Qualche anno fa, nel corso di un viaggio autostradale da Brescia a Roma, parlammo a lungo con Fabrizio Marchi. Di lui apprezzammo l’eloquio e l’onestà intellettuale. Ci raccontò anche delle amarezze di Yasser Arafat, che lui stesso aveva intervistato nel 2004. Il presidente dell’OLP sapeva quanto, davanti agli imperativi del capitalismo, il mondo fosse sordo alle sofferenze. Oggi preferiamo parlare di neoliberismo ma, mutatis mutandis, l’ordinatore essenziale della nostra società sono i rapporti di classe e i conflitti in senso marxiano. Pur senza averne piena coscienza subiamo nelle nostre esistenze la spietatezza che ci ha imposto il trionfo del capitalismo, anche in termini di numerose fratture identitarie. Non è un caso che oggi ci governa il falco del “whatever it takes” per la moneta europea. Uno dei campioni più rappresentativi nelle politiche di svendita dei beni pubblici nazionali, attualmente a disposizione della digitalizzazione dell’Italia e dei transumanti digitali. Dietro la farsa della contrapposizione tra “destra” e “sinistra”, due poli dell’unico ordine classista preponderante, assumono forma diversi conflitti creati a tavolino ed elaborati da think tank con riconosciuta eccellenza globale. Queste contese, in ultima analisi, servono a dissimulare quella principale: quella tra ricchi e poveri, tra signori e servi, tra dominanti e dominati.
Per meglio chiarire, alla luce dei fatti, quella in corso non è una lotta vera e propria, con due parti attive in disputa biunivoca, ma è vessazione e annientamento sociale di una parte nei confronti dell’altra, costretta per diversi motivi a una inquietante inerzia. Per alcuni questa chiave di lettura diffusa dei conflitti è opinabile, ma è senza meno poco funzionale alle narrazioni dell’ideologia neoliberale. È un fatto inconfutabile che, a datare dal 2010, nelle scuole italiane le ore dedicate allo studio della storia sono progressivamente calate. I giovani sono stati privati degli strumenti per leggere la realtà storica e sono stati spogliati quindi della possibilità di determinare e indirizzare le loro opzioni. Già dalla fine del secolo scorso la maggior parte dei giovani è cresciuta in una sorta di dimensione statica, nella quale è mancato ogni tipo di rapporto organico con i fatti del passato. A quanti studenti è stato dato di conoscere il pensiero socialista e quello liberista? Ma dove sono finite le opere di Karl Marx e di Adam Smith? Chi sono costoro? Siamo immersi in un coacervo di conflitti orizzontali da interpretare e ognuno, in relazione agli strumenti dei quali dispone, sceglie la propria esegesi. Alcuni di questi scontri sono semplicemente dei distrattori per il gregge e forse quello verticale, vissuto nel segno dell’oppressione di classe, di cui pochi hanno piena cognizione, ne assorbe una buona parte.
Quel femminismo che parte da Marx ed Engels.
Ci sono i contrasti per il colore della pelle, per la religione professata, per l’appartenenza etnica, per l’inquadramento giuridico del catcalling, per la posizione lavorativa. Esistono conflitti tra eterosessuali e comunità LGBT, tra italiani e stranieri, tra leggi regionali e leggi statali, tra civiltà e natura, tra cittadini sotto decreti anti-pandemia, tra dipendenti e Partite IVA. Alcune di queste contrapposizioni, in certi casi, assumono incredibili punte di veemenza. Ogni giorno assistiamo, grazie ai mass media, alla costruzione di nuove opinioni o di assilli, che servono per sviare la gente dal prendere coscienza su problemi veri e pressanti. Secondo Protagora homo mensura, ovvero l’uomo con i suoi bisogni e i suoi diritti, è la misura di tutte le cose. Eppure in nome dell’emergenza sanitaria, mentre in ogni trasmissione televisiva, quotidianamente, si confrontavano e continuano a confrontarsi, senza soluzione di continuità, opinioni e soluzioni intorno al Covid-19, gli italiani hanno perduto la libertà e la possibilità di socializzare, trovandosi sostanzialmente in prigionia, imbavagliati con una mascherina, a volte con soddisfazione vaccareccia. Nel rumore delle contrapposizioni, con l’uso della paura, mettendo gli uni contro gli altri, è stato creato il precedente secondo cui tutte le libertà saranno praticabili con il nullaosta dei governanti e quindi sopprimibili in ogni circostanza.
Nell’elenco dei conflitti arriviamo a quello che contrappone l’ideologia femminista agli uomini, che in quanto tali sono l’incarnazione del male nelle sue infinite declinazioni. K. Marx e F. Engels asserirono che la società divisa in classi ha il suo germe nella famiglia, quando quest’ultima diventa monogamica e dove la donna e i figli sono schiavi dell’uomo. Gli effetti sociali prodotti dal pensiero luterano e dalle rivoluzioni borghesi indussero i due filosofi a fare alcune riflessioni sullo stato della famiglia della loro epoca, così sintetizzate: «La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro». Amadeo Bordiga, che fu poi tra i fondatori del PCI dopo la scissione del PSI avvenuta al Congresso di Livorno del 1921, scrisse: «Marx dimostrò che il lavoro è soggetto come qualunque altra merce alle leggi dell’offerta e della domanda. Si potrebbe svolgere una teoria analoga sulla merce-amore. E anche in questo campo si può dimostrare l’esistenza di un plusvalore, che rappresenta lo sfruttamento del maschio sulla femmina, analogo a quello del capitale sui salariati. Una analisi dettagliata dimostrerebbe che nessuna forma di rapporto sessuale può sfuggire a queste leggi. Ci si può chiamare volgari, ma questo non sposta la nostra obiettività. Il socialismo ha disturbato già la “poesia” di chi voleva godere senza che raggiungesse le sue narici delicate il puzzo che sale dal letamaio degli sfruttati. E noi potremo dire a quei giovani sentimentali e intellettuali che ci accuseranno di “cinismo” che essi indirizzano la parte migliore della loro attività appunto a questo nobile scopo, amare senza pagare».
Le militanti in rosa che se la prendono con gli uomini involontariamente celibi.
Pur con queste premesse ci domandiamo se l’ottimo stato di salute del movimento femminista può trovare oggi una legittimazione ideologica o una chiave interpretativa nel marxismo. Ci sembra che i tempi in cui la donna era sminuita e sfruttata sono lontani. Se ancora esiste una donna “vittima”, quella è la donna dei ceti poveri, che lo è alla pari degli uomini posti nella sua stessa condizione. In questa fascia sociale il femminismo non deve fare molte proselite. Dove ne fa, questa ideologia e la battaglia che ne deriva sono conseguenze e strumenti della classe egemone. L’obiettivo finale delle strategie di divisione, sempre impiegate da qualunque genere di potere centrale, è quello di creare una realtà immaginaria alimentando le differenze che danno origine a sospetti, rancori, violenze e faide. È solito che i gruppi posti ingannevolmente in dissidio vengano in qualche maniera comprati e che alcuni di questi abbiano la possibilità di accedere a determinate risorse in modo da allinearsi e allearsi ai centri di potere. Dove la tecnica del “divide et impera” risulta applicabile produce esiti apprezzabili, soprattutto nel caso di società frammentate. Secondo Suzanne Venker, autrice americana di saggistica e conduttrice radiofonica al KXFN, ci sono alcune bugie che hanno reso infelici le donne (e spiega anche perché): le donne non hanno bisogno di uomini, gli uomini e le donne sono uguali, il genere è una costruzione sociale, l’orologio biologico non è reale, una carriera è più significativa del matrimonio e dei figli. Malgrado le “scoperte” fatte dalla scrittrice le bugie e la disonestà intellettuale, di cui peraltro sono rimaste vittime anche le stesse donne, continuano ad essere il motore dell’attivismo femminista.
Singolare è la marcata intolleranza del femminismo nei confronti delle sex workers autodeterminate, che scelgono di vendere servizi sessuali e che per questo motivo vengono disconosciute e insultate. Il verbo abolizionista sostiene che quelle che fanno tale scelta sono colluse con i “carnefici”, i papponi e gli sfruttatori. Un altro inganno è garantito dalla cultura dominante che procede per cliché e preconcetti: la donna è sempre arrendevole, innocente, vittima, mentre l’uomo è sempre carnefice e bastardo. Gli elogi al genere femminile, in effetti, non sono che un trabocchetto ideologico: si invoca la superiorità della femmina solo se emula il maschio arrampicatore, se duplica gli stessi comportamenti e i valori del maschio vincente. Si sa, il padrone incensa sempre il più devoto tra i suoi servi. In tema di bugie femministe ricorrono quelle sui procedimenti giudiziari che vedono imputati degli uomini. È regola che quando la vittima è una donna e il colpevole è un uomo venga richiesta, anche sulle piazze, una pena esemplare, manipolando i fatti, finanche contro la legge. C’è un trend sofistificatore globale dell’informazione, con tanto di prontuari scritti, per instradare i giudizi dei lettori, per suggestionarne le percezioni nella colpevolizzazione metodica del maschile e nella vittimizzazione del femminile. Mai sazie di fandonie strumentali ecco le militanti in rosa che se la prendono con gli uomini involontariamente celibi (persone fragili che in verità sono rimaste avvelenate dall’ideologia femminista) i quali vengono gratificati con questi appellativi: terroristi, pedofili, stupratori, autori di femminicidio (o aspiranti tali), “uomini beta che stuprano gli uomini alpha”, estremisti di destra, stragisti.
I tribunali sono disseminati di “mine antiuomo”.
Un altro prodotto del veleno sparso dalla bellicosità femminista è la macchina del fango molto attiva nei tribunali attraverso le false accuse. Altro frutto marcio dell’agire antimaschile è la scarsa applicazione sostanziale della legge 54/2006 in fase di separazione coniugale. Non va meglio quando andiamo ad analizzare i criteri finanziari con i quali i giudici stabiliscono gli “assegni di mantenimento”. Di strade per andare a collidere con il maschile se ne trovano sempre di nuove, come il confondere i piani della parità con l’annientamento dell’uomo attraverso pubblicazioni tipo “Moi les hommes, je les déteste”. L’ideologia femminista fonde nello stesso crogiolo la rivendicazione della parità e l’acredine per gli uomini. La rivalità arriva al parossismo quando invita a gioire e a solidarizzare nel caso una donna bistrattata, colpisce con l’accetta, sfregia o spara ad un uomo. La crociata antimaschile è talmente aspra da oscurare ancora meglio la mai cessata lotta di classe, la quale prosegue sotto traccia e viene combattuta in silenzio.
C’è una classe dominante globale che sta tramutando i propri interessi in vincoli sistemici irreversibili finalizzati alla predazione. Il suo muoversi nella dimensione verticale dei conflitti appare meno cruento di quanto appaia lo scontro orizzontale tra sessi, il quale assorbe un’enorme quantità di energie e di attenzioni che potrebbero essere rivolte altrove. I percorsi del vivere quotidiano di chi è nato maschio, partendo dai rapporti familiari, passando per quelli di coppia fino a quelli che finiscono dentro i tribunali sono disseminati da “mine antiuomo”, pronte ad esplodere in qualsiasi momento. Ordigni deflagranti di ogni tipo sono stati disseminati in maniera ossessiva e castrante. La guerra agli uomini la si fa anche per mezzo dei centri antiviolenza. Sostenuti da una potenza di fuoco inarrestabile impongono menzogne che, proprio per la forza dei mezzi impiegati, resteranno impresse nell’opinione pubblica come se fossero delle verità, anche se ampiamente e documentatamente smentite. E in articoli come questo c’è solo una delle tanti pistole fumanti trovate nelle mani del femminismo spudoratamente lanciato alla conquista della primazia per mezzo della contraffazione dei dati.