«Una notizia devastante», commenta Marija Pejcinovic Buric, Segretario Generale del Consiglio d’Europa, alla notizia che la Turchia recede definitivamente dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica. La decisione turca è devastante a tutti gli effetti: proprio la Turchia dieci anni fa, all’epoca in cui ancora mirava a integrarsi nell’Unione Europea, fu tra le promotrici della Convenzione, dunque il suo ritiro è una vera cannonata sul fortino eretto a protezione di interessi lobbistici ben identificati e di portata globale. La Convenzione di Istanbul è la figlia europea di due conferenze ONU, quella del Cairo (1994) e quella di Pechino (1995), entrambe imperniate sul tema della violenza contro le donne, dell’emancipazione femminile e dei diritti LGBT, entrambe monopolizzate da gruppi di potere organizzati che ne diressero i lavori in modo truffaldino. Lo testimoniò Dale O’Leary, che partecipò alle conferenze per poi riversare prove e osservazioni nel suo libro “La guerra del gender“. Oltre a sancire l’alleanza tra istanze ideologiche femministe e “queer”, le due conferenze dettarono al mondo i lineamenti di una nuova chiave di lettura della realtà: decaduto il paradigma marxista “lavoratori-contro-padroni”, si affermava una nuova dicotomia, stavolta derivata da Engels, tra una nuova categoria di oppressi, le donne, e una nuova categoria di oppressori, gli uomini. Questa nuova impostazione, destinata a diventare uno dei principali vessilli del nuovo progressismo, si infiltrò gradualmente in ogni ganglio e in ogni falda della cultura, della società e della politica, attraverso una crescente opera di pressione facilitata del clima securitario ingenerato dai fatti dell’11 settembre 2001 e dalla diffusione delle problematiche di riservatezza collegate all’uso dei sistemi informatici e delle reti. Dopo aver impregnato in modo carsico le radici della società occidentale, quella chiave di lettura è salita in superficie ed è esplosa come un geyser a partire all’incirca dal 2009.
Quella è più o meno la data a partire dalla quale esce allo scoperto e dilaga quell’impostazione ideologica che oggi, dopo dieci anni di avvelenamento generale, viene data per assodata. Un’impostazione basata su un teorema ben preciso, derivato un principio che è comune denominatore di tutti i femminismi, da quello della prima ondata in poi: gli uomini da sempre opprimono le donne sotto ogni aspetto, sfruttandole e asservendole sistematicamente con l’uso della forza o con la violenza fisica, psicologica ed economica. Dall’origine dei tempi ad oggi, dunque, le donne sono vittime di una supremazia maschile coordinata per soffocare la superiorità morale e biologica femminile. Oggi, così deduce il teorema, è tempo di ribaltare i ruoli, di esigere e ottenere un risarcimento per questa oppressione storica e attuale. Non più la rivoluzione dei lavoratori contro l’oppressione borghese, da rovesciare per istituire una nuova e illuminata dittatura del proletariato, ma una rivoluzione delle donne contro l’oppressione maschile, con lo scopo corrispondente di istituire una nuova e illuminata dittatura femminile. È la follia della “teoria del patriarcato” che, sebbene non abbia alcun riscontro reale nella storia (diversamente dalla lettura marxista impostata sulle classi sociali), si afferma nel vuoto culturale e nel disorientamento del primo decennio del nuovo secolo e ancor più nel decennio successivo. La Convenzione di Istanbul è uno dei prodotti di questa nuova visione del mondo, che innesca una “guerra dei sessi” contrapponendo due generi istituiti e impostati per contemperarsi e collaborare anche, sebbene non obbligatoriamente, all’interno di un’istituzione la cui sussistenza ha caratterizzato i secoli precedenti e ha garantito l’evoluzione umana così come la conosciamo oggi, ovvero la famiglia. Secondo molti, cui è difficile dar torto, la nuova ideologia è uno strumento del sistema economico globalizzato, che necessita di smantellare ogni presidio sociale, di polverizzare le comunità in individui isolati, in un pulviscolo di frustoli privi di ogni radicamento e protezione, dunque facili da governare in generale e in particolare nelle loro scelte di consumo, su cui per altro il mondo femminile la fa da padrone (l’85% dei consumi mondiali deriva da decisioni femminili).
La verità sta dove non c’è conflitto d’interesse.
Nel 2011 questa nuova visione è appena uscita allo scoperto e sul piano europeo produce un documento, appunto la Convenzione di Istanbul, che soltanto vent’anni prima sarebbe stato considerato irricevibile sotto diversi aspetti. Nei suoi contenuti, anzitutto, laddove si incentra su un solo tipo di violenza, quella degli uomini contro le donne, derubricando implicitamente come meno importanti gli altri tipi di violenza e di fatto cancellando la natura umana e trasversale della violenza stessa. Inserisce nel testo una forma di “contentino”, più per evitare critiche di sessismo che altro, includendo anche la dicitura di “violenza domestica”, che come tale potrebbe includere anche gli uomini come vittime. Tuttavia la sua interpretazione pubblica e la sua applicazione pratica nei diversi paesi sarà unilaterale ed escluderà di netto ogni iniziativa di tutela verso la sfera maschile. Ma non è l’unica anomalia: a dare un inquadramento internazionale è il “Consiglio d’Europa”, un carrozzone postbellico che nulla ha a che fare con l’Unione Europea, più volte in predicato di venire smantellato e poi recuperato dall’ONU, che lo utilizza da anni come proprio hub continentale per la diffusione e l’imposizione delle sue direttive. La debole legittimità internazionale è confermata da altri aspetti: una volta proposta alla ratifica su scala globale, la Convenzione di Istanbul fatica diversi anni per entrare in vigore, segno di una diffusa resistenza ai suoi dettami. Alla fine ci riesce grazie al raggiungimento del numero minimo richiesto di ratifiche da parte degli stati, tra i quali si contano paesi sostanzialmente irrilevanti sullo scacchiere internazionale. È anche all’adesione di realtà come Lussemburgo, Montenegro, Andorra, Principato di Monaco, Malta, Bosnia ed Erzegovina che la Convenzione deve la sua entrata in vigore, mentre da essa si tengono ampiamente alla larga, pur potendola ratificare in principio, paesi come Russia, Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Cina. Sul piano del diritto internazionale si tratta insomma di un flop colossale, un mostriciattolo che negli anni ’80 sarebbe automaticamente decaduto, mentre all’inizio del nuovo millennio permette a una narrazione potentemente tossica di espandersi e a mettere radici presso i paesi che l’hanno ratificato, imponendosi come pretesto per la realizzazione di politiche coerenti con il falso “teorema del patriarcato”.
Dieci anni dopo la sua approvazione, gli esiti della sua applicazione sono variegati. In quasi tutti i paesi ratificatori (Italia inclusa) si sono concretizzati in politiche che criminalizzano o sfavoriscono sistematicamente la sfera maschile della società. Simbolo principale di queste policy è la diffusione in proporzione geometrica di centri asseritamente dedicati ad accogliere e assistere le donne vittime di violenza. Costituiti come associazioni e ampiamente finanziati da denaro pubblico, acquisiscono implicitamente dallo Stato il compito di front-office rispetto a quel tipo di problematica, senza però essere soggetti ad alcun tipo di vincolo di trasparenza né sugli accessi reali né tanto meno sull’utilizzo delle risorse. In questa posizione cominciano a drenare milioni di euro e ad acquisire un potere dalle molte sfaccettature: diventano trampolino di lancio per diverse carriere politiche; si costituiscono come centri clientelari per la politica stessa; si comportano come centrali propagandistiche e di indottrinamento attraverso corsi di formazione somministrati ad ogni livello, dalle forze dell’ordine fino alla magistratura, passando per le scuole; entrano nei procedimenti come parte civile (così arraffando ulteriori risorse); assumono un ruolo di seminatori di zizzania piuttosto che strumenti di assistenza. Ovunque, Italia compresa, si registra come all’intervento di un centro antiviolenza molto spesso corrisponda una degenerazione dei conflitti e una moltiplicazione illimitata del fenomeno delle false accuse di donne a carico di uomini. Nei centri antiviolenza e case rifugio possono lavorare soltanto donne, e soltanto donne possono essere da essi accolte. Ciliegina sulla torta sono le statistiche che essi, da soli o tramite i loro coordinamenti nazionali, producono: grazie al pretesto della “privacy” per le loro assistite, non è mai possibile verificare i numeri che dichiarano e autocertificano. Tutti sempre di proporzione emergenziale, passivamente acquisiti anche da enti statistici ufficiali (ISTAT ad esempio), in spregio al confronto con dati reali acquisiti da altri soggetti (magistratura e forze dell’ordine), che ne smentiscono regolarmente la fondatezza. Così si ha la rete dei centri antiviolenza che da un lato afferma l’esistenza di una “emergenza violenza contro le donne e femminicidi” basandosi su dati autoprodotti e non verificabili, e dall’altro numeri reali che parlano dell’Italia come di un Paese tra i più sicuri al mondo in generale e in particolare per le donne. La verità dove sta? Evidentemente laddove non c’è un conflitto d’interesse, dunque dall’altra parte rispetto alla corporate dell’antiviolenza fondata in molte parti d’Europa a partire dalla Convenzione di Istanbul.
Il Paese più sicuro d’Europa per le donne non può restare nella Convenzione di Istanbul.
Nonostante questo, grazie alla rete d’appoggio internazionale e al grande afflusso di risorse pubbliche, è proprio la narrazione di quella corporate a imporsi sul piano della comunicazione pubblica e dell’opinione diffusa. In Italia (ma è uguale in altri paesi firmatari della Convenzione) si finge di non vedere a quali anomalie mostruose conduca l’azione e la visione del mondo veicolata dalla Convenzione di Istanbul. Uomini e padri criminalizzati senza prove e alienati dai figli (il caso di Giuseppe Apadula è uno dei più noti in Italia, fra le migliaia), altri spinti in un calvario giudiziario interminabile grazie a false accuse di abuso su minori o di altri reati (noti sono i casi di Matteo Sereni, Marco Quaglia, Tiberio Timperi e tanti altri), non pochi dei quali non reggono la pressione e si tolgono la vita (Luigi Tarascio, Roberto Pauluzzi e tanti altri), il tutto sempre con la compartecipazione in qualche forma degli interessi connessi ai centri antiviolenza o case rifugio nati su sollecitazione e sotto la protezione della Convenzione di Istanbul. Ciò di cui stiamo parlando, a titolo d’esempio, è quel potere, un vero Stato nello Stato, che in piena emergenza pandemica ha ricevuto dal Ministero delle Pari Opportunità 30 milioni di euro, così sottratti ad altre situazioni in quel momento realmente critiche nel Paese. È un centro antiviolenza, la “Casa Internazionale della Donna”, che ottiene la copertura di una morosità decennale di quasi un milione di euro attraverso una legge nazionale, un vantaggio mai riservato a nessun’altra associazione con ruoli e funzioni ben più cruciali. La Convenzione di Istanbul, insomma, nel tempo ha creato una gigantesca sacca di privilegio, da un lato, e dall’altro un’arma devastante di oppressione verso il genere maschile-paterno e verso la realtà familiare. Un effetto a cui taluni paesi, non più disponibili a sottostare a diktat sovranazionali, incominciano a volersi sottrarre. L’Ungheria di Orbán rifiuta la ratifica giudicando la Convenzione in contrasto con la propria Costituzione. La Polonia segue a ruota annunciando il ritiro dalla Convenzione e infine la Turchia. Paesi che ora il fronte globalista, con la sua ala femminista, taccia di antidemocraticità, sebbene governati da esecutivi democraticamente eletti (al contrario del Governo italiano) e guidati da personalità forti, consapevoli della profonda anomalia rappresentata da questo trattato insignificante sotto il profilo del diritto internazionale, eppure così dannoso per gli equilibri sociali e politici nella sua applicazione pratica.
Ben intesi: la Turchia, è vero, non è certo il modello di paese in cui il rispetto delle libertà venga considerato prioritario, e nemmeno quello dove la cultura della parità tra uomo e donna abbia attecchito profondamente come in occidente. Resta indubbiamente indiscutibile, al di là di ciò, la giustificazione che il governo Erdogan ha addotto per l’uscita dalla Convenzione: essa devasta la realtà familiare, facilita il dilagare di ideologie distruttive e soprattutto la tutela contro violenze e omicidi è garantita da leggi dello Stato, non da associazioni, conventicole, lobby e gruppi di pressione che fanno della mistificazione la cifra della loro azione. Prova ne sia che lo stesso Consiglio d’Europa si dice “sorpreso” per la decisione di Ankara, quando in realtà era cosa annunciata già dall’agosto scorso (ne scrivemmo qui). Una malafede confermata anche dai molti contatti di alto livello che abbiamo da quelle parti, a cui abbiamo chiesto quanto c’è di vero in quanto asserito da soggetti come “We Will Stop Feminicide Platform”, che parlano di tre “femminicidi” al giorno in Turchia e ora protestano nelle piazze di Ankara e Istanbul. Ci è stato risposto che tutto il mondo è paese: in quei dati vengono infilate uccisioni di ogni tipo, per mano di chiunque, giusto per fare mucchio, come accade qui da noi. E, come qui da noi, in realtà la maggior parte dei morti ammazzati è uomo così come la maggior parte dei carcerati, compresi quelli condannati per omicidi e violenze (anche contro le donne). Insomma la penisola anatolica non è immune all’affarismo e alle falsificazioni innescate dalla Convenzione di Istanbul, anche là le leggi intervengono come devono a tutela di tutti, donne comprese. Unica differenza: gli omicidi sono molti di più in Turchia che in Italia. Oggi chi protesta, ad Ankara come altrove, sostiene strumentalmente che il ritiro dalla Convenzione di Istanbul sia una mossa di Erdogan per ottenere il consenso conservatore nel paese. Può essere, ma è più probabile che il Primo Ministro, così come già il governo polacco e quello ungherese, abbia compreso quale sia il potenziale distruttivo del tessuto identitario e sociale che i prodotti della Convenzione di Istanbul possono veicolare e abbia quindi deciso di dare un taglio alla pantomima tossica, da leader nazionale legittimato, forte e consapevole quale è. Quel tipo di leader che all’Italia manca drammaticamente e che, se ci fosse, comprenderebbe al volo quanto la Convenzione di Istanbul confligga con l’Art.3 della nostra Costituzione, quanti danni ha fatto e fa, quale gigantesco sperpero di denaro pubblico implichi, e quanto legittimo sarebbe un ritiro italiano nel momento in cui, a norma di diritto internazionale, si riscontrassero come decadute o non più esistenti le condizioni che ne avevano precedentemente giustificato la ratifica. Alla luce del fatto che da dieci anni sono meno di 5.000 all’anno (0,01% della popolazione maschile adulta) gli uomini condannati per violenze contro le donne (dati del Ministero della Giustizia, via ISTAT) e che solo a metà febbraio siamo stati incoronati dall’Unione Europea come paese più sicuro del continente per le donne, e forse del mondo, il ritiro dell’Italia dalla Convenzione di Istanbul e lo stop netto a tutto ciò che ne consegue dovrebbero essere priorità assolute di ogni governo degno del proprio ruolo. Dunque ne avremo ancora parecchio da attendere.