di Antonio Bertinelli*. Da bambini andavamo spesso a giocare in un campo di periferia, in prossimità di un canneto. Disseminati qua e là nel prato c’erano dei massi sui quali si sedevano gli adulti a chiacchierare, mentre noi rincorrevamo il pallone o giocavamo a rubabandiera. Un giorno ci soffermammo ad osservare quello che faceva un nostro coetaneo: mentre sbocconcellava un panino imbottito, lasciava piccolissime briciole di pane in prossimità di un formicaio. Appena ne percepivano l’odore arrivavano file di formiche che le raccoglievano per portarsele nel nido. A un certo momento, sbucato dai margini del terreno, arrivò un bambino più grande di tre, quattro anni, armato di una lunga canna, con la quale cominciò a picchiare in testa il mio compagno di giochi. Ricordo ancora lo sguardo dei due, quello dell’aggredito era sorpreso dall’incomprensibile furia e dall’odio, quello del picchiatore, con i denti digrignati e con gli occhi fuori dalle orbite, esprimeva perfidia. Per fortuna arrivò di corsa il papà del più piccolo per mettere fine all’indecifrabile soperchieria.
Ancora oggi è vivido in noi lo sguardo pieno d’odio dell’assalitore, che probabilmente avrà avuto dieci o undici anni. Ogni volta che ci troviamo a riflettere sulla quotidiana contrapposizione tra il bene ed il male, anche dopo tanto tempo, la crudeltà gratuita di quel ragazzo torna a turbarci. Tante altre cose ci sembrano impenetrabili come quella. Ad esempio, ci appare difficile capire quello che accadde durante la cosiddetta “Tregua di Natale del 1914“, quando sul fronte occidentale i soldati francesi e tedeschi si scambiarono gli auguri e dei piccoli doni, sospendendo i combattimenti per una settimana. Analoghi episodi si verificarono anche sul fronte italiano, specialmente in quelle zone dove la distanza tra le trincee italiane e austriache era minima (come sulla cima del Pal Piccolo, in Carnia). Questi contatti spesso servivano per scambiare vitto o generi di conforto che il proprio esercito non distribuiva. I baratti dovevano essere realizzati con la massima riservatezza perché il soldato che veniva scoperto poteva essere denunciato per collusione con il nemico e punito con dieci anni di prigione. Queste storie di guerra sembrerebbero smentire, almeno in parte, le convinzioni di Erich Fromm che, nel suo libro “Die Antwort der Liebe”, distingue due tipi di odio: l’odio reattivo e l’odio determinato dal carattere. Il celebre psicologo ritiene infatti che l’umanità sia più propensa all’odio che all’amore.
La sofferenza dell’essere umano porta alla paranoia collettiva.
Secondo la psicologia l’odio, un sentimento nascosto in ognuno, è “naturale” come l’amore. È un impulso frutto di disturbi dell’affettività, che denota un profondo e durevole desiderio di fare del male a qualcuno traendone piacere. È un’emozione di tipo ostile, focalizzata sul detestare, sul contrariare e sul rivendicare. L’esplosione di umanità tra i fanti in trincea, nel corso delle festività natalizie del 1914, mandò su tutte le furie i relativi governi e gli alti comandi dell’una e dell’altra parte. Non potendo punire migliaia di soldati, i generali decisero di porre rimedio alla pericolosa fraternizzazione tra nemici, proprio al fine di «evitare rigorosamente siffatte deplorevoli manifestazioni». A partire dalle festività successive vennero disposti tassativi divieti, rigidi controlli e avvicendamento dei combattenti nei fossati alla vigilia dei giorni di festa. Chi ha bisogno dell’avversione tra gruppi di uomini, chi genera consapevolmente il terrorismo, chi trae vantaggi dalla contrapposizione tra un “noi” ed un “loro”, chi prepara carneficine umane, chi pratica forme di spoliazione e rapina, chi moltiplica i suoi profitti destabilizzando nazioni e territori, chi non vuole costruire ponti tra popoli, religioni e culture, chi guadagna dalla cancellazione dei diritti dei più deboli, chi fa macelleria sociale, chi irriga l’orto del “divide et impera”, si avvale dell’odio in tutte le sue estensioni, ed evita che le masse possano avere dubbi o porsi delle domande.
L’odio dispiega le sue più grandi potenzialità distruttive a livello culturale, quando viene metodicamente coltivato, instillato, fino a rimanere inciso nell’immaginario collettivo. In tale ambito, l’annientamento viene presentato come un valore da guadagnare, attraverso uno scontro, difficile ma necessario, per poi giungere a un consorzio perfetto. Nel corso della storia l’odio è assurto più volte a ideale e a programma di governi producendo stermini in ogni continente. In tal senso fa fede il “Terrore” instaurato durante la Rivoluzione Francese da Maximilien de Robespierre. Andiamo con il pensiero allo sterminio dei nativi americani. Non bisogna aggiungere molto sulla devastazione prodotta dal Nazismo. Nel 1971 l’associazione Vietnam Veterans Against the War (VVAW) iniziò la “Winter Soldier Investigation”. In tre giorni più di cento veterani testimoniarono sulle atrocità commesse contro i civili vietnamiti dalle “truppe di liberazione” e di cui erano stati testimoni. In Cambogia i Khmer rossi utilizzarono migliaia di giovani incattiviti e costretti ad arruolarsi nel pieno della loro adolescenza per commettere omicidi di massa ed altre atrocità. Le forze di guerra afghane e la loro agenzia d’intelligence hanno commesso sequestri di persona ed esecuzioni extragiudiziali, hanno praticato la tortura, hanno bombardato la popolazione civile. Nel 2004 la pubblicazione delle fotografie di Abu Grahib ha rotto l’omertà dei media mainstream sulle atrocità commesse dai “soccorritori” in Iraq. Come in determinate circostanze l’odio porta all’omicidio quale riflesso condizionato, la sofferenza dell’essere umano porta alla paranoia collettiva, che origina comportamenti distorti anche nelle persone più equilibrate. In tempo di pandemia fa da campione la ricerca dell’untore nell’assurda correlazione tra decessi ed uscite all’aperto.
L’Italia è un paese molto sicuro.
È questa la riproposizione su grande scala della “caccia alle streghe” di Salem per distogliere l’attenzione da altri problemi. Siamo certi che anche l’ideologia femminista, con tutti i condizionamenti che ne derivano, non è frutto d’amore, né testimonianza d’amore per l’Altra Metà del Cielo, ma è sbocciata per perseguire altri fini. Il movimento femminista si è avvalso della buona fede di tutti coloro che si sono spesi per ottenere la parificazione giuridica tra donne e uomini. Le rivendicazioni del pensiero femminile sono partite da obiettive disparità legislative che andavano eliminate. Queste richieste hanno attraversato il periodo del vittimismo, i cui lamenti hanno oltrepassato ogni ragionevole limite, per raggiungere in breve la terra del “vogliamo più di tutto e subito”. Nel 2003 la filosofa femminista Élisabeth Badinter, riferendosi al grande numero di norme ispirate dal femminismo, cosi si esprimeva: «Considerato inoltre che tutte queste leggi hanno beneficiato di un forte sostegno mediatico, spesso accompagnato da un processo in piena regola al genere maschile, e questo senza la minima protesta da parte degli uomini, esiste nell’altro campo la sensazione che le donne non siano quelle vittime impotenti che si vuole far credere». Nel suo libro “Fausse Route”, la scrittrice attacca le pratiche e le ideologie del pensiero femminista. La filosofa francese contesta al femminismo di essersi arroccato nel secessionismo e nella lotta contro i maschi, abbandonando l’universalismo e la rivendicazione dei pari diritti. Con la “maturità” il movimento femminista ha cominciato a esprimere odio e voglia di supremazia.
Come nel caso del ragazzo che, nei nostri ricordi, abbiamo incontrato sul prato, l’odio ha una sua spontaneità naturale che può essere utile a chi se ne vuole servire. Contrariamente all’amore, gratuito, rispettoso dell’altro e non prevedibile, l’odio può essere deliberatamente fomentato e pianificato mediante regole meticolose e cicliche. Se le seguaci femministe hanno bisogno di un nemico a cui addebitare le cattiverie e le prepotenze in cui si imbattono nella quotidianità, la finzione scenica ideata dalla loro psiche è facile combustibile per coloro che scientemente accendono fuochi ed alzano palizzate contro il sesso maschile. Ormai non c’è più freno per la dimensione distruttiva di certi pensieri, sembra il trionfo del caos che, con il suo procedere, logora e spezza i fili fragili della convivenza. Il potere autoreferenziale, politico e/o finanziario, l’inganno e la disinformazione che manipolano le coscienze sono dimensioni dell’attuale realtà. La mistificazione pervade ogni comunicazione ideologicamente orientata, come il tema della violenza e delle molestie. Secondo l’ultima e rigorosa ricerca dell’U.E. l’Italia è un paese molto sicuro. Le risposte del campione interpellato con riferimento ai 5 anni ed ai 12 mesi precedenti al sondaggio collocano l’Italia all’ultimo posto in Europa. Dall’indagine emerge che la maggior parte delle vittime di violenza fisica sono persone di sesso maschile.
Si rafforzano nuovi tipi di tirannide.
L’Istat asserisce ben altre cose, evidentemente perché intorno alla spaventosa leggenda dei maschi persecutori di femmine orbita denaro e potere. Non è sufficiente che ogni iniziativa istituzionale parli al femminile, contro il maschile. È notizia di qualche giorno fa che presto sarà costituita una task force ministeriale solo per l’occupazione femminile. «Senza donne non c’è ripresa». Altre chicche dell’armamentario concettuale femminista sono le provocazioni e gli insulti. Ci riferiamo alla messa in scena, durante una commemorazione della Natività, della Vergine Maria con le cosce divaricate sporche di sangue e a una grande vagina (di cartapesta?) portata in processione come se fosse una statua della Madonna. Non meno sgradevole è il modo con il quale le propagandiste guardano al triste fenomeno (una piaga sociale in espansione) degli uomini involontariamente celibi. Il femminismo, quale costola delle classi egemoni, svolge i compiti per i quali è demandato: il dissolvimento della famiglia quale primo gruppo naturale, sociale e solidale; la creazione di una sommatoria di monadi.
Riportiamo di seguito alcune nostre righe scritte qualche anno fa: «Su questo neo suddito, affrancato da solidi legami familiari, immerso in ritmi di vita frenetici, avvelenato dagli scarichi inquinanti, plurischedato nelle reti informatiche, strozzato dai prestiti al consumo, omologato nella ricerca dei beni proposti dalla pubblicità, schiacciato sul presente, con scarsa propensione al matrimonio e alla natalità, convergono gli attacchi dell’affarismo senza scrupoli e del parassitismo diffuso. […] Ci sembra dunque lecito affermare che l’odierna rivendicazione per le pari opportunità sia in effetti una latente richiesta di apartheid, non disgiunta dal desiderio di ottenere svariati privilegi di genere. Attraverso un assiduo martellamento, si mira a sfiancare chi per secoli ha rappresentato il nocciolo duro di ogni civiltà, la “forza” che ha in ogni tempo assicurato la sopravvivenza e la coesione sociale, l’immagine dell’autorevolezza, il soggetto capace di saper conservare l’identità ed il patrimonio familiare per la prole, colui che per natura è meno affascinato dal brillio apparente e guarda di più alla necessarietà delle cose. Anche nel sostenere pretestuosamente la contrapposizione di genere, e nell’indebolire dunque la più antica forma di solidarietà, si rafforzano nuovi tipi di tirannide».
* Già professore di diritto; impegnato per anni nella difesa della figura paterna e del principio della bigenitorialità; già attivista nel sostenere ed ottenere, con le associazioni dei padri, l’approvazione della legge 54/2006; autore del saggio “Sulle orme del padre – attraversando il 68 e gli anni del pensiero egemonico -“; intollerante nei confronti dei soprusi, specialmente, quando istituzionalizzati.