Il maggiore tema di discussione su queste pagine e tra i follower è come riuscire a sciogliere la morsa tirannica del femminismo su tutti i settori più importanti della vita comune, la cultura, la società, il lavoro, l’economia. Le soluzioni proposte sono tante e in genere implicano il coinvolgimento e la mobilitazione di una sfera maschile più ampia e cosciente dei pericoli che tutti, uomini e donne, specie i più giovani, corrono lasciando mano libera alla follia ideologica delle varie Murgia, Valente, Blasi, con tutto il loro stuolo di maschietti reggi-coda. Di solito il circuito del confronto finisce sempre allo stesso modo: si può fare tutto quello che si vuole ma, se non si muovono le donne stesse, il femminismo non verrà mai ridotto nell’angolo buio da cui è sbucato fuori negli ultimi trent’anni guadagnando una ribalta e un potere mai avuti prima.
Già, le donne, questo insieme variegato e complesso di realtà che si dà per scontato sia tutto interamente femminista, regalando così alle femministe stesse una rappresentatività che in realtà non hanno. È per questa realtà del tutto virtuale che oggi dirsi antifemministi espone alla critica di odiare tutte le donne, concetto sensato come dire che chi è contro la mafia odia tutti i siciliani. Questo è un teorema da spezzare, o per lo meno da guardare in tutta oggettività, comprendendo che esistono donne (e non sono poche) apertamente antifemministe, e ne abbiamo avuto prova intervistando le nostre quattro amiche casalinghe settimana scorsa. Le loro risposte ci hanno mostrato che un altro mondo, dove uomo e donna si stimino (si amino) e collaborino in termini paritari, è possibile e porta risultati del tutto soddisfacenti per entrambi. Realtà replicabile tranquillamente anche con una donna che lavora, visto che la chiave comune a tutte le interviste stava nella consapevolezza di sé e nella lealtà a valori riconosciuti e condivisi, più che a cosa fa uno o cosa fa l’altro.
È così per i fondamentalismi religiosi, per i partiti politici totalitari e per i movimenti terroristici.
Detto questo, si sa che le donne come quelle che abbiamo intervistato sono poche, una minoranza. E le altre? Le altre possono essere collocate tutte su una sorta di scala graduata di femminismo. Al gradino più basso troviamo quelle che hanno assorbito passivamente e in termini generici la mentalità e i teoremi femministi, ma sono abbastanza elastiche e intelligenti da accogliere smentite e cambiare idea. Al grado più alto troviamo le furie cieche, i mastini idrofobi sbavanti livore e odio verso il maschile, non di rado con diversi affari e affarucci innestati su quell’odio stesso. Le Murgia, le Gruber, le Cirinnà, le Lucarelli, le Non Una di Meno e tante altre di nostra conoscenza, per capirci. In mezzo a questi due estremi c’è la stragrande maggioranza delle donne, più o meno uniformemente distribuite e sempre più impossibili da riconvertire al buon senso mano a mano che ci si avvicina alla zona rossa del livello Murgia-Gruber. In ogni caso è difficilissimo innescare un risveglio alla ragione perché il sentore di tutte è che il femminismo, anche se ogni tanto deraglia, anche se esagerato, isterico, estremista, violento, comunque è giusto. Ma soprattutto porta avanti lotte i cui vantaggi, in qualche modo, in qualche misura, prima o poi, potrebbero riverberare su tutte.
Dice: il femminismo discrimina, fa violenza, nega diritti, sminuisce, svilisce, criminalizza ingiustamente tutti gli uomini? “E vabbè, che vuoi che sia, qualche scoppola ci sta, sono uomini… E poi magari così le femministe ottengono qualche cosa in più anche per me che sono donna”. Questa è la chiave di lettura miope con cui il femminismo raccoglie più o meno calde adesioni in tutto il fronte femminile, che non vede (perché gli è tenuto nascosto) quale esito distruttivo quelle “scoppole”, che in realtà sono cannonate, possono avere sull’intera tenuta sociale, specie quella futura, dove vivranno i loro figli (maschi e femmine). Il femminismo sopravvive e prospera, in altre parole, perché ha una folla di donne (e anche di uomini, ma proprio in quanto tali, quand’anche riconvertiti alla ragione, non sposterebbero gli equilibri) che lo fiancheggia. Ossia sostiene moralmente le sue porcherie, pur senza parteciparvi direttamente. Se ne tiene a distanza ma marcia al suo ritmo, ne assorbe i metodi e gli scopi. Crea quel consenso diffuso che è fondamentale ai movimenti estremistici, anche i più folli e criminali, per consolidarsi e prendere il controllo. È così per i fondamentalismi religiosi, per i partiti politici totalitari e per i movimenti terroristici.
Serve un evento altrettanto scioccante.
Ed è proprio il terrorismo a dare il paragone ideale per comprendere la situazione e la sua soluzione. Il femminismo è per le donne oggi ciò che le Brigate Rosse negli anni ’70 erano per i comunisti o le persone di sinistra in generale. Spargevano sangue, è vero, ma a modo loro contribuivano a combattere “per la causa”. Per questo i brigatisti erano visti con indulgenza, fiancheggiati moralmente (talvolta anche praticamente) da un intero apparato di partito e da ampie fasce sociali, che allora venivano dette “proletarie”. Si trattava di lotta armata, di eversione, di omicidi e rapimenti, roba criminale, da far rabbrividire un sincero democratico, eppure… eppure erano “i compagni che sbagliano”. Sbagliano, sì, ma restano pur sempre “compagni”. Così era nel PCI e dintorni, come nelle fabbriche e nei sindacati, ed è una delle ragioni per cui lo Stato, al netto di certe bieche connivenze, fece così fatica ad aver ragione della stagione del terrore in Italia. Le Brigate Rosse o similari godevano di un tacito consenso. Molti pensavano che, lasciando che alcuni altri sparassero e massacrassero, forse si sarebbero ottenuti più e migliori diritti per i lavoratori. Il fine giustifica i mezzi.
Il femminismo di oggi, pur non spargendo sangue reale (ma spargendone a fiumi sotto altri aspetti), è uguale rispetto alla platea femminile. Che si può ravvedere dall’errore del fiancheggiamento per le “sorelle che sbagliano” solo in due modi. Il primo è quello di fidanzarsi o sposarsi con un uomo separato. In quel caso il più delle volte toccano con mano quanto essere uomo oggi significhi essere cittadino di serie B, talvolta addirittura un giudeo nel Terzo Reich. Casi del genere capitano di frequente, ma non abbastanza da risvegliare la gran massa di donne. Il secondo modo è che la storia si ripeta: il terrorismo rosso perse la sua presa a partire dall’omicidio del sindacalista Guido Rossa, ucciso per vendetta a Genova, il 24 gennaio del 1979, per aver denunciato un operaio affiliato alle Brigate Rosse. Da quel momento un’ondata di indignazione, proprio a partire dal mondo della sinistra, tolse ogni credito, anche minimo, alla lotta armata che, trovandosi priva di fiancheggiatori, in breve si disarticolò, rendendo più semplice allo Stato smantellarla. Chiaro: non ci stiamo augurando che qualche fanatica femminista prenda a revolverate qualche femminista cosiddetta “moderata”. Non serve un Guido Rossa di sesso femminile, per carità. Sicuramente però serve un evento altrettanto scioccante, capace di mostrare a tutte le donne quanto non ci siano vantaggi che possano legittimare la pericolosità dell’ideologia e dei movimenti femministi che così passivamente e silenziosamente fiancheggiano. Il problema è che l’evento scioccante di fatto già c’è: il femminismo sta già silenziosamente passando per le armi il futuro, dunque i cadaveri delle vittime diventeranno evidenti solo tra molto tempo e restano invisibili oggi. Compito dell’antifemminismo è aprire uno squarcio sul futuro davanti agli occhi delle donne comuni, affinché si rendano conto del disastro di cui, più o meno passivamente, con il loro silenzio si stanno rendendo complici.