottenuto un ricorso in appello, che inizierà a giugno. E lo scorso marzo, un’altra causa ha portato a una sentenza che in parte annulla gli effetti di questa, riconoscendo ai genitori la possibilità di esprimere il consenso in vece dei figli.
Sulla disforia di genere non ci sono ancora evidenze.
Intanto, una simile decisione è stata presa anche dagli Stati dell’Arkansas, del Tennessee e dell’Alabama, e almeno altri 16 Stati tra gli USA stanno valutando provvedimenti del genere. Nel Regno Unito il trattamento ormonale per gli under16 è stato consentito in via sperimentale dal 2011, ma, come abbiamo visto, al momento è di nuovo illegale. In Europa l’età minima per la prescrizione di terapia ormonale varia dai 12 ai 18 anni (qui una mappa non completamente aggiornata): recentissima la decisione della Svezia di seguire il Regno Unito nel vietare il trattamento agli under16 (e la Finlandia sta valutando un provvedimento analogo, dopo aver cambiato le linee guida nazionali in direzione della precedenza all’approccio psicoterapeutico). In Nord America e Canada il terzo approccio, la “gender affirmative care”, è il più seguito, con bambini che spesso fin dalla più tenera età intraprendono la transizione sociale e gli ormoni; e in casi in cui i genitori si oppongano a tale percorso, rischiano di perdere l’affidamento dei figli (qui e qui). In Italia la terapia ormonale ai minorenni non è autorizzata sebbene alcuni sporadici trattamenti siano stati consentiti in caso di rischio di suicidio.
Viene spontaneo domandarsi perché tanta difformità di protocolli e legislazioni. Una possibile risposta è che dipende da quale campana il legislatore decide di ascoltare: la scienza, o le pressioni delle associazioni GLBT (e delle case farmaceutiche? Si parla di migliaia di dollari di costo per ciascun mese di trattamento per una persona). Il problema principale è che della GD e soprattutto dei trattamenti attualmente impiegati si sa ancora troppo poco. La ricerca richiede studi su ampi campioni e su lungo termine, per misurare le conseguenze del trattamento nel follow-up, e al momento l’evidenza empirica di questo tipo disponibile è scarsa. Già soltanto questo fatto dovrebbe essere sufficiente a suggerire estrema cautela. Ma alcuni punti fermi ci sono: nella seconda parte, domattina, cercheremo di sintetizzarli.