È bello non essere soli. Specie quando si dicono cose vere ma scomode. Capita a noi di continuo, specie quando parliamo del fenomeno delle false denunce e lo definiamo dilagante, mettendo in luce come sia microscopica la percentuale di procedimenti che finisce in una condanna. Ebbene non siamo più soli in questo: a confermare le nostre tesi è un sito che già dal nome rappresenta una garanzia. Si chiama “True numbers”, ovvero in inglese “numeri veri”, e in effetti appare piuttosto preciso e circostanziato. Tra le sue varie rilevazioni abbiamo trovato questa riguardante le archiviazioni delle denunce. Roba da saltare sulla sedia: ammontano al 65,3%, con un balzo in avanti del dato nel 2020 rispetto al 2019, considerando i procedimenti avviati in precedenza. Se si considera il solo 2020 la percentuale sale alla bellezza del 75,2%. «Le archiviazioni nel 2005», riporta il sito, «all’inizio della serie dei dati presenti nelle statistiche del Ministero della Giustizia, erano quasi 630 mila. Sono poi man mano calati ma rimanendo la larga maggioranza degli esiti della fase preliminare dei processi. E anzi, nel 2020, con il 75,3% dei procedimenti della sezione Gip-Gup finiti in questo modo, si è toccato un record decennale».
Sono dati importanti perché, tra le altre cose, pongono l’Italia tra i paesi più lenti a definire le controversie, e questo ha un impatto negativo sugli investimenti e l’economia. Cose fuori dal nostro interesse, ma solo apparentemente. A noi interessano le persone, i loro calvari giudiziari e le casistiche, per questo tendiamo a collegare, nell’ambito della “violenza di genere”, le archiviazioni alle false accuse. È un assunto corretto? Secondo “True numbers” assolutamente sì: «Tra i motivi della lentezza c’è anche l’altissimo numero di denunce e indagini che vanno ad alimentare notizie di reato non fondate, perlomeno nel processo penale». E ancora: «sono veramente troppe le notizie di reato che poi non si dimostrano meritorie di arrivare a processo». Ok, allora non siamo proprio quei matti complottisti senza senso, come ci descrivono i nostri detrattori. Sarebbe interessante capire, nell’ambito penale citato da “True numbers”, quali sono i procedimenti che più di altri vanno a intasare il sistema. Siamo pressoché certi che risulterebbero quelli legati alla “violenza di genere” o alla “violenza domestica” contro le donne. Già dalla banca dati ISTAT sul tema emerge che ogni anno balla una cifra attorno alle 50 mila denunce di quel tipo, uno sproposito. E che si tratti nella maggior parte dei casi di denunce false o strumentali era stato detto anni fa da fior di operatrici (donne) di giustizia e ancora oggi ogni tanto escono segnali chiari in questo senso. Di fatto, “True numbers” arriva a confermare il tutto.
Altro elemento che andrebbe investigato è l’effetto che il “Codice Rosso” ha avuto su questo stato di cose. Perché ora si pensa di usare il recovery fund per finanziare alcune iniziative come il potenziamento dei riti alternativi o l’allargamento dei casi di tenuità del fatto, allo scopo di alleggerire procure e tribunali. Ma sono iniziative a valle, il problema a monte resta: si presentano troppe denunce. E questo accade perché c’è un invito costante a denunciare, da parte degli avvocati, della comunicazione pubblica e delle leggi stesse, proprio come il “Codice Rosso”. Non è un caso che pochi mesi dopo la sua approvazione diversi capi di procura lamentarono il fatto che tutto era diventato urgente, con un numero gigantesco di denunce per “violenza di genere” che scavalcavano altre questioni magari meno urgenti ma sicuramente più fondate. Qualcuno disse anche, emblematicamente, che quell’esplosione di denunce non era causata da un aumento delle violenze, ma da un “effetto persuasione” dovuto proprio alla nuova normativa. Il problema è che un dato ingigantito delle denunce serve: è il più strumentalizzabile ed è costantemente sulla bocca di chi vuole far credere che in Italia la violenza sulle donne sia un’emergenza nazionale. Non lo è: la stragrande maggioranza delle denunce viene valutata non meritevole di trasformarsi in procedimento da parte della magistratura. Solitamente, e ora non siamo più i soli a dirlo, perché infondate o palesemente strumentali.
Ci sarebbe ancora uno sforzo da fare, per cui però dubitiamo “True Numbers” possa provvedere: l’incrocio dei dati. L’ha detto di recente anche il Ministro Cartabia: serve più connessione tra civile e penale. Lei lo diceva alludendo al fatto che troppi casi di violenza domestica sfuggivano alla giustizia separativa, penalizzando le donne. Noi lo diciamo in un altro senso: sarebbe utile sapere quante delle circa 50 mila denunce annuali di donne contro uomini per questioni di “violenza di genere” o “violenza domestica” che poi finiscono archiviate o in assoluzione, sono maturate in un contesto separativo. Lì, siamo certi, si nasconde il bubbone che intasa l’sistema, come registra anche “True Numbers”. Un incrocio dei dati svelerebbe che la stragrande maggioranza delle denunce infondate viene depositata proprio nell’ambito delle separazioni conflittuali, ed è appunto lì che occorrerebbe intervenire, non su riti alternativi o depenalizzazioni. Come? Ad esempio rendendo automatica l’apertura di un procedimento per calunnia o lite temeraria appena si riscontra la sussistenza di un’accusa falsa. Oppure fare come in Russia, dove le autorità si muovono a partire dalla terza denuncia, a meno che non ci siano prove e riscontri evidenti del fatto denunciato. Il che è un po’ il contrario del “Codice Rosso” e nessuno in Italia avrebbe il fegato di proporlo. Meglio servili al femminismo e intimoriti dalla sua retorica che affrontare il dramma delle denunce delle poche vere vittime di violenza che si perdono nel mare infinito di quelle fatte dalle furbe e furbette, spesso aiutate dai centri antiviolenza, sotto l’incentivo di diavolerie come il “Codice Rosso”.