Woke è un termine molto in voga in questi ultimi anni. Testualmente è una variante di woken che significa “risvegliato”; se ne attesta l’uso fin dalla prima metà del secolo scorso nell’accezione di “consapevole”, “conscio” di quei sintomi della presunta oppressione delle minoranze, che si manifesterebbero nella cultura e nella vita di tutti i giorni. Negli ultimi trent’anni almeno, nei paesi occidentali che garantiscono un’equità sociale senza precedenti nella storia, la battaglia woke ha ormai assunto caratteri esplicitamente repressivi: in nome della lotta all’oppressione si dà libero sfogo a comportamenti e politiche sfacciatamente misandriche, eterofobe e razziste. Per illustrare le dinamiche di questo paradosso, che va costantemente inasprendosi e sembra ormai aver ingaggiato una marcia irreversibile, vorremmo portare l’illuminante esempio dei cosiddetti woke scandals che nel giro di pochi mesi hanno coinvolto tre importanti scuole primarie private (si parla di tariffe superiori ai 50.000 dollari l’anno) di New York.
Tutto è iniziato lo scorso 27 gennaio, quando un nutrito gruppo di genitori anonimi ha inviato una lettera aperta – Loving concern @Dalton – alla Dalton School. La lettera si apre così: «Scriviamo con un peso sul cuore, e con amorevole preoccupazione riguardo il futuro della Dalton». Ne leggiamo alcuni passi senza commentarli: «Ogni singola materia quest’anno è insegnata con una concentrazione ossessiva su identità e razza: recite del “poliziotto razzista” a scienze, lezioni su “decentrare la bianchezza” a storia dell’arte, e su supremazia e sessualità “bianche” a educazione alla salute. Questa ideologia è estremamente esclusiva verso quelle famiglie che non si identificano in una iper-semplificata dicotomia, e non fanno della propria identità razziale o di genere il centro della vita e dell’educazione dei propri figli. Far concentrare i bambini sul colore della pelle e il genere, anziché immergerli nelle bellezza e gioie della civiltà umana, le meraviglie della natura e della scienza, o il significato e il potere di parole, numeri e musica, ci sembra assurdo. Per questo molti di noi stanno considerando di lasciare la scuola. Perché dovremmo volontariamente mandare i nostri figli a imparare che sono colpevoli indipendentemente dalla loro educazione e gentilezza d’animo?» Il 27 febbraio Domonic Rollins, responsabile dell’Ufficio di Uguaglianza ed Inclusione della scuola, ha dovuto rassegnare le dimissioni.
Segnalare gli allievi “resistenti” alla woke culture.
All’inizio dello scorso aprile, Andrew Guttmann, padre di un’allieva della Brearley School, ha inviato una lettera aperta a 650 destinatari tra famiglie di allieve e membri dello staff della scuola: «Riteniamo che l’amministrazione scolastica non abbia più a cuore i migliori interessi di nostra figlia. Mi oppongo all’idea di dover essere giudicato dal colore della mia pelle. Non posso accettare una scuola che non solo giudica mia figlia per il colore della sua, ma la istruisce a giudicare i suoi compagni sulla stessa base. Nell’interpretare ogni elemento dell’istruzione, e ogni aspetto della storia e della società attraverso le lenti del colore della pelle, stiamo dissacrando l’eredità di Martin Luther King e offendendo il movimento di giustizia sociale per cui tanti hanno combattuto e dato la vita. Brearley, nell’adottare questa ideologia, difende l’abominevole idea che i neri debbano essere in eterno considerati quali vittime inermi. Sono certo che non vi sorprenderà il fatto che, vista l’insidiosa cancel culture che permea la società di oggi, molti altri genitori, pur pensandola allo stesso modo, hanno troppa paura di parlare. Ma bisogna farlo.»
Nelle accorate testimonianze di questi genitori il lettore avrà colto più di un elemento di familiarità con la situazione europea, dove il razzismo è in secondo piano (a livello mediatico) e prevalgono le istanze woke legate al femminismo e alla comunità GLBT nella narrazione che si fa della giustizia sociale. Nell’ultimo caso è un docente, il Professor Paul Rossi della Grace Church School, a scrivere una lettera aperta all’istituzione lo scorso 13 aprile: «So che mettendoci la faccia sto rischiando non solo il mio posto di lavoro attuale, ma la mia intera carriera di educatore. Ma avendo testimoniato l’impatto dannoso che tutto questo ha sui bambini, non posso tacere. La mia scuola, come molte altre, induce gli studenti tramite manipolazione e senso di colpa a conformare le proprie idee a quelle generalmente associate con la propria razza e il proprio genere. Lo status moralmente deplorevole di “oppressore” è assegnato a un gruppo di allievi sulla base delle loro caratteristiche di nascita, mentre risentimento e superiorità morale vengono istigati negli allievi considerati “oppressi”. Tutto ciò in nome dell’uguaglianza: ma di fatto è l’esatto opposto. Una recente circolare ha ricevuto entusiastico plauso per aver raccomandato di “segnalare ufficialmente gli allievi” che appaiano “resistenti” alla “cultura che stiamo cercando di costruire”. Quando ho chiesto come riconoscere questa resistenza, mi sono stati fatti esempi quali “persistere in una ideologia cieca al colore della pelle”, “suggerire di trattare chiunque con rispetto” , “credere nella meritocrazia”, o anche soltanto “restare in silenzio”».
Staremo in silenzio o faremo sentire la nostra voce?
Paul Rossi è stato sollevato dal suo incarico dopo questa lettera. Sebbene questi episodi siano incentrati sulla questione razziale, le politiche woke di giustizia sociale qui discusse riguardano direttamente anche l’identità di genere. La stessa Grace Church School ha raggiunto i titoli delle testate internazionali per aver suggerito allo staff, nella Grace Inclusive Language Guide, di evitare formule quali “madre e padre” e “ragazzi e ragazze” perché portatrici di odio di genere (hateful language). Ma lo stesso è successo in una scuola di Birmingham. E mentre da queste pagine denunciavamo che i ragazzi venivano fatti alzare in piedi per scusarsi dell’oppressione delle ragazze in una scuola australiana (e anche in una italiana), lo stesso accadeva in un’altra scuola agli allievi maschi, bianchi e di cultura “cristiana”, per scusarsi dell’oppressione verso altre categorie. Questa follia – diamo alle cose il loro nome – fu teorizzata esemplarmente dal filosofo postmodernista Herbert Marcuse, che rientra in quel filone di pensatori che femminismo intersezionale e altri movimenti di giustizia sociale hanno preso a ispiratori teorici, nel saggio Tolleranza Repressiva del 1965. La premessa di Marcuse è che «la libertà dev’essere ancora raggiunta perfino nelle più libere tra le società esistenti»: sussiste uno sbilanciamento di potere, e un’oppressione di determinate categorie, anche nelle più libere democrazie; e siccome è il potere a informare le verità socialmente accettate, tramite la manipolazione dei media e della cultura, ogni messaggio trasmesso liberamente in una democrazia rispecchierebbe questo sbilanciamento di potere.
Pertanto, se si ha a cuore la liberazione degli oppressi, «La tolleranza non potrà essere indiscriminata, non potrà difendere parole e atti che contrastino la possibilità della liberazione»; «laddove libertà e felicità siano in gioco, certe cose non potranno essere dette, certe idee non potranno essere espresse, certi comportamenti non potranno essere concessi, senza rendere la tolleranza uno strumento dell’oppressione». In una società simile, verità e oggettività diventano «false e inumane», perché concorrono a mantenere lo status quo. Questo significa che le vie della liberazione «possono richiedere mezzi apparentemente antidemocratici» che includono la diffusione di messaggi falsi e non oggettivi, se propedeutici allo scopo, e «la negazione della libertà di parola, e di assemblea per quei gruppi che promuovano politiche scioviniste o discriminatorie». Marcuse stesso previene la domanda che chiunque gli farebbe: chi decide su quali espressioni, quali parole, quali gruppi devono essere soppressi? E la risposta è platonica: la comunità dei migliori (autoproclamati, naturalmente). Questa è la società verso cui la lobby femminista e di altre categorie “oppresse”, con la complicità colpevole della massa silente, ci stanno spingendo. Staremo in silenzio o faremo sentire la nostra voce?