La dissonanza cognitiva è un processo mentale provocato dall’incoerenza tra due idee o comportamenti tra loro contrapposti o divergenti. Mediante questo processo l’individuo cerca automaticamente di eliminare o ridurre il marcato disagio psicologico originato dall’attivazione di questa elaborazione mentale incoerente. Un esempio di dissonanza cognitiva è rappresentato nel celebre racconto La volpe e l’uva, tratto dalle Favole di Esopo, in cui la dissonanza fra il desiderio dell’uva e l’incapacità di arrivarvi conduce la volpe a elaborare la conclusione che “l’uva è acerba”. La volpe gestisce in questo modo il contrasto tra desiderio e realtà. Un altro esempio a livello pratico si può avere quando un soggetto che disprezza esplicitamente i ladri si trova a comprare un oggetto a un prezzo troppo esiguo per non intuirne la provenienza illecita. Per risolvere questa contraddizione può, ad esempio, giustificarsi con “ormai il danno è fatto, non posso più rimediare”. I bambini piccoli, soprattutto se figli unici, sono esempi viventi di dissonanza cognitiva: se chiedete loro chi realizza i compiti più gravosi a casa, loro si autodichiarano i più sollecitati, o addirittura sfruttati. Eppure ciò non impedisce loro di fare continue richieste ai loro adulti di riferimento, i genitori. È evidente a chiunque che sono i genitori ad accollarsi i compiti più sgraditi, rischiosi e duraturi a vantaggio dei loro figlioli, eppure i bambini la pensano diversamente, malgrado le loro manifeste continue pretese d’aiuto. È evidente a chiunque che la maggior parte delle continue richieste di aiuto rivolte ai genitori (tutele, soldi,…) sono soddisfatte, dunque i bambini non sono “vittime”, ma beneficiari. La dissonanza fra il desiderio di sentirsi “vittima” e l’incapacità ad essere autonomo (realtà), conduce il bambino a elaborare la conclusione che “se chiedo aiuto è per colpa degli adulti che non mi permettono di essere autonomo”.
Di primo acchito si potrebbe ipotizzare e intravedere una certa analogia tra l’atteggiamento del bambino nei confronti dell’adulto e quello della donna, più incline al lamento, nei confronti dell’uomo. E così? Si tratta, di sicuro, di una discussione molto interessante ma anche complessa e controversa, un vero campo minato, dunque preferirei sorvolare la questione in questo intervento. Una cosa è certa, forse è sbagliato generalizzare per quanto riguarda le donne, ma non sbagliamo affatto se asseriamo che le femministe vivono lo stesso processo di dissonanza cognitiva dei bambini. Loro si proclamano “vittime”, malgrado in moltissimi campi la condizione maschile si riveli nettamente peggiore, e si proclamano “capaci quanto gli uomini”, malgrado le ininterrotte pretese d’aiuto ai loro uomini e/o allo Stato. Le donne, forti e indipendenti, acclamate ovunque, sarebbero in grado di competere con gli uomini nei più diversi ambiti. I media celebrano ogni loro trionfo, la loro presenza nei governi, nelle grandi aziende, nel campo scientifico e nel mondo della cultura e dello sport. In contemporanea vengono promosse le quote, agevolazioni e sovvenzioni economiche, i taxi rosa, i parcheggi e i vagoni dei treni riservati alle donne, fermate notturne personalizzate degli autobus, palestre, alberghi e concerti solo per donne e altri spazi segregati giustificati dalla loro speciale vulnerabilità. In conclusione, le femministe da un lato pretendono essere capaci tanto quanto gli uomini, dall’altro chiedono allo Stato ogni sorta di tutela, la stessa che lungo la Storia le donne hanno chiesto ai loro uomini: protezione e mantenimento.
La lotta del desiderio di sentirsi vittima (e di trovare un colpevole) contro la realtà.
In Spagna, la mia terra natia, esiste un vero monumento che fa sfoggio di questa dissonanza, la Ley Integral de Violencia de Género. Si tratta di una legge che protegge in esclusiva le donne e ha delle ricadute su ogni ambito (tribunali esclusivi, aiuti economici, affidamento figli, priorità per il lavoro o per le case popolari, ecc.). Precedenza e deferenza. Le femministe vivono immerse in quest’assoluta mancanza di coerenza, tra il desiderio di sentirsi “vittime” e la concretezza tangibile di essere in realtà “iper-tutelate” e “beneficiarie”. Soltanto la dissonanza cognitiva può spiegare che migliaia e migliaia di donne in Spagna si sentano discriminate ed escano ogni 8 marzo a manifestare, malgrado esistano 351 norme che discriminano gli uomini e una sola che discrimina loro (la legge successoria della corona spagnola dà la preferenza all’uomo). Impossibile non richiamare alla memoria la straordinaria gag dei Monty Python nel film Brian di Nazareth (1979) sulla “lotta contro la realtà” (approfitto per consigliare a tutti quelli che ancora non la conoscono, la visione di questa gag, straordinaria dall’inizio alla fine per la sua comicità e incredibile lungimiranza, precorritrice dei tempi attuali). Le femministe non hanno un problema con gli uomini, hanno un problema con la realtà. Le femministe sono in guerra contro la realtà.
Un giornalista chiese una volta a Simone de Beauvoir se si era mai sentita discriminata in quanto donna: “No, mai”, fu la sua sintetica risposta. Lo racconta Catherine Millet nel suo libro Aimer Lawrence. Una scena, la sorpresa del giornalista di fronte a tale risposta, aggiunge, “molto comica”. Niente di nuovo. Ho scritto nell’opera La grande menzogna del femminismo a pag. 182: «I capolavori femministi di Simone de Beauvoir, Kate Millett, Germaine Greer, Phyllis Chesler o Juliet Mitchell, non nascono dall’esperienza di una vita personale costellata dal sacrificio e dalla discriminazione in quanto donne, ma da un esercizio teorico mentale delle autrici senza alcun accenno autobiografico a supporto dei propri argomenti. Nessuna denuncia la sottrazione indebita di figli, casa, proprietà, libertà, né discriminazioni subite nei tribunali. Anzi succede proprio il contrario, l’ammissione di non aver mai subito la discriminazione di persona (Greer). Ciò mi ha sinceramente colpito, perché quest’opera nasce proprio dalla volontà di denunciare e testimoniare la mia discriminazione vissuta di persona». Scrive Germaine Greer in L’eunuco femmina, ormai opera classica del femminismo anni ’70: «Come insegnante universitaria non ho notato alcuna discriminazione palese nei miei confronti. […] Provo un certo rimorso ad ammettere che non mi sono affaticata molto per raggiungere il grado accademico che ho. […] Forse se fossi stata un uomo avrei ottenuto una cattedra a Cambridge». Nessuna discriminazione, né “fatica”, tranne per il fatto che se fosse stata un uomo avrebbe raggiunto cime più alte, avvantaggiata dal naturale privilegio di essere maschio, una cattedra a Cambridge. In pratica, se Beyoncé fosse stata un uomo, invece di una celebre cantante, sarebbe stata il re del pop, come Michael Jackson; se Michelle Bachelet fosse stata un uomo, invece di presidente del Cile, sarebbe stata presidente dell’ONU, e così via. Una visione del mondo che si manifesta chiaramente nel personaggio fittizio di Judith, «la sorella di Shakespeare», costretta a reprimere il proprio talento in quanto donna, personaggio inventato dalla scrittrice Virginia Woolf nel saggio Una stanza tutta per sé (A Room of One’s Own). Se Judith fosse stata un uomo sarebbe stata Shakespeare, il più noto commediografo di tutti i tempi. Questa necessità di sentirsi vittime, al di là delle loro vite privilegiate, rende invisibili ai loro occhi i milioni di uomini che sono al di sotto del loro status, che non otterranno mai una cattedra universitaria, la celebrità nel show business né la presidenza di uno Stato. Né saranno mai Shakespeare. La lotta del desiderio di sentirsi vittima (e di trovare un colpevole) contro la realtà.
Vivere come adulti, in consonanza cognitiva.
Il femminismo non è nato da un’oppressione reale. La prima ondata femminista non era costituita da donne operaie sottopagate o da donne schiavizzate che lottavano per migliorare le loro condizioni. Si trattava perlopiù di donne borghesi, benestanti e ultraconservatrici che godevano oggettivamente di uno stato economico e sociale privilegiato rispetto al resto della società. Il femminismo nasce dunque all’interno di questa dissonanza cognitiva tra le oggettive condizioni di privilegio di queste donne e le condizioni percepite/desiderate dalle stesse (nell’intervento della prossima settimana, a modo esemplificativo, analizzerò la dissonanza cognitiva in una delle figure emblematiche del movimento femminista, che ho già trattato in precedenza: Virginia Woolf). Le ondate successive si propagarono nelle università francesi, britanniche e americane, frequentate dalle figlie delle classi medie e alte, di nuovo donne benestanti che non dovettero mai alzarsi alle tre del mattino a spaccarsi la schiena. Sono queste donne privilegiate che denunciano “nos matan por ser mujeres” (ci uccidono perché siamo donne), uno dei motti femministi attuali in spagnolo più noti, un’evidente manifestazione psicotica e alterazione profonda della percezione della realtà. Non è mai esistita una persecuzione contro le donne in generale, né contro le femministe in particolare. Non mi risulta che la storia del movimento femminista sia caratterizzata dalle cariche delle forze d’ordine contro le loro manifestazioni, di attiviste torturate e/o scomparse. Al contrario, spesso le femministe ottengono dallo Stato protezione, prebende, risorse e potere. Come il bambino menzionato all’inizio dell’intervento, la femminista cancella la realtà mediante la dittatura delle emozioni: strilla, fa i capricci, piange, versa lacrime, prova evidente della sua oppressione. È palese che le donne soffrono e sono oppresse, altrimenti non piangerebbero né si lamenterebbero. Di fronte alle lacrime femminili, l’onere della dimostrazione della realtà ricade sugli individui che non ottengono alcun vantaggio dalle proprie lacrime né dai propri lamenti, sugli individui che sono forzati a vivere, come gli adulti rispetto ai bambini, in consonanza cognitiva.