In preparazione dell’8 marzo, si gratta il barile per trovare il modo di portare all’attenzione pubblica qualche tema donnista e qualche protesta femminista, ad agio di questa o quell’associazione militante. È il caso della sedicente “editoriale indipendente” chiamata “Aestetica Sovietica” (sic), che in una lettera pubblicata on line sul proprio sito si rivolge indignata alla RAI. Il problema di costoro nasce dal fatto che in ben tre fiction (“Mina Settembre”, “Le indagini di Lolita Lobosco” e “Che Dio ci aiuti 6”) sono state rappresentate donne che accusavano e denunciavano falsamente degli uomini per stupro. In un caso è un’estetista che mette nei guai un ginecologo, in un altro è un intreccio di amanti dove la falsa accusa serve a togliere di mezzo un marito, nel terzo si tratta (apoteosi) di una falsa denuncia per uno stupro lesbico. Tutto questo non va a genio alle femministe sovietiche di cui sopra, che elevano vibranti proteste: «Quella che poteva sembrare una coincidenza appare sempre più come un disegno politico, o quantomeno come un retaggio culturale imperdonabile in un Paese che già fa molta fatica a credere alle violenze sessuali». Tradotto: il believe women non fa ancora abbastanza danni, non vige nel 100% dei casi e certe rappresentazioni televisive impediscono che la prassi delle false denunce diventi sistemica al cento per cento.
Proseguono le pasionarie (corsivi nostri): «Adesso basta. Pretendiamo spiegazioni. Queste coincidenze sono imperdonabili. Non tollereremo della retorica spicciola il prossimo 8 marzo. Il supporto a una battaglia lo si dà anche attraverso una rappresentazione veritiera del mondo in cui viviamo. E nel mondo in cui viviamo, quando una ragazza denuncia uno stupro, le si chiede se è sicura, se avesse bevuto, se avesse dato modo di credere al suo carnefice di starci, quanto corta fosse la gonna che indossava. Si dubita. E la Rai ci sta insegnando che facciamo bene a dubitare». Fingono di non sapere, costoro, che quelle domande così fastidiose sono conseguenza di uno Stato di Diritto, che impone di incriminare o condannare oltre ogni ragionevole dubbio e con il supporto di prove provate. Ma tant’è le sciocchezze delle sovietiche vengono subito raccolte dalla “antenna femminista” installata in Commissione di Vigilanza RAI, ovvero Michele Anzaldi, noto per lo schiocco dei tacchi che sa produrre ad ogni piccolo mal di pancia femminista: «Sull’imperdonabile ripetersi di finti stupri nelle fiction Rai», tuona, «siano le donne del CdA a chiedere spiegazioni e chiarimenti, prima che a farlo debba essere un uomo, come il sottoscritto, nei confronti di un altro uomo come l’AD Salini. Chi non ha controllato? Quanto è stato speso?». Per mera cronaca elettorale: cotale genio è di Italia Viva.
Telefilm fedele specchio della realtà.
Si dirà: quante storie, sono solo fiction. Nossignori. Checché ne dicano le femministe sovietiche e il cavalier servente di turno, nel momento in cui un telefilm mette in scena il caso di una falsa denuncia di violenza sessuale, da fiction si trasforma in vero e proprio docu-film o film-verità che dir si voglia. Ed è così non perché lo affermiamo noi, ma per banali dati di fatto: secondo i dati ISTAT, negli ultimi dieci anni c’è stata una media annuale di 4.000 denunce di stupro, di cui solo 1.400 (il 35%) ha avuto come esito una condanna, mentre il restante 65% è finito archiviato o in assoluzione. Erano tutte false denunce? Molto probabile. Lo riteniamo probabile sulla base delle rilevazioni che abbiamo fatto nel 2020: sui media sono state pubblicate 270 notizie di false denunce e 97 di esse, ovvero il 35%, era per violenza sessuale. Nell’anno in corso la stessa rilevazione conta 21 false denunce di violenza sessuale su 57, pari al 37% del totale. Considerando che solo pochissime delle sentenze di assoluzione (e tanto meno le archiviazioni) finiscono sui media, tali percentuali sono la punta di un iceberg che, se visto tutto intero, darebbe ragione dell’altissimo numero di denunce finite in nulla registrate dall’ISTAT. Un trend che per altro non è esclusiva italiana: la femministissima Spagna registra lo stesso fenomeno, con numeri, rilevati giusto di recente, ancora più impressionanti, a riprova che dove predomina una cultura femminista, la prassi delle false denunce dilaga. Insomma, non c’è nulla per cui protestare: “Mina Settembre”, “Le indagini di Lolita Lobosco” e “Che Dio ci aiuti 6” hanno semplicemente documentato con molta esattezza una realtà strutturale e sistemica, per questo sono veri e propri docu-film, altro che fiction.
A confermarlo arrivano per altro gli ultimi aggiornamenti su una vicenda di cronaca dove tanto le femministe quanto i mass-media hanno banchettato come un branco furioso di sciacalli: il caso Genovese infatti si sta mostrando per quello che è, esattamente come noi avevamo previsto. Dopo l’accusa della diciottenne di “Terrazza Paradiso”, Alberto Genovese da tossicodipendente sessuomane si era trasformato in una banca dai caveau non vigilati. Ciò ha indotto subito molte allegre precedenti frequentatrici delle sue orge a dargli l’assalto facendo allungare l’elenco delle presunte stuprate pronte a testimoniare la brutalità subite dal ricco vizioso, a farsi ospitare nei salotti TV (probabilmente dietro cachet) e a costituirsi parte civile in vista di un ricco risarcimento danni. Il problema è che, stando agli esiti delle indagini, tutte loro dopo l’orribile esperienza hanno continuato a scambiare messaggini ridacchianti e sbaciucchiosi con il loro aguzzino, assecondando apertamente la sua way of life fatta di droga e sesso. Scrivono i giudici che evidentemente quello era «nel contesto degradato di riferimento, il modo attraverso il quale entrambi, di comune accordo, gestivano la propria relazione affettiva». Detto e scritto questo, hanno pregato le presunte vittime, che già si erano messe ordinatamente in coda, di accomodarsi alla porta rassegnandosi ad uscire con la borsetta vuota come quando erano entrate. Le loro saranno dunque denunce che andranno ad aggiungersi al conteggio di quelle finite nel nulla, palesemente infondate e strumentali, che sono la maggioranza e che tra qualche mese verranno strombazzate come prova della dilagante violenza e della cultura dello stupro del nostro paese. C’è quindi poco da protestare dunque contro certi telefilm, cui anzi va un plauso per la capacità di prendere ampio spunto dalla realtà, pur raccontando storie di fantasia. Con buona pace delle femministe, sovietiche o meno, e dei loro cicisbei.