In tutto questo, il bambino dov’è? C’è il diritto di una donna che fagocita libertà e capacità di autodeterminazione altrui; c’è il dovere imposto a un uomo per prevaricare ogni sua volontà; c’è la decisione di un Tribunale che ha preso strade divergenti rispetto alla razionalità e al buonsenso; c’è la storpiatura dei tempi, c’è la creazione cosciente di un conflitto programmato ed insanabile. Sì, ma il bambino dov’è? Il Diritto è elastico, deve lasciare ampia discrezionalità alla magistratura che può prendere, come in effetti prende, decisioni diametralmente opposte in merito a situazioni sostanzialmente analoghe. Per una pacca sul sedere può arrivare una condanna per violenza sessuale, ma può anche arrivare l’assoluzione dall’accusa di stupro perché i jeans sono difficili da sfilare senza consenso; un elevato tasso alcolico può essere un’attenuante in alcuni casi e un’aggravante in altri; l’interesse del minore è restare nel contesto abituale se la madre vuole la casa in assegnazione, non ha più interesse alla stabilità se la madre vuole trasferirsi in altra città, in altra regione o anche all’estero.
Gli esempi sono tanti – soprattutto nel diritto di famiglia – per dimostrare, sentenze alla mano, che il nostro impianto normativo consente tutto ed il contrario di tutto; per ogni comma che sanziona un comportamento ce n’è un altro che lo legittima, per ogni “interpretazione” della norma esiste una chiave interpretativa opposta. In sostanza l’importante per un magistrato è prendere una decisione, poi il supporto giuridico per giustificarla si trova. Anche arrampicandosi sugli specchi, ma si trova. Prova ne sia che, nonostante sia entrata in vigore nel 2004 dopo un dibattito ultradecennale, la Legge 40 sulla Procreazione Medicalmente Assistita ha subito capriole interpretative che ne hanno stravolto l’impianto originario. In questo caso il provvedimento stabilisce, in estrema sintesi, che la donna è sempre libera di avere un figlio o ripensarci e interrompere la gravidanza, perché del suo corpo decide lei. Però il concetto viene esteso anche ad altro: la donna ha potere decisionale anche su elementi esterni al proprio corpo, può infatti decidere in merito all’embrione anche quando l’embrione ancora non è dentro di sé, non è stato impiantato e giace ancora in coltura crioconservata. L’uomo non ha la stessa libertà di scelta, deve rassegnarsi a subire le imposizioni altrui.
Sono le relazioni della triade madre-padre-figlio che nascono già mozze.
Giuridicamente mi sembra un assurdo, o quantomeno una forzatura; ma per fortuna non faccio il giudice. Una decisione tanto fondamentale nella vita delle persone – come la procreazione in generale e la PMA in particolare – trae origine da alcuni presupposti, quando vengono meno tali presupposti può cambiare anche la decisione che da detti presupposti nasceva. In tale situazione i presupposti per la PMA erano: l’unione della coppia, la volontà condivisa di procreare, i non meglio identificati “problemi di salute” dell’uomo che rendevano sconsigliabile la fecondazione naturale. Due presupposti su tre sono cambiati: la coppia non è più unita e, come diretta conseguenza, la volontà di procreare non è più condivisa. Non è dato di sapere se il desiderio di generare resista ancora nelle intenzioni dell’uomo, in teoria potrebbe anche desiderare figli tra sei mesi o tra un anno da un’ipotetica altra madre; di certo non c’è più la volontà di avere figli da “quella” madre, persona con la quale i progetti di vita non prevedono più un percorso comune. Tuttavia un tribunale gli impone sia un progetto di vita non voluto, che l’impossibilità di avviarne un altro in autonomia. Il progetto non voluto è quello di padre separato in nuce, prospettiva deprimente per alcuni, agghiacciante per altri. Molte coppie separate hanno problemi nella gestione dei figli, può anche capitare con bambini piccoli o piccolissimi, ma è quantomeno anomalo che i problemi vengano imposti per sentenza addirittura prima che la gravidanza abbia avuto inizio.
La donna ancora non ha nemmeno l’esigenza di fare un test di gravidanza, eppure al padre viene già imposto di “prendersi le sue responsabilità”, come un adolescente che non prende precauzioni e mette incinta la fidanzatina. Si può infatti parlare di gravidanza dal momento in cui l’embrione viene impiantato, non prima; il concetto stesso di gravidanza nasce etimologicamente da una femmina di mammifero gravida, quindi fecondata, che porti in sé il prodotto del concepimento: incinta per la donna, pregna per la femmina di ogni altra specie animale. Quindi biologicamente, prima della copula nella fecondazione naturale o dell’impianto nella PMA, la gravidanza non esiste. Esiste solo nella volontà della signora di dare inizio ad una gravidanza, anche molto tempo dopo che il rapporto con l’altra metà del progetto genitoriale si è interrotto. È la condanna per l’uomo a un’intera esistenza di precarietà affettiva e relazionale, con ripercussioni per tutti i soggetti coinvolti che né la donna né il tribunale sembrano considerare. Non è solo una questione di obbligo al mantenimento, quella che l’avvocato della signora sembra considerare una vittoria. Sono le relazioni della triade madre-padre-figlio che nascono già mozze, irrimediabilmente inquinate da una frattura tanto macroscopica quanto insanabile sul modo stesso di concepire la genitorialità: un progetto comune secondo lui, una decisione unilaterale secondo lei: «ho deciso di provare a metterlo al mondo lo stesso, anche come donna single».
Lo status di donna single non avrebbe consentito la PMA.
Un elemento apparentemente incontestabile è che la decisione dovesse essere condivisa come prerequisito indispensabile per accedere alla PMA; poi però diviene ininfluente se viene meno l’altro prerequisito, cioè l’esistenza di una coppia genitoriale. Contestualmente all’imposizione di un percorso di vita pesantemente condizionato dalla separazione dal figlio, il tribunale impone all’uomo anche l’inibizione di un progetto di vita autonomo. Non potrà avviare una nuova convivenza con una donna diversa e in un luogo diverso, pena l’allontanamento da quel figlio che gli è stato imposto per sentenza. Non potrà scegliere liberamente dove vivere, lavorare e costituire una famiglia, ogni sua decisione logistica verrà condizionata. Fin qui siamo nella constatazione di fatti oggettivi, se poi ci avventuriamo nel terreno delle opinioni le cose si complicano ulteriormente. Non è difficile prevedere anche per questa coppia le conflittualità che complicano la vita di molte altre coppie separate; elemento comune a tutte le dispute è la percezione da parte di un genitore – più o meno latente – di una sorta di proprietà esclusiva sulla prole, da gestire senza le fastidiose ingerenze dell’altro: un genitore lotta per esserci anche lui, l’altro lotta per esserci solo lui. Nonostante la riforma dell’affidamento condiviso (legge 54/06) continua a venire assegnato, tranne rare eccezioni, un ruolo centrale a un solo genitore nel percorso di crescita della prole e l’altro viene relegato in una posizione periferica; viene insomma restaurato un genitore prevalente ed un genitore marginale, esattamente ciò che il Legislatore del 2006 intendeva eliminare.
In questa coppia irrompe un ulteriore elemento: non è difficile immaginare che alla prima divergenza di vedute sulle cure mediche o sull’alimentazione del neonato, la madre possa mettere sul piatto della bilancia «che ne sai tu, nemmeno lo volevi». Ogni richiesta del padre di trascorrere col figlio un’ora in più, un pomeriggio in più o una domenica in più potrebbe scontrarsi con «ora ti ricordi di fare il padre? Allora ricordati anche che mio figlio è nato solo grazie al tribunale», «io l’ho voluto, invece se fosse stato per te…». Una spada di Damocle perenne potrebbe gravare sulla testa di quel padre, costretto ad elemosinare anche una telefonata col rischio continuo di vedersi rinfacciare l’ovvio, cioè che pur desiderando fortemente un figlio, non può più desiderarlo se la famiglia si sfascia prima ancora che inizi la gravidanza. Lasciamo le supposizioni e torniamo ai fatti concreti. Il desiderio invece permane nella signora, tuttavia anche lei ha dovuto modificare sostanzialmente le proprie aspettative, infatti dichiara «ho deciso almeno di provare a metterlo al mondo lo stesso, anche come donna single». Ecco la modifica sostanziale al progetto iniziale per il quale entrambi avevano espresso consenso. Lo status di donna single non avrebbe consentito la PMA (legge 40/2004, art. 5)
ART. 5. (Requisiti soggettivi).1. Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi. |
La norma non può definirlo “neonato”.
Dichiara l’avvocato della signora: «La decisione del tribunale parte dall’assunto che il consenso dato alla PMA non è revocabile. Dunque, in sostanza, l’uomo deve assumere la paternità giuridica, con tutti i relativi obblighi economici e morali, verso un figlio nato anche a distanza di molti anni dallo scioglimento del matrimonio». Ecco fatto, l’importante è aver stabilito che il tizio è obbligato versare denaro. Gli obblighi morali bisogna citarli perché così il provvedimento sembra meno cinico, ma tutti sanno – avvocati in primis – che sono una chimera priva di concretezza. Nessuno psicologo, né tantomeno un giudice, potrà convincere quel padre a non sentirsi costretto a diventare tale. Potrebbe adorare il figlio nonostante non sia il frutto di una scelta d’amore ma di una sentenza, e frequentarlo regolarmente secondo i limiti stabiliti dal tribunale (fatto salvo l’ostracismo materno di cui sopra); oppure potrebbe andare a vivere a Trieste piuttosto che a Siracusa, avere altri figli da un’altra donna e spedire regolarmente l’assegno alla ex a Firenze. Gli “obblighi morali” possono definirsi compiuti prendendo il figlio per 15 giorni di vacanza nelle vacanze estive? È una condizione che vivono diversi padri separati, anche senza la PMA, quando è l’ex moglie a trasferirsi con la prole a centinaia di chilometri dalla residenza abituale.
Tornando alla domanda iniziale, in tutto questo il nascituro dov’è, come si colloca, che diritti ha? Lo sanno, sia il giudice che la madre, di condannare un bambino – prima ancora che inizi la gravidanza – ad un’intera esistenza dalle relazioni amputate? Eppure il primo articolo della legge 40 stabilisce che devono essere garantiti i diritti di tutti i soggetto coinvolti, compreso il “concepito”. La norma non può definirlo “neonato”, tale potrebbe divenire dopo un anno come dopo dieci.
ART. 1. (Finalità).1. Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito. |
La CRC (Children Right Convention, New York, 1989) non riconosce l’embrione come soggetto di diritti, che acquisisce solo alla nascita. Ma i diritti acquisiti alla nascita vengono violati dalla sentenza che impone l’impianto, quindi l’ok all’inizio della gravidanza o del tentativo di gravidanza, per volontà di un solo genitore. Con un genitore escluso prima ancora della nascita, il diritto-dovere di dare orientamenti alla prole è impossibile da rispettare. Con un genitore escluso prima ancora della nascita, il diritto di essere allevato da entrambi è impossibile da rispettare. Con un genitore escluso prima ancora della nascita, il diritto di essere preservare le relazioni familiari è impossibile da rispettare. Anche gli artt. 9, 10 e 14 contengono delle disposizioni impossibili da rispettare nel caso in cui venga imposto l’inizio di una gravidanza contro la volontà di uno dei genitori. Da notare che in ogni passaggio della CRC si parla di “fanciullo”, dall’inglese child, che non contiene le sfumature italiane neonato, bambino, adolescente. In conclusione, il provvedimento del Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere può essere definito esclusivamente in accoglimento delle istanze materne, ma né a misura di bambino né, ovviamente, a misura di padre.
«Il punto», dice questo articolo, «è che il consenso dato alla produzione di blastocisti crioconservate in vitro determina, nei fatti, l’assunzione dello status genitoriale senza alcuna possibilità di revoca. La circostanza che il rapporto familiare e coniugale sia venuto meno risulta, dunque, irrilevante». Non posso concordare. Lo status genitoriale nasce dall’aver generato, e la conservazione in vitro di blastocisti (embrioni adatti all’impianto) non significa che la coppia abbia generato alcunché. Prova ne sia che l’impianto può non andare a buon fine, come in effetti è già capitato, quindi nessun componente della coppia è divenuto genitore per il solo fatto di aver effettuato un tentativo. La signora poi sostiene di aver combattuto una crociata ideologica, dichiarando «La mia è stata una battaglia anche per tante altre donne». Ecco, appunto, per le donne. È sicura, ma proprio sicura sicura, che sia anche una battaglia per i diritti dei blastociti?