Dice: alla fine giustizia è fatta. Giustizia? Ne siamo proprio sicuri? A noi non pare. La vicenda della povera Martina Rossi si trascina da dieci anni, da quando la giovane genovese morì precipitando dal balcone di un albergo di Palma di Maiorca, dove si trovava in vacanza con alcune amiche. Lì conosce un gruppo di ragazzi, anch’essi italiani. Insieme passano la serata e, nella notte tra il 2 e il 3 agosto 2011, il gruppo si mescola. La stanza delle ragazze è occupata dalle amiche di Martina e da una parte dei ragazzi, così lei raggiunge altri due, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, nella loro stanza. Proprio quella da cui poi precipiterà, trovando la morte. Cosa è accaduto davvero? Le autorità spagnole, pur usualmente solertissime a incriminare gli uomini, sulla base di una legislazione fortemente punitiva per i reati “di genere”, archiviano il tutto come “suicidio”. I genitori di Martina non ci stanno e fanno riaprire l’inchiesta in Italia, ipotizzando che la figlia sia caduta perché stava cercando di sottrarsi a un tentativo di violenza sessuale da parte dei due giovani. In primo grado Albertoni e Vanneschi si beccano sei anni di carcere per tentato stupro e morte in conseguenza di altro reato. In appello decade per prescrizione la seconda accusa e sulla prima, il tentato stupro, i due ragazzi ottengono l’assoluzione con formula piena, «perché il fatto non sussiste».
Una sentenza che tutti i media definiscono “shock”, perché l’aspettativa era di una conferma della condanna ed è parso inaccettabile che i magistrati non abbiano riconosciuto, nelle evidenze processuali, elementi per accertare che un fatto criminoso sia avvenuto. Comprensibilmente in prima fila in questo schieramento indignato ci sono i genitori della ragazza, feriti due volte: dalla scomparsa della figlia e dagli inevitabili ragionamenti che vengono fatti sulle scelte e la condotta tenuta dalla stessa durante la serata con i ragazzi a Palma di Maiorca. Ragionamenti che prendono in considerazione anche l’ipotesi che Martina sia stata vittima di un incidente, nello scenario di una “notte brava” a cui aveva scelto liberamente di partecipare. E che oltre a ferire, comprensibilmente, i genitori, indignano i media, che sanno bene come allinearsi al pensiero unico dominante orientato dal femminismo, che nulla ha a che fare con giustizia e diritto, quel campo dove servono prove, testimoni, evidenze per condannare una persona. Tutta la forza eversiva delle organizzazioni femministe si mobilita allora in una campagna di indignazione che bersaglia innanzitutto le scelte della magistratura. Non ci sono vie d’uscita: Martina deve per forza essere stata indirettamente uccisa dai due maschi che stavano tentando di stuprarla. Non è e non deve essere un’ipotesi accusatoria, ma la verità, anche se alcuni magistrati l’hanno certificata come insussistente.
A farne le spese sono gli uomini, tanto per cambiare.
Anche sulla base di questo sostegno parte il passaggio al terzo grado di giudizio. La Cassazione esamina il caso con tutta la pressione mediatica e politica addosso, e l’intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara spiega bene quanto i magistrati di ogni ordine e grado siano sensibili a cose come i media e la politica. Così la sentenza d’Appello viene rimandata al mittente perché mostrerebbe «incompletezza, manifesta illogicità e contraddittorietà», e sarebbe «priva di una visione sistematica dell’intero quadro istruttorio». È vero? Non lo sappiamo, non l’abbiamo letta. Colpisce però la severità del giudizio sull’operato dei colleghi del secondo grado. Più che una valutazione da giuresperiti sembra una tirata d’orecchi: «state nei ranghi, non uscite dalla scia». E la scia è, in questi casi, che i due uomini devono essere condannati, qualunque siano le evidenze (o la loro mancanza) emerse durante il processo. Tutto da rifare, insomma, e la bestia mediatico-ideologica già sbava come un lupo davanti degli agnelli, mentre la Cassazione fa ciò che accade sempre tra giudici di fronte a casi controversi: passa ad altri la patata bollente. Chi la riceve, la Corte d’Appello di Firenze, è l’ultima istanza, non può passarla ad altri e deve trovare una soluzione. Che arriva mercoledì 28 aprile: Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi vengono condannati a tre anni di carcere ciascuno per tentata violenza di gruppo verso la 23enne Martina Rossi. La bestia non saliva più, ora è soddisfatta, e colma del suo appagamento tutti i media mainstream con un coro unanime: «giustizia è fatta».
In verità pare più un compromesso. Per accontentare le pressioni mediatiche e ideologiche viene irrogata una pena modesta rispetto a quella che si poteva comminare, e che oltre tutto si estinguerà per prescrizione in estate. I ragazzi in galera non andranno, ma quello è il meno: la fedina penale è sporcata adesso, la loro reputazione è rovinata, senza contare il calvario di dieci anni per arrivare un epilogo che pare una beffa. Perché il rinvio della Cassazione non ha comportato l’emergere di nuove circostanze, prove o testimoni sul caso di Martina: l’appello-bis ha valutato esattamente le stesse cose del primo appello, si è trattato di un processo-fotocopia, e nonostante questo l’esito di mercoledì passa da un’assoluzione «perché il fatto non sussiste» a una condanna a tre anni. Una forbice davvero poco credibile dal punto di vista del diritto e della funzione che la giustizia sarebbe chiamata ad assolvere. Una prova ulteriore che tale funzione la giustizia non la assolve più: esistono casi, e sono sempre più frequenti, dove le corti sembrano più che altro ratificare le sentenze dettate dalle spinte del conformismo mediatico o popolare verso specifiche chiavi di lettura della realtà. A scriverle è in realtà la sete di sangue dell’opinione pubblica e il bisogno di talune accolite di avere quante più conferme possibile dei loro teoremi. Non è un caso che tutti i giornali banalizzino le tesi difensive dei due accusati e si guardino bene dall’intervistarli. Né è un caso e non stupisce affatto che fuori dal tribunale, mercoledì scorso, si sia installato un presidio di “Non una di meno”, con tanto di cartello “Sorella io ti credo”. Erano lì per ricordare ai magistrati che esiste un codice gerarchicamente superiore a quello penale o di procedura penale, ed è quello femminista per cui gli uomini sono sempre colpevoli del male che colpisce le donne, le quali non sono mai e in nessun modo responsabili o corresponsabili di quel male, sono bensì soltanto vittime. Quella di mercoledì scorso è dunque molto probabilmente l’ennesima brutta pagina della giustizia italiana di cui, tanto per cambiare, fanno le spese sono gli uomini. Più grave di tutto è la sensazione che per difendersi in tribunale ormai non serva più trovarsi un buon avvocato, ma sia molto più utile assoldare qualche influencer e ungere qualche redazione, sperando che la propria storia risulti conforme a uno storytelling apprezzato dalla plebaglia internettiana e dalla massa depensante dei telespettatori.