I miliardi del Recovery Fund potrebbero arrivare davvero, la fame è tanta, le clientele ancora di più, occorre dunque rafforzare quanto più possibile la narrazione diffusa che fa da pilastro all’esistenza di un intero sistema. Bisogna poter affermare ad alta voce: «noi serviamo!» per poter mettere il muso in quella greppia. Cosa c’è di meglio allora che chiedere a “sorella ISTAT” di acquisire e dare credibilità ai propri dati di parte relativi alla spropositata, dilagante, irrefrenabile, incommensurabile violenza maschile contro le donne in Italia? Niente c’è di meglio e infatti questo è successo. Il 17 maggio scorso sul sito ISTAT è apparsa la nuova pagina “Le richieste di aiuto durante la pandemia“, con allegati un report e alcune tavole di dati. Ovviamente non si parla di emergenze sanitarie ma di quella che, con un coraggio grande quanto la sua faccia tosta, l’ISTAT definisce «la pandemia nella pandemia»: la violenza maschile sulle donne. Le quali, questa è la versione ormai ufficiale, non si sono espresse all’inizio del lockdown quando, ricorderete, si favoleggiava di reclusioni coatte con gli aguzzini e con l’impossibilità di chiamare il risolutivo 1522. Le legioni di donne maltrattate hanno atteso di farlo da aprile in poi, forse dopo aver trovato la chiave del lucchetto che le incatenava al muro, e da quel momento si sono tutte scatenate, facendo esplodere i centralini e intasando i centri antiviolenza. Con un picco straordinario nel periodo attorno al 25 novembre, data che, così dice il report ISTAT senza timore di sbordare nel ridicolo, pare avere un «effetto motivazionale».
Il tutto è ovviamente supportato da numeri, che nei giorni scorsi sono stati riportati da molti media (anche se con meno battage ossessivo rispetto al solito, forse sono aumentati i prezzi dei pubbliredazionali o Ro$a No$tra è a corto di liquidità…) e dai peggiori blog femministi di Caracas. E i dati naturalmente sono spa-ven-to-si: +79% è l’aumento delle chiamate al 1522 nel 2020 rispetto al 2019; il boom di chiamate si è avuto da fine marzo a maggio (+182,2%) con una fiammata, lo si è detto, attorno al 25 novembre (+114,1%); prevalgono la violenza fisica e psicologica, aumentano le richieste d’aiuto delle fasce d’età più giovani e le violenze avvengono soprattutto in ambito familiare. Questo per quanto riguarda il 1522. Ma ci sono anche i centri antiviolenza: nei primi 5 mesi del 2020, si dice, la bellezza di 20.525 donne si è rivolta ai loro servizi. In calo invece, causa restrizioni della pandemia, gli accessi alle case rifugio. I dati vengono declinati anche secondo alcuni parametri sociometrici (fascia d’età, occupazione, nazionalità), classificando il tipo di violenza denunciata, chi ne sia l’autore, più una suddivisione territoriale tra nord, centro e sud. Si fa un focus anche sulla capacità reattiva dei centri antiviolenza che, a fronte delle restrizioni anti-covid, hanno praticamente tutti saputo dare continuità ai loro servizi, rispondendo alle richieste via telefono, messaggio o sul web (ma perché, prima non lo facevano?), oltre che in alcuni casi anche di persona, nel rispetto del distanziamento. Insomma il lockdown in Italia ha rappresentato una vera e propria apocalisse per le donne italiane: recluse, umiliate, picchiate in ogni area del Paese, con il 1522 e i centri antiviolenza a fare miracoli per rispondere all’emergenza. Ma… è tutto vero?
Tocca come al solito a noi cercare di fare qualcosa.
Secondo noi no… Anzituto vale ricordare che l’ISTAT nel luglio 2020 diceva l’esatto contrario di ciò che ora sostiene nel report di qualche giorno fa. Inoltre noi siamo di parte e abbiamo memoria, quindi la nostra opinione è sicuramente deviata. Sforzandoci allora di essere obiettivi, la risposta giusta potrebbe essere: in realtà non si può sapere se è tutto vero. Per alcuni motivi molto semplici: i dati del 1522 sono relativi alle chiamate, non alle donne vittime di violenza. Le chiamate sono di diverso tipo (richiesta informazioni, nella maggior parte dei casi) e soprattutto sono anonime, dunque se la stessa donna chiama dieci volte, per chiedere informazioni, conferme, fare quattro chiacchiere consolatorie, eccetera, viene contata per 10, non per 1. Questo aspetto non lo affermiamo noi: ci è stato chiarito dall’ISTAT stesso nel settembre scorso, e tuttavia non viene precisato nel report di qualche giorno fa, dove anzi (a pagina 5) si fa passare il messaggio che il numero di chiamate corrisponda al numero di donne («Nel 67,9% dei casi, corrispondenti a 10.266 donne…»). Non è così, per lo meno non c’è certezza che sia così, ma l’ISTAT non lo specifica. Non solo: i dati sociometrici rilevati da dove vengono, se le chiamate sono anonime? Durante il lockdown abbiamo chiamato tre volte il 1522, tramite una complice, e non hanno mai chiesto età, impiego o nazionalità. Ma soprattutto come si sposa l’aumento formidabile di “chiamate” con il dimezzamento delle denunce certificato dal Consiglio Superiore della Magistratura prima e dalla Polizia di Stato poi? Misteri, tutti misteri. Il più grosso dei quali è come abbia potuto l’ISTAT acquisire, dunque dare credibilità e autorevolezza, a dati per sua stessa ammissione non verificati e non verificabili. Non sarebbe stato meglio allora chiedere alla Polizia di fornire i dati di richiesta aiuto formulate tramite la app YouPol? Almeno è un servizio di un organo dello Stato, privo di conflitto di interessi e soprattutto davvero emergenziale: non dà informazioni, fa arrivare la Polizia. Evidentemente, lo si è detto più volte, le chiamate d’emergenza a “YouPol” durante il lockdown sono probabilmente poche decine in molti mesi e questo non fa gioco all’industria dell’antiviolenza. Anche per questo i dati di “YouPol” non ci sono stati trasmessi, in barba alla tanto decantata trasparenza delle pubbliche amministrazioni.
Nulla di diverso si può dire poi sui dati relativi ai centri antiviolenza, che sono la fonte del dato delle oltre 20 mila donne che avrebbero chiesto aiuto durante il periodo di restrizioni. Proprio loro, la cui sopravvivenza dipende da un anche solo asserito alto tasso di violenza, vengono chiamati a dare dati sul tasso di violenza. E che vuoi che dicano? Che è dilagante, è ovvio. Dovere dell’ISTAT sarebbe stato quello di verificare i dati prima di farli propri, magari acquisendo tabulati, archivi, banche dati. L’ha fatto? Scommettiamo di no. Tra sorellanze vige il “believe women” e dunque l’ente nazionale di statistica si è preso sulla fiducia i dati non verificati e non verificabili dei centri antiviolenza, prendendoli acriticamente per buoni. Non male dal lato metodologico. In un paese normale qualcuno cercherebbe di capire per quale motivo e a quale scopo l’ISTAT abbia agito in questo modo, primo tra tutti il Presidente dell’Istituto. Ma, come già abbiamo fatto per Marcello Foa alla RAI, non si può che riscontrare lo status di desaparecido anche per il Presidente Gian Carlo Blangiardo, che pure si annunciava come elemento innovativo e motore di cambiamento. Dato che chi è responsabile tace e i media, invece di fare la guardia alla verità dei fatti, si limitano a fare da amplificatore delle mistificazioni, tocca come al solito a noi cercare di fare qualcosa.
Iniziare a raccontare le cose come stanno.
Ecco allora che tre giorni dopo l’uscita del report dell’ISTAT abbiamo scritto al suo ufficio stampa una mail che sintetizza le osservazioni fatte qui sopra (e già fatte precedentemente) e pone una serie di domande sul metodo e sul merito di ciò che è stato pubblicato. Abbiamo fiducia che ci sarà una risposta: è già capitato in passato, dunque siamo ottimisti. Meno lo siamo su quanto tali risposte saranno risolutive o convincenti. C’è un gioco sporco in atto e a nostro parere l’ISTAT ne è parte integrante. Occorre dare un quadro più grave o emergenziale possibile della situazione per preservare un bel po’ di posti di lavoro, un giro di milioni di euro e ampie clientele politiche. Non solo: c’è il recovery fund da arraffare, dunque serve convincere l’universo-mondo che la rete dei centri antiviolenza e dei servizi alle donne vittime di violenza (come il 1522) sono indispensabili, anzi vanno finanziati ancora di più. Occorre evitare che si comprenda la realtà, ossia che si tratta di carrozzoni costruiti sulla premeditata sovrastima di un fenomeno che in Italia, fortunatamente, esiste su proporzioni poco più che marginali. C’è un intero mercato e un’intera industria, quella dell’antiviolenza, da foraggiare, occorre dunque mostrare quanto si è utili e, se possibile, fare la propaganda giusta a stimolare una domanda per sua natura molto bassa. A questo e non ad altro servono le operazioni come quelle dell’ISTAT sui dati del 1522 e dei centri antiviolenza.
Che, non stupisce, per di più sottostima il dato delle vittime maschili, presenti nelle chiamate ma totalmente rimosse nei commenti del fenomeno. Eppure quanto accaduto in Germania prova che non si tratta di un fenomeno così insignificante, posto che uno Stato dovrebbe occuparsi di ogni fenomeno, specie se grave come la violenza, a prescindere dalla sua ampiezza. Eppure l’ISTAT ignora, forse credendo che si tratti di un problema solo di quei mollaccioni degli uomini tedeschi, e si impegna invece a enfatizzare, dopo averli elaborati da ogni lato, dati che in realtà dovrebbero essere considerati inservibili, proprio per la loro origine e la loro natura. Spiace per lo svilimento del suo ruolo istituzionale e, dal lato nostro, spiace anche per i lettori assidui, costretti a leggere argomentazioni e prove già arcinote. Perdonateci, non è colpa nostra, sono loro che periodicamente ricicciano sempre la stessa roba, dopo averle dato una nuova mano di pittura. Finché sono sciocchezze, possiamo anche passarci sopra, ma quando si tratta di un ente importante come l’ISTAT no, tocca ripetersi fino alla nausea, e finché non la smetteranno e inizieranno a raccontare le cose come stanno, magari in una prospettiva davvero paritaria.