Un articolo pubblicato su “laleggepertutti.it” titola: «Quando non è stupro». La risposta sintetica: mai. Non c’è scampo, è stupro quando la donna decide che lo sia. Qualsiasi episodio potrebbe essere classificato come stupro. Nessuno può avere la sicurezza di non essere denunciato per violenza sessuale, ma veramente nessuno. Poco importa se le accuse arrivino dopo mezz’ora, il giorno dopo o sei mesi dopo, l’alea esiste per chiunque a prescindere dal fatto che l’episodio incriminato nasca in un contesto coniugale o extraconiugale, da una relazione stabile o da un incontro occasionale. «Affinché non vi sia violenza sessuale è necessario che il rapporto sia voluto dal primo all’ultimo attimo. Un “no” dell’ultimo minuto potrebbe far scattare lo stupro, benché i preliminari siano stati consenzienti». Fin qui tutto chiaro: va rispettata la libertà di qualsiasi persona – uomo o donna – di ripensare il proprio consenso: consenso espresso all’inizio del rapporto ma ritirato in itinere, mi si passi l’espressione. Il problema concreto è che il consenso può anche non essere esplicito e il ripensamento può essere ancora meno esplicito.
Bisogna scendere nel terreno dell’assurdo, immaginando i dialoghi nelle situazioni paradossali che oggettivamente si verrebbero a creare per chi volesse mettersi al riparo da ogni rischio. O perlomeno provare a farlo, visto che la sicurezza è impossibile. Il vincolo del consenso iniziale spoglia di qualsiasi poesia, romanticismo e spontaneità i rapporti interpersonali. Da secoli ogni coppia può iniziare un classico rituale di baci e carezze che prelude a sviluppi più intimi, é lo stesso coinvolgimento di entrambi che non può essere interpretato in modo diverso da un reciproco consenso. Fino a ieri. Oggi il vento prevalente vorrebbe che la coppia non si lasciasse trasportare dai sentimenti e/o dalla passione del momento ma ritrovi la lucidità, la freddezza il distacco e il cinismo per certificare la volontà di entrambi a proseguire innalzando l’asticella. O meglio, non la coppia ma l’elemento maschile della coppia: è sempre e solo lui a rischio dell’infamante accusa di violenza sessuale. «Guarda cara che se andiamo avanti così finisce che ci ritroviamo a letto, ti va o preferisci piantarla qui?». Potrebbe sembrare pazzesco solo pensarlo, invece in tribunale dicono che è indispensabile accertarsi .
La verità non si può dire.
Come accertarsi non è chiaro, i tribunali non lo dicono, né come conservare prova dell’avvenuto accertamento da esibire, anche dopo mesi, in caso di processo per stupro. Bisognerebbe forse richiedere alla partner una firma sotto a un modulo prestampato di consenso alla copula, ed ecco che il 99% dei rapporti intimi naufragherebbe prima ancora di cominciare. «Per chi mi hai presa, non ti fidi di me? Come ti permetti di pensare che potrei denunciarti? Sei un essere meschino, stai insinuando che potrei fingere di essere stata violentata… Che fine ha fatto la tua libido? Già mi freddano i 30 secondi di pausa per il profilattico, figurati se ora mi metto a firmare moduli… Mentre siamo travolti dal vortice della passione tu pensi ai risvolti in tribunale… dov’è la tua spontaneità? Ma sei cretino, vuoi il consenso per iscritto? Fino ad ora non hai capito che ne ho voglia quanto te? Ok, se per accoppiarsi bisogna compilare moduli meglio lasciar perdere, non siamo all’anagrafe. Ma sei diventato scemo… siamo sposati da 5 anni, ora che è ‘sta novità del consenso esplicito?». Comunque nemmeno un modulo con firma autenticata dal notaio basterebbe a garantire l’impunità del presunto stupratore, poiché il consenso poteva esserci alle 22 ma non esserci più alle 22,10.
È folle ipotizzare la firma di un modulo ed è ancora più folle ipotizzare la necessità di registrare un file audio con la voce della partner che ogni 3 minuti è tenuta a ripetere «ore 22,03 – confermo il consenso», «ore 22,06 – confermo il consenso», «ore 22,09 – confermo il consenso», «ore 22,12 – confermo il consenso». Oppure il consenso, anche qualora venisse messo per iscritto, potrebbe essere estorto a causa della ridotta capacità di intendere e volere della donna che ha bevuto un bicchiere di troppo. Il caposaldo della giurisprudenza recente è una clamorosa asimmetria valutativa in rapporto a chi faccia cosa: lui è sempre predatore e lei sempre preda, lui oppressore e lei oppressa, lui carnefice e lei vittima, una discriminazione sessista antimaschile galoppante. L’esempio della coppia alticcia è indicativo. Entrambi ubriachi all’uscita da una festa, ma all’uomo è richiesto (cioè imposto, se vuole salvarsi) il dovere di rimanere lucido anche dopo la dodicesima vodka, per la donna invece è implicito che non abbia alcuna contezza di ciò che sta facendo anche se di vodka ne beve la metà. Lui deve valutare la lucidità della compagna – anche se è più ubriaco di lei – e verificare l’eventuale consenso a un rapporto. Il consenso non può mai essere implicito, nemmeno se la ragazza ubriaca si sta letteralmente strappando gli abiti di dosso, nemmeno se gli infila le mani dappertutto, lo stuzzica, lo provoca, nemmeno se è lei a saltargli addosso… Può non essere cosciente di ciò che fa perché lui “l’ha fatta bere”. Ecco un altro pregiudizio sessista: lei non beve mai per sua volontà, è sempre costretta dai maschi tossici e predatori che vogliono approfittare di lei. Anche se i due si sono incontrati ad un rave al quale sono andati da perfetti sconosciuti, anche se lei ha usato smodatamente alcool, canne e pasticche in compagnia delle sue amiche, anche se ognuno ha ecceduto in compagnia delle rispettive comitive, anche se si sono conosciuti solo mezz’ora prima di uscire quando erano già stracotti … qualunque cosa succeda lei non è mai responsabile delle proprie azioni perché lui “l’ha fatta bere”. La persona che ha avuto l’ardire di pubblicare questo post è stata pesantemente attaccata dall’orda femminista: la verità non si può dire, non può esistere nulla di diverso dal dogma vittimista a senso unico
La donna è sempre soggetto passivo.
L’articolo continua specificando che «Secondo la giurisprudenza, la volontà all’atto sessuale deve essere manifestata in modo inequivoco. Il solo fatto di cedere all’altrui volontà non fa presumere che vi sia il consenso all’atto». Notare: “cedere all’altrui volontà”. Le parole hanno un peso: la volontà è sempre altrui, la donna non ha volontà, non ha pulsioni sessuali, non le viene riconosciuto un desiderio più che legittimo. Trattata da minus habens, sempre incapace di autodeterminarsi, sempre travolta da eventi che non riesce a controllare, sempre in balìa del maschio tossico e prevaricatore. Ancora: «a detta della Cassazione il dissenso è da presumersi, laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco consenso». Quindi la donna coinvolta in un amplesso iniziato consensualmente non ha bisogno, qualora cambiasse idea, nemmeno di dire “basta”. In assenza di verbalità il consenso non può essere desunto che dalla gestualità, ma anche un comportamento inequivocabilmente collaborativo può nascondere in realtà un desiderio di rivestirsi e andarsene del quale non si fa alcun cenno, né dialettico né comportamentale, al partner del momento. Lo saprà solo quando gli verrà notificata la denuncia. Avrebbe dovuto sapere che le donne sono dolcemente complicate, come dice Fiorella Mannoia, e che il dissenso è da presumersi, come dice la Cassazione. È stupro quando la donna decide che lo sia.
In generale risulta interessante rilevare come il condizionamento ideologico inquini qualsiasi valutazione in merito all’atto sessuale visto come qualcosa che la donna subisce, sempre. L’unica differenza è stabilire se lo subisca consensualmente o no, resta il fatto che lo subisce. Già questo bug nell’assunto iniziale condiziona pesantemente qualsiasi valutazione successiva. «Se la ragazza si lascia bendare, legare, o accetta altre pratiche estreme, ma poi cambia idea, l’uomo si deve fermare ». Si lascia bendare… un soggetto femminile non può prediligere il bondage, non può essere lei a chiedere al partner pratiche sadomaso, non può amare il ruolo di mistress che sottomette ed umilia i partner. Nella realtà accade, eccome se accade, ma il ruolo di dominatrix in tribunale non esiste, la donna è sempre soggetto passivo che “si lascia fare” delle cose. È stupro quando la donna decide che lo sia.
Si sa, i maschi sono violenti.
Interessante il paragrafo intitolato “Come capire se lei non ci sta”. «Posto che il dissenso al rapporto potrebbe anche essere implicito nei gesti, nelle parole e nei comportamenti della donna, è bene capire da questi se lei ci sta davvero. E come fare? Sicuramente, il pianto della ragazza indica un chiaro dissenso . Lo stesso dicasi di colei che ha accettato l’atto a seguito di una lite furibonda ». Sempre lo stesso pregiudizio: l’iniziativa femminile non viene presa in considerazione nemmeno come possibilità. Può accadere infatti che dopo una lite tra fidanzati sia proprio lei a suggellare la rappacificazione con baci, carezze e altro, ma in tribunale non lo riconoscono. È sempre lei che accetta l’iniziativa di lui, non è ammesso il contrario. «Attenzione a chi usa parcheggiare in luoghi isolati e lontani dal centro abitato: se lei chiede di tornare indietro perché non si sente sicura, bisogna rispettare la sua volontà. Diversamente, il fatto di acconsentire all’atto potrebbe essere solo indice di timore, per evitare cioè di subire una violenza fisica. Sicché, il giorno dopo, la ragazza potrebbe denunciare il compagno perché il suo dissenso era da presumersi nella richiesta di fare inversione di marcia».La criminalizzazione del maschile da strisciante diventa palese, l’uomo viene perennemente associato al concetto di violenza. «Amore, ‘sto posto mi sembra troppo buio; perché non andiamo da un’altra parte?», «tranquilla tesoro, vedi che ci sono altre coppiette? È un posto sicuro proprio perché ci si controlla a vicenda, qui non c’è pericolo di guardoni o altro». Non è ammesso che lui possa tranquillizzarla, che possa farle capire che quel luogo è al riparo dalle aggressioni di eventuali maniaci. L’aggressore è lui di default, quindi se la ragazza accetta di avere un rapporto rimanendo in quel luogo lo fa solo per paura di essere pestata a sangue. È vero che prima aveva espresso perplessità e preferiva andare altrove, ma dopo non può essersi convinta dell’assenza di pericoli, se rimane è esclusivamente per timore, per evitare la violenza fisica del suo partner. Che ovviamente, inquantouomo, non fornisce alcuna spiegazione, non vuole rassicurare la propria fidanzata ma è capace solo a costringerla picchiando come un fabbro. È stupro quando la donna decide che lo sia.
L’articolo torna sul sesso tra chi ha alzato troppo il gomito, e tocca i favolosi vertici di assurdità della Cassazione. «Violenza sessuale da ubriachi – Far ubriacare una ragazza al fine di portarla a letto è violenza sessuale. E lo stesso se è stata drogata. Ma anche se la giovane ha bevuto volontariamente o ha assunto sostanze droganti si rischia ugualmente il carcere. In tal caso si configura ugualmente la violenza sessuale perché l’atto è stato consumato in una situazione di incapacità di intendere e volere. Sicché la vittima, quando realizza l’accaduto può andare dai carabinieri e sporgere denuncia . Bisogna perciò attendere che la ragazza torni sobria per poter avere con lei una relazione fisica. E che succede se invece lo stupratore ha anch’egli bevuto troppo? Il fatto di essere ubriachi non è una giustificazione. Chi decide di assumere alcol lo fa a proprio rischio e pericolo perché comunque risponderà penalmente delle azioni commesse durante la sbronza». Non è meraviglioso? Il fatto di essere ubriachi non è una giustificazione, chi beve lo fa a proprio rischio e pericolo ma vale solo per gli uomini. Per le donne invece l’ubriachezza è la certificazione di non essere in grado di intendere e volere. Inoltre l’incapacità di essere responsabili delle proprie azioni non si limita all’assunzione di alcol ma comprende anche le sostanze stupefacenti. Far ubriacare una ragazza è violenza sessuale, lo stesso se è stata drogata. N.B.: “è stata drogata”, sempre un soggetto passivo in balìa degli eventi. Come sopra: la donna non ha alcuna consapevolezza di ciò che sta facendo, né quando fa sesso, né quando beve o assume stupefacenti. Di nuovo il pregiudizio sessista: una ragazza non beve e non tira coca per sua volontà, mai, è sempre costretta dai maschi predatori che vogliono approfittare di lei. Anche quando, per dire, ha fatto di tutto per riuscire ad infilarsi in quella particolare festa non per ascoltare buona musica ma proprio perché sapeva che c’erano superalcolici e cocaina in abbondanza, e gratis. Ma è immancabilmente “stata drogata”, lo ha sempre fatto nella cronica inconsapevolezza femminile, o per il terrore di essere pestata di botte se rifiutava. Si sa, i maschi sono violenti. È stupro quando la donna decide che lo sia.
Neanche il preservativo è un alibi.
L’articolo prosegue con i goffi tentativi di quella deresponsabilizzazione maschile, che però – come sappiamo – non esiste: «non vale scusarsi dicendo: “Mi sono sbagliato: credevo che ci stesse”. Secondo la Suprema Corte infatti per la violenza sessuale è sufficiente che il consenso non sia stato chiaramente manifestato da parte della vittima. L’errore o l’equivoco non salvano quindi da una condanna per stupro. Insomma, quando c’è il dubbio è meglio essere chiari e formulare la domanda per bene”». No, non esiste possibilità di salvezza, è così difficile dire la verità? Non serve a nulla formulare la domanda con chiarezza, nemmeno ripetendola in tre lingue, nemmeno accompagnandola con un disegnino, nemmeno con un certificato di consenso e firma autenticata. Qualsiasi domanda, per quanto chiara ed inequivocabile possa essere, riceve una risposta affermativa altrettanto inequivocabile che però potrebbe non valere più un minuto dopo essere stata data. Perché continuare con l’ipocrisia del “siate chiari e formulate la domanda per bene”. È stupro quando la donna decide che lo sia. Le prove? Eccole: «Quando lo stupro si consuma lontano da occhi indiscreti e non ci sono testimoni per dimostrarlo, la sola dichiarazione della vittima è sufficiente a fondare una condanna. “È la sua parola contro la mia” non è un valido appiglio per essere assolti, non almeno nel processo penale. Dunque, la testimonianza della donna può bastare da sola per andare in galera ».
Lo stravolgimento del nostro impianto normativo: non è chi mi accusa a dover dimostrare di aver subito un reato, ma sono io a dover dimostrare di non averlo commesso. Cosa oggettivamente impossibile trattandosi di un reato di percezione, che prescinde dalla volontà di offendere del presunto reo. Se la donna “si sente” violentata, lo è. Ai fini della configurazione del reato é rilevante solo la percezione della donna, a prescindere dall’oggettività dei fatti. Altro passaggio importante: «secondo la Cassazione la richiesta della vittima di usare il preservativo non vale di per sé come consenso al rapporto carnale. Infatti può rappresentare soltanto il tentativo di ridurre le conseguenze negative dell’atto non voluto». Quindi se una coppia è impegnata nei preliminari non è detto che ci sia il consenso di lei; se prima di andare oltre la ragazza chiede di fare sesso protetto non è detto che ci sia il consenso; se lui va in bagno, cerca quanto richiesto, lo indossa, torna a letto e la coppia riprende da dove si era interrotta, non è detto che ci sia il consenso. Lei era perfettamente cosciente del fatto che sarebbe stata stuprata, non potendo opporsi per la solita paura di essere pestata voleva solo evitare di contrarre malattie veneree o addirittura di rimanere incinta del proprio stupratore. È stupro quando la donna decide che lo sia.
Insomma, é stupro quando la donna decide che lo sia.
In conclusione, la donna non ha l’obbligo di segnalare il suo dissenso al rapporto sessuale. Può anche mandare segnali di consenso che possono persino essere documentati da un video, ma ciò non significa nulla. Il consenso infatti potrebbe venir simulato per paura di violenze fisiche o per il divario di potere tra stuprata e stupratore (il #metoo ha fatto scuola). La donna ha il diritto di ricostruire il suo consenso-dissenso a posteriori (anche dopo un anno, dice il Codice Rosso). Per dirla con Rino Della Vecchia, «ha il diritto di rendersi conto successivamente se davvero volesse o non volesse fare sesso. (“I never called it rape” = non pensavo che fosse stupro e invece lo era). La donna non è tenuta a sapere, a dire a se stessa se in quel momento volesse o meno, perciò non risponde di ciò che fa, che non fa, di ciò dice o che non dice, perché ciò che conta è la presenza del consenso interiore di cui essa stessa può non essere a conoscenza in quel momento. Ha il diritto di ricostruirlo in qualsiasi momento successivo». Insomma, é stupro quando la donna decide che lo sia.