Linkedin è il social network delle professioni e dei mestieri. Non ci si iscrive lì per condividere gattini, foto di cibarie o massime di Alda Merini e Charles Bukowski, bensì per mostrare le proprie skills e stabilire contatti che possono evolvere in attività lavorative. Dunque i suoi gestori hanno sotto mano uno strumento prezioso per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Allo scopo di migliorare la qualità dei servizi prestati ai suoi utenti, oltre che ovviamente per affinare il loro vorace data mining, hanno ritenuto di commissionare una ricerca sull’impatto “del condizionamento sociale sulla retribuzione e la progressione di carriera delle donne in tempi di pandemia”. Originale, vero? Un tema di cui non si occupa mai nessuno… Si tratta in ogni caso di una ricerca che è importante analizzare, nei metodi utilizzati così come nei risultati, proprio per la diffusione che ha avuto sui media mainstream e sui social.
Sul primo versante si parte già male: obiettivo dichiarato non è scoprire se c’è una disparità di trattamento, ma misurarne la portata. Ovvero la ricerca parte dando già per assodato, come un assioma ovvio e scontato, che sussista una disuguaglianza nei riconoscimenti sul lavoro tale da portare le donne «a sentirsi meno meritevoli degli uomini». Attenzione bene: sentirsi, non essere a tutti gli effetti. Ed è esattamente su questo che s’impernia tutta la ricerca, ovvero sull’autopercezione che le donne hanno di sé in contesti lavorativi. Di più: le intervistate hanno parlato alla luce di esperienze personali ma anche di “storie” sentite da altre. Insomma, questa ricerca commissionata da Linkedin parte con criteri di scientificità e obiettività da far impallidire un imbonitore da fiera.
A 36 anni, fine carriera.
I risultati sono coerenti con l’impostazione iniziale. Il 44% sostiene che in Italia le donne si sentano meno legittimate rispetto agli uomini a ottenere promozioni o aumenti di stipendio. Entrando nel dettaglio, la rilevazione piega più volte verso il comico, laddove si registra che gli uomini sono più portati a rinegoziare la propria posizione lavorativa e a chiedere aumenti di stipendio o scatti di livello, mentre un gran numero di donne (il 37% delle intervistate) dice di non averlo mai fatto «perché non si sentiva a proprio agio a chiederlo». Dice: stavano scomode sulla sedia, avrebbero fatto meglio le loro richieste su una poltrona o stando in piedi? No, certo, il messaggio sotteso è che le donne sono più oneste e oggettive e tendono a fare le loro rivendicazioni con il datore di lavoro solo quando «sentono di meritarlo».
Veritiera e indubitabile la testimonianza di chi dice che la maternità ha rallentato e talvolta impedito lo sviluppo della carriera, ma la ricerca ha omesso di approfondire questo aspetto, ad esempio chiedendo se si è trattato di una maternità imposta o caduta dal cielo per colpa di una cicogna distratta. Posto ad ogni buon conto che la vergognosa mancanza di parità di trattamento tra padri e madri nelle sospensioni lavorative per il periodo post natale rimane a tutti gli effetti un’iniquità vergognosa, che danneggia tanto il desiderio di cura paterna che le ambizioni professionali femminili. In ogni caso l’arrendevolezza femminile sul lavoro sembra avere un’età: la maggioranza delle intervistate ritiene di sapere che, arrivate ai 36 anni circa, non avranno più spazi di crescita di carriera, in quanto certe che da quel momento il datore di lavoro non le vedrà come candidate adatte a una promozione o a un aumento.
Magari espellendo gli uomini oppressori.
C’è poi l’immancabile e imbarazzante piagnisteo del periodo pandemia che, stando alla ricerca, ha pesato praticamente solo sulle spalle delle donne. Perché, è noto, durante il lockdown era proibito a costoro uscire, mentre gli uomini gironzolavano bellamente andando nei loro uffici e cantieri, e non si è trattato di una reclusione generale che ha colpito tutti trasversalmente. La mistificazione ha un messaggio sotteso nemmeno troppo nascosto: anche quando a casa, gli uomini non aiutavano nelle faccende, obbligando le donne a fare smart-working occupandosi anche dei pupi e della casa. Scenario possibile, per carità, ma di certo non nelle proporzioni dilaganti suggerite. Sempre a causa della pandemia molti settori sono andati a gambe all’aria, dice la ricerca, stroncando molti posti di lavoro femminili non realizzabili in smart-working. Non è chiaro se è colpa dell’organizzazione lavorativa complessiva, improntata a un vergognoso patriarcato, o se in qualche misura è conseguenza delle scelte di studio e poi di carriera di quelle fanciulle che, invece di studiare ingegneria e impiegarsi in una piattaforma petrolifera, hanno preferito fare le commesse in agenzie di viaggi, le istruttrici di pilates o le insegnanti.
Il tema è complesso e ha tante sfaccettature, ma la ricerca ha un obiettivo solo e dichiarato fin dall’inizio: dimostrare che le donne sono vittime di qualcosa, stavolta però non più solo tra le mura domestiche ma anche sul posto di lavoro. Il tutto, naturalmente, a vantaggio dell’odiato maschio. Come fare per ottenere il risultato? Semplice, appellarsi al sentore, al sentimento, alla percezione, come già si fa per lo stalking o le molestie. Il verbo “sentire” è il più frequente nelle risposte: in sostanza la ricerca si basa interamente sull’immagine individuale che le donne si sono fatte della situazione. Loro sentono che il capo non le valorizzerà, quindi non chiedono aumenti. Loro sentono di non meritarla, quindi non chiedono la promozione. Loro vorrebbero una nuova e migliore mansione ma non si sentono a proprio agio a chiederlo. Insomma, hanno un sacco di problemi, insicurezze e fisime loro, magari del tutto ingiustificate (se un lavoratore è bravo ed efficiente, è profittevole per il datore di lavoro promuoverlo, a prescindere dal genere), di cui però si deve far carico l’intero sistema. Magari espellendo un po’ di quegli uomini che creano quel fastidioso clima di oppressione e insicurezza. E in questo senso, come si è visto ieri, la politica si sta già muovendo attivamente.