Luana D’Orazio aveva 23 anni. Madre di una bambina, lavorava nel tessile, faceva da circa un anno l’orditrice in un’industria a Oste di Montemurlo, in provincia di Prato. Il 3 maggio la macchina a cui stava lavorando, per cause ancora da accertare, l’ha inghiottita, uccidendola. Sembra una storia da fabbrica dell’800, invece è l’Italia del 2021. Un paese che da molti anni non vede scendere il numero dei morti sul lavoro al di sotto dei 1.000 all’anno. Secondo il triste conteggio dell’INAIL, nel 2020, nonostante il lockdown, le persone morte mentre lavoravano o mentre si recavano al lavoro sono state 1.270. Una strage che a buon diritto può essere definita silenziosa: non ne parlano i sindacati, se non per le solite frasi di circostanza; non ne parlano le imprese, perché la riduzione degli incidenti comporterebbe spesso grossi investimenti; non ne parla la politica, forse perché è un argomento che paga poco dal lato elettorale. E quando per caso se ne parla, di solito è per cercare di scaricare la colpa sui lavoratori, perché non usano i dispositivi di sicurezza, perché sottovalutano i rischi o altro. Va detto però che, pur nell’immane tragedia, qualcosa di doppiamente positivo è accaduto dopo l’incidente mortale a Luana: si sono accesi i riflettori sul problema, da un lato. Dall’altro la luce è stata talmente forte da mandare in pezzi molte ipocrisie.
Da anni il tema degli incidenti e delle morti sul lavoro non guadagnava le prime pagine e la discussione nazionale. Quanto accaduto a Prato ha sbattuto la realtà in faccia a tutti quelli che, con dolo o colpa, non vi prestavano attenzione. Non che questo induca a chissà quale ottimismo: un paio di giorni di cordoglio, qualche confronto in TV, poi tutto tornerà nel silenzio, per consentire di parlare ancora di Fedez e del DDL Zan. Però è già più di qualcosa, anche perché solo una persona in malafede può non chiedersi come mai, in questo singolo caso, c’è stata così tanta attenzione mediatica e sociale. I sindacati hanno indetto uno sciopero (alcuni, solo ora, invocano ipocritamente una legge contro l’omicidio sul lavoro), il fatto è stato commentato dalle più alte sfere della politica, dal governatore toscano Giani a David Sassoli direttamente da Strasburgo. Non c’è stata una redazione del mainstream che non abbia dedicato diversi articoli all’accaduto, raccontando tutta la vita della povera Luana, le sue aspirazioni, il rapporto con sua figlia, raccogliendo testimonianze da chiunque l’avesse conosciuta, il tutto a corredo di articoli o pieni di indignazione o ricolmi di pathos ed empatia. Non che sia sbagliato, intendiamoci. Anzi: essendo semplicemente inaccettabile che si possa morire lavorando, è sacrosanto tutto ciò che viene detto e scritto su fatti tragici come quello di Prato. Ma la domanda resta: perché in questo caso sì e mai in queste proporzioni in nessuno degli altri 1.269 casi uguali che capitano ogni anno?
Sono uomini, muoiono come mosche lavorando e valgono come mosche.
Ipotizzare pubblicamente delle risposte è pericoloso quanto porsi la domanda: le gragnuole di insulti e le aggressioni mediatiche sono dietro l’angolo. Perché le risposte possibili sono una più scomoda dell’altra. Ad esempio ha senso dire che tutto il battage sia derivato dal fatto che Luana fosse molto giovane. I suoi 23 anni la rendono più morta di chiunque altro che perda la vita lavorando ma a un’età più avanzata, perché l’idea generale suggerita dall’iperliberismo mecantilista è che chi è in età avanzata, o peggio anziano, sia un problema: produce poco e consuma ancora meno. E dunque la tragedia di Luana merita le prime pagine, più di un’altra che magari coinvolge una lavoratrice di 55 anni o un lavoratore di 60. Ma non c’è solo questo: Luana era anche bellissima. La sua bellezza spenta dalla morte la rende più morta di chiunque altro perda la vita lavorando ma abbia fattezze meno fotogeniche ed esteticamente conformi ai parametri dettati dalle regole della cultura dominante. Una donna o un uomo d’aspetto normale, o magari addirittura “brutti” nei canoni contemporanei, che morissero lavorando, non fanno notizia, o ne fanno comunque molta meno. La loro bruttezza non suscita empatia, mentre la bella o il bello che non ci sono più qualificano la dipartita come più grave. Non solo: Luana era molto attiva sui social. Il suo profilo Instagram è quasi un book fotografico, oltre che uno spaccato biografico molto dettagliato. Era inevitabile, in un sistema capitalista che prospera con la profilazione degli utenti, che un’internauta così disponibile ed esposta non assurgesse all’onore delle cronache, quasi un modello, molto più di un operaio edile morto con in tasca ancora il suo Nokia 3310. Il meta-messaggio è chiaro: se esibisci ogni anfratto di te in rete (permettendoci di saccheggiarlo), potresti avere una bella ribalta nel caso morissi.
E non è tutto: Luana era anche madre. Negli articoli a lei dedicati non si cita mai un compagno, dunque doveva essere sola ad accudire la figlia, e cosa può esserci di più empatico e “vendibile” dal lato mediatico di questo? È ovvio che a queste condizioni la sua morte possa essere rappresentata come più scioccante e grave di quella di una donna o un uomo magari sposati, con figli più grandi, magari pure con dei nipoti. Tutta roba che non suscita emozione, dunque morti sul lavoro di serie B. Ma soprattutto ciò che ha consegnato la tragedia di Luana alle prime pagine e alla compassione nazionale è il fatto che fosse una donna, su questo non ci piove. È ormai un concetto stabilizzatosi nella percezione diffusa: la morte di una donna, qualunque ne sia la causa, è più grave, a prescindere, di quella di chiunque altro, specie di quella di un uomo. Quest’ultimo anzi vede oggi la sua caratteristica di sempre sublimata all’ennesima potenza: la sacrificabilità. Non si spiega altrimenti il fatto che nessun decesso, nemmeno di lavoratori giovani, belli, social e padri, abbia mai conquistato finora l’attenzione mediatica ottenuta da quello di Luana, sebbene sul totale delle morti sul lavoro la quota maschile oscilli tra il 90 e il 95%. Il peso dell’essere donna è tale da rendere per altro irrilevante anche l’atrocità dell’incidente: basta scavare su “Google News” con le giuste chiavi di ricerca e si trovano lavoratori finiti atrocemente come Luana, maciullati, schiacciati, arsi vivi, soffocati, smembrati, dissanguati. Eppure è già tanto se raggiungono le pagine locali di qualche giornale. Nessuno ne racconta mai la storia con la dovizia e il pathos dedicati a Luana. Sono uomini, muoiono come mosche lavorando. E valgono come mosche. In quanto uomini, prima ancora che in quanto lavoratori.
Un abbraccio pieno di solidarietà.
La strage delle morti sul lavoro, che è una strage quasi totalmente maschile, va spazzata sotto il tappeto, nemmeno il Presidente della Repubblica deve parlarne troppo, per non correre il rischio di oscurare le tematiche femminili svelando che muoiono più uomini sul lavoro che, ad esempio, donne per “femminicidio”. Eppure in Parlamento c’è una commissione d’inchiesta su quest’ultimo tema (pur non essendo in grado nemmeno di definirlo) ma non sulle morti bianche. Il che ha una logica. Se la sofferenza degli uomini, una qualunque e questa in particolare, viene raccontata ed emerge, si nega tutta intera una narrazione della realtà che divide con l’ascia la parte buona (le donne) da quella cattiva (gli uomini). Ecco, anche, perché tanta attenzione per Luana e nessuna per i tanti uomini che, dal primo gennaio fino al 3 maggio, hanno disegnato una lunga scia di sangue lavorando. Questa è la realtà delle cose, ma non si può dire. Se ci si prova, si viene semplicemente zittiti: «un po’ di rispetto», «sei una brutta persona». Oppure: «ci mancano solo i men’s right activist che ne approfittano per fare propaganda». Far notare che non frega a nessuno quando muore un uomo sul lavoro significa “fare propaganda”. «Devo spiegarti quanti femminicidi avvengono in Italia ogni anno?», sbotta tale Chiara Bottazzi su Facebook, in risposta a un utente che si è azzardato a sottolineare l’asimmetria di genere in queste questioni. Commenti così si trovano dappertutto: sotto gli articoli che parlano della vicenda di Luana e sui social. Nessuno che s’azzardi ad ampliare la compassione per Luana a tutti i morti sul lavoro viene risparmiato dall’aggressione mediatica. Nemmeno una influencer importante come Selvaggia Lucarelli, che nel frangente fa un commento con cui (stranamente) pure noi siamo d’accordo.
Il fatto è che quanto accaduto attorno a un evento troppo frequente, attiene direttamente alla percezione collettiva dei ruoli e del valore delle persone in base al genere. Il battage per Luana è stato essenzialmente sessista. Non perché fosse ingiustificato dedicarglielo, lo ripetiamo. Ma perché è ingiustificato il silenzio o il quasi-silenzio riservato a ogni altra morte sul lavoro, chiunque ne sia la vittima, e in special modo se si tratta della parte più colpita, quella maschile. Nei tre giorni successivi alla tragica scomparsa di Luana, sono morti altrettanti uomini, in modo altrettanto atroce, in diverse parti del Paese. Avete visto prime pagine dei maggiori quotidiani, dichiarazioni di politici o sindacalisti, hashtag in memoriam o manifestazioni di profonda solidarietà e compassione sui social network? Qualcosina sì, articoli di massimo una ventina di righe. E sono già tante, probabilmente un effetto dell’onda lunga della morte di Luana. Di solito sono trafiletti di cinque righe. Non pervenute prese di posizione di influencer, politici, sindacalisti, come al solito. Forse i morti successivi erano “vecchi”, forse erano pure bruttarelli e avevano una famiglia “tradizionale”: nessun requisito per diventare caso nazionale e narrativa pubblica diffusa. Ma soprattutto erano uomini: non contano niente dunque, la loro morte è meno grave di altre, non fanno notizia. Noi ci avviciniamo, sì, alle loro famiglie come a quella di Luana, porgendo loro un abbraccio pieno di solidarietà. Ma no, non chiedeteci di esimerci dal denunciare il cinismo, la cattiva coscienza, l’impulso ormai strutturalmente discriminatorio di tutto intero un sistema verso la morte e la sofferenza maschile. E che l’orribile morte di Luana abbia tolto la maschera a questa discriminazione è soltanto una magrissima e tragica consolazione.