Si sono spesi fiumi d’inchiostro sulla gag di Gerry Scotti e Michelle Huntziker che a Striscia la Notizia hanno mimato gli occhi a mandorla e la parlata tipica dei cinesi (la L al posto della R e così via). Si sono scomodati tutti a condannarli: «non si deridono gli altri popoli», «è una forma di razzismo», «siparietto indegno e offensivo», e chi più ne ha più ne metta. Mentre infuria la polemica con l’immancabile richiesta di scuse e addirittura minacce di morte per i due conduttori, arriva dagli Stati Uniti un’altra notizia dello stesso tenore: Hank Azaria, il doppiatore del personaggio della serie “I Simpson” Apu Nahasapeemapetilon, un immigrato indiano, si scusa per il suo lavoro. Per anni ha prestato la sua voce emulando la parlata inglese tipica degli indiani immigrati. «Così facendo ho alimentato quello che è il razzismo congenito nella società americana», ha dichiarato, cospargendosi il capo di cenere, forse per prevenire una condanna che prima o poi, nel clima nazi-farsesco in cui il politicamente corretto liberal progressista ci ha costretti, gli sarebbe arrivata addosso. In pratica ha abiurato, come si faceva ai tempi della Santa Inquisizione.
Sono soltanto due esempi, i più recenti in ordine di tempo, dell’incessante lavoro di livellatura che il grande progetto globale di uniformizzazione delle genti porta avanti con spietata determinazione. I promotori di quel progetto non si curano del fatto che si sta forzando la natura, a tutti gli effetti, oltre che una tradizione quasi millenaria. I greci antichi chiamarono βάρβαρος, ovvero bárbaros, tutti coloro che non parlavano la loro lingua. Il termine che scelsero era una specie di presa in giro, quasi un’onomatopea atta a fare il verso alla parlata dei non-greci, che ai greci pareva appunto un borbottio privo di significato. Dall’alto della cultura che avevano sviluppato si potevano permettere questa forma di arroganza, che è giunta fino a noi nella forma della parola “barbaro”, con cui ancora oggi, se si vuole, è possibile definire l’altro da noi, chi è diverso. Indubbiamente i cinesi, la loro lingua, le loro usanze, sono diversi da noi, estranei alla nostra lingua e alle nostre usanze. Sono “barbari”, esattamente come noi lo siamo per loro. Un meccanismo che funziona con ogni altro popolo e anche nelle relazioni individuali: sono tanti i barbari che incontriamo nella nostra vita, e di sicuro noi siamo i barbari di qualcun altro.
Vero è che i greci, e ancora altri dopo di loro, denotavano l’altro in modo negativo con la parola “barbaro”. Ma se si guarda a ciò che è accaduto successivamente, cioè al fatto che l’incontro e la fusione con i “barbari” hanno prodotto lo sbarco sulla luna, la scoperta del DNA, Dante, Leonardo, Shakespeare, Mozart e Beethoven, oltre che noi contemporanei, diventa chiaro che il “barbaro” cela in sé una ricchezza che rischia di non essere sfruttata per il fatto che l’altro, il diverso, per istinto e per natura insospettiscono, quando non fanno addirittura paura. Ecco allora che scattano meccanismi semplificanti per rendere noto l’ignoto, o per lo meno per renderlo meno ignoto. Per questo i cinesi hanno gli occhi a mandorla, dicono la L al posto della R, hanno la pelle gialla e sono piccoli di statura. Così come i popoli nordici sono d’animo freddo e insensibile, grandi consumatori d’alcol, tutti alti, biondi e con gli occhi azzurri. Così come gli africani sono tutti dei gran ballerini, tutti ovviamente neri di pelle, con peni enormi e una cultura tribale. Così come noi italiani siamo pizza, pasta, mandolino, mafia e fascismo. Stereotipi? Certamente. Ma con un’indubbia radice di verità complesse che tramite lo stereotipo vengono semplificate, rese comprensibili e tranquillizzanti. Lo stereotipo è, nella quasi totalità dei casi, un esorcismo che aiuta i diversi ad avvicinarsi senza temersi. In questo le reciproche prese in giro hanno una funzione chiave. Basta vedere il formidabile lavoro del comico indo-canadese Russell Peters per rendersi conto di quanto lo scherzo, l’autoironia, la presa in giro di sé e degli altri (diversi), ancor più lo sbeffeggio politicamente scorretto, possano essere cruciali per favorire l’incontro di culture e identità diverse.
Il problema è che non ci vogliono diversi e capaci di incontrarci. Ci vogliono tutti uguali e livellati verso il più basso possibile. Impauriti, ammutoliti, schiacciati da perenni sensi di colpa provenienti da ogni anfratto del nostro essere. In quello stato siamo tutti più mansueti e governabili, facilmente indirizzabili dove grandi interessi rappresentati da organizzazioni globali e locali vogliono condurci. In genere alla cassa di qualche mega-store o su qualche sito di e-commerce, con la carta di credito in mano e la piena disponibilità a concedere ogni minimo bit delle nostre preferenze, per essere meglio profilati. In questo gioco al massacro l’ideologia femminista e l’ideologia queer giocano un ruolo di primo piano. Donne e omosessuali da una parte, uomini ed eterosessuali dall’altra sono significativamente diversi e come tali capaci di trovare un modo per calmierare i motivi di sospetto e paura reciproca, perché no, anche prendendosi reciprocamente in giro, anche con l’uso di stereotipi semplificanti. L’esito complessivo sarebbe un avvicinamento, una graduale comprensione reciproca, una reale capacità di cooperazione e di ricchezza morale diffusa. Niente di più pericoloso per il sistema attuale. Ecco perché il femminismo e l’ideologia queer, tra i massimi leader del progetto totalitario (dal nemmeno troppo vago sapore sovietico) teso a spianare le differenze, lavorano incessantemente all’interno dell’ampio spettro del politicamente corretto per renderci tutti, uomini e donne (eterosessuali), impauriti, ammutoliti e letteralmente piallati da sensi di colpa. Sotto il vello di pecora della “parità”, della “inclusione”, della “lotta all’odio” si nasconde in realtà il lupo feroce dell’oppressione e della scarnificazione di ogni diversità e di ogni possibile ricchezza che ne potrebbe derivare. Per questo è dovere etico opporsi a quel progetto e puntare a seppellirlo. Magari partendo proprio da una grande risata.