Il caso del professore di Mantova multato per non aver indossato la mascherina durante la permanenza a scuola sembra avere poco a che fare con questioni di salute: a una lettura più approfondita sembrerebbe piuttosto un caso di abuso di potere fra una preside e un sottoposto. I protagonisti della vicenda sono Mauro Mortara, insegnante di Storia e filosofia all’Istituto Fermi di Mantova, e Marianna Pavesi, preside, ma anche esponente politico in quota PD, ex assessore alla pubblica istruzione, politiche educative, pari opportunità, città dei bambini e delle bambine e, naturalmente, femminista di ferro. I fatti: il professore teneva lezione in classe senza mascherina – e se ne vantava secondo quanto raccontato dalla stampa – comportamento che ha costretto la dirigente a segnalare tutto alle Forze dell’Ordine. Un mostro sbattuto in prima pagina, un’iniziativa che ha fatto piovere sulla testa del professore varie accuse tra cui negazionismo, complottismo e la solita gragnuola di immancabili insulti. In verità Mauro Mortara non porta la mascherina perché dispensato da un certificato medico. Ciò nonostante la dirigente pare si sia ripetutamente accanita contro di lui. Perché?
Il dubbio è che con la scusa del covid la Pavesi abbia voluto ingaggiare una battaglia “empowered” verso il giovane maschio bianco, intelligente, rispettoso (e pure un bell’uomo!), qualità che, per certe femministe in servizio permanente effettivo, non lo potevano esonerare dall’obbligo al silenzio e all’obbedienza. Analizziamo la vicenda: l’obbligo di indossare la mascherina in classe, anche in posizione statica era stato introdotto ad ottobre 2020. Marianna Pavesi aveva deciso di annunciare la notizia attraverso l’altoparlante. Quando ciò era avvenuto, il professor Mortara stava facendo lezione e aveva dovuto interrompere la spiegazione. Il docente, che ha il compito di tenere anche le ore di Educazione Civica, a quel punto coglie la palla al balzo e, terminata la comunicazione, decide di analizzare il contenuto del DPCM, facendo notare che l’articolo 1, relativamente all’uso della mascherina all’interno dei locali chiusi, prevede l’obbligo quando non è possibile mantenere la distanza di sicurezza di un metro. Pertanto, fa presente il docente, se uno studente è in grado di garantire le norme di sicurezza può abbassarla, così come se ha la necessità di toglierla in caso di mal di testa o altro malessere.
Si profila la diffamazione a mezzo stampa.
Tutto bene, ma qualche giorno dopo, nella sua casella di posta arriva una mail che lo informa di un provvedimento disciplinare nei suoi confronti da parte della dirigente, la quale era venuta a sapere delle opinioni espresse dal docente. La preside quindi spara la sua prima cartuccia provando a censurare Mortara, forse con l’intenzione di spaventarlo. La seconda cartuccia viene sparata un mese dopo. Il professore è seduto, da solo, al bar della scuola per fare colazione; in quel mentre passa la preside che gli intima di mettersi la mascherina, anzi di utilizzarne una a norma. «A quale norma si riferisce?», chiede il professore. «Chiamo i Carabinieri», risponde lei dirigendosi in un’aula dove il Capitano dell’Arma, Gianfranco Galletta, sta tenendo una lezione sulla Legalità. Il militare è costretto a interrompere la lezione per seguire la Pavesi. Dopo aver accertato i fatti e ricevuto il certificato medico del professore, il comandante Galletta, non trovando alcuna irregolarità, decide ugualmente di sanzionarlo (procedeva per non fare un torto alla signora?), con la motivazione che l’atteggiamento assunto dal professore era inadeguato. Ma da quando un “atteggiamento” costituisce reato?
Passano altri giorni senza che la dirigente ottenga soddisfazione, il professore continua a svolgere il suo lavoro a volto scoperto. Una mattina la preside fa un’incursione nella classe e ancora trova il professore senza mascherina. A questo punto spara la terza cartuccia: «Professore lei non insegna Diritto Costituzionale, se non mette la mascherina chiamo (nuovamente) i carabinieri». Alla preside non interessa il certificato medico, che il professore si appelli alla libertà personale, all’autodeterminazione e agli articoli dello stesso Dpcm. «Mortara lei deve obbedire!». Il professore replica: «Non ho intenzione di obbedire». Dopo poco un collaboratore scolastico, accompagnato dalla preside e da due carabinieri bussano alla porta dell’aula e, davanti a tutta la classe, Mauro Mortara viene invitato ad uscire. A questo punto, per non rischiare di essere denunciato per resistenza a pubblico ufficiale, Mortara interrompe la lezione, mostra il certificato medico ai militari che procedono a denunciarlo e a sanzionarlo nuovamente.
Purché non sia una femminista.
Mentre la notizia dell’irruzione in aula dei carabinieri fa il giro d’Italia, un silenzio di tomba cala sull’Ufficio scolastico provinciale di Mantova dove il caso crea dell’imbarazzo. «Per quanto riguarda l’aspetto penale – afferma il Capitano dei Carabinieri della compagnia di Mantova, Gianfranco Galletta – al momento non vi è alcun elemento rilevante. Mortara non ha opposto alcuna resistenza e non si è rifiutato di firmare il verbale e, quindi, la violazione resta di tipo amministrativo». Allora perché la dirigente si è tignosamente accanita contro il professore? Non sarà perché inquantodonna, partendo dal principio che un uomo è sempre colpevole, abbia perso quella lucidità, quella freddezza che lascia lo spazio al discernimento? Sulla sua testa potrebbero ora pesare diverse responsabilità. Marianna Pavesi potrebbe essere accusata di aver operato un sopruso nei confronti del docente, allo scopo di emarginare la vittima, mettendo in atto un vero e proprio mobbing, il tipico caso in cui il datore di lavoro prende di mira la vittima e fa di tutto per umiliarla e sminuirla di fronte ai suoi alunni e ai colleghi. Infangare la reputazione altrui potrebbe essere un altro reato davanti al quale la dirigente, sempre presente quando si tratta di diritti negati verso le donne, pari opportunità, discriminazioni di genere, potrebbe essere chiamata a rispondere.
Marianna Pavesi ha avuto inoltre nei confronti del docente un comportamento autoritario che nulla ha a che fare con la legge, ma che anzi fa comprendere come l’arbitrio sia cosa ben diversa dal Diritto. Potrebbe profilarsi in questo senso anche un caso di stalking lavorativo: un reiterato attacco di violenza psicologica con utilizzo di lettere di ammonimento e disciplinari, inviate allo scopo di infastidire, creare timore, ansia, molestia alla tranquillità della vittima, per spingerla infine ad abbandonare il posto di lavoro. Il caso sarà valutato dall’Ufficio scolastico il 28 aprile. Per parte nostra non si può che prendere atto di quanto il genere nulla c’entri con la capacità di svolgere bene, in modo professionale ed equilibrato il proprio lavoro. Si dice tanto oggi che “donna è meglio”: considerando che Marianna Pavesi ha nel suo CV iniziative come l’abolizione della festa della santa patrona della zona, l’accesso dell’ArciGay nelle scuole a fare lezione di “educazione ai sentimenti”, prodezze cui ora aggiunge un inspiegabile accanimento contro il prof. Mortara, sarà davvero il caso di rivedere lo slogan perché, anche ammettendo che in certi casi “donna è meglio”, andrebbe specificato “purché non sia una femminista”.