La Fionda

Fecondazione assistita, un altro schiaffo alla logica e agli uomini

La vicenda è nota: una coppia sposata crea degli embrioni e li pone in crioconservazione, probabilmente nell’ottica di impiantarli in un momento successivo tramite la fecondazione medicalmente assistita. Poco dopo si separano, ma la donna intende utilizzare gli embrioni ugualmente per dare alla luce un figlio. L’uomo si oppone e la cosa finisce al Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere, che settimana scorsa ha sentenziato l’irrilevanza dell’opposizione paterna: la donna ha il diritto di farsi impiantare l’embrione creato con l’ex marito, che a sua volta avrà l’obbligo di provvedere, a norma di legge, al mantenimento del figlio e conseguentemente anche della ex moglie. La decisione del tribunale, sostiene il legale della donna, è conforme alla Legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita, secondo cui «il consenso può essere revocato fino alla fecondazione dell’ovocita», dopo no. Avvenuta la fecondazione, non si ha alcuna possibilità di revocare il consenso quindi, nel caso in questione, «il padre deve assumere la paternità giuridica, con tutti i relativi obblighi economici e morali, verso un figlio nato anche a distanza di molti anni dallo scioglimento del matrimonio». È molto probabile che l’avvocato, e con lui anche il tribunale, abbia ragione. Non andremo a controllare la Legge 40 per verificarlo. Né faremo facili sarcasmi sulla strada più rapida e facile trovata dalla donna protagonista della vicenda per farsi mantenere a vita. Qui in ballo c’è di più, molto di più. Vediamo cosa, in ordine di gravità.

È molto grave, per cominciare, che sia in vigore una legge che sancisca l’esistenza di un vincolo sulla base di un evento biologico quale la fecondazione di un ovocita che per di più viene poi congelato. La norma ignora che le due componenti biologiche provengono da due persone, entrambe con sentimenti, aspettative, un vissuto e soprattutto la capacità di discernere e decidere. Anzitutto di decidere di fornire quelle due componenti affinché si uniscano e possano in un futuro generare un altro essere umano, che però non è un oggetto fine a se stesso. La decisione maturata dai due era il frutto di un rapporto affettivo allora in essere, con tutti i progetti che ne conseguono, primo tra tutti quello della genitorialità condivisa. Quella in vigore è insomma una “legge in vitro” o una “legge da laboratorio”, che prescinde ingiustamente da tutto ciò che sta attorno al vitro e al laboratorio e che, invece, è proprio ciò che dà ragione all’unione delle due componenti. Sono le coppie che si amano a decidere di procreare, non quelle che si lasciano. Vista da un altro verso, i figli devono essere frutto di un atto d’amore condiviso, non altro. In altre parole, se davvero la Legge 40 impone i vincoli spiegati dall’avvocato della donna, si tratta di una legge disumana, ontologicamente violenta. Molto adatta ai tempi che corrono, si dirà, ma per chi mantiene ancora una qualche parvenza di attaccamento all’umanità, è una norma che indigna e fa accapponare la pelle. Se non da cancellare, sicuramente da modificare.

mitosi

Una schizofrenia normativa a cui solo l’Italia forse poteva arrivare.

È gravissima poi la contraddizione, anzi il vero e proprio cortocircuito, che la sentenza campana ingenera rispetto alla ratio della normativa italiana sull’aborto. Essa poggia su un principio efficacemente sintetizzato dallo slogan inglese my body, my choice: il corpo è mio, la decisione sta a me. È proprio la presenza dell’embrione nel ventre materno ad aver conferito alla donna, tramite le più diffuse leggi sull’interruzione di gravidanza, potere di vita e di morte sull’embrione. Per molti il coinvolgimento dell’utero materno nel processo gestazionale è argomento sufficiente per il riconoscimento di quel diritto alla donna e la negazione di ogni diritto all’uomo coinvolto nel concepimento. Per altri no: fin dal primo momento della fecondazione, il corpo della donna si predispone ad asservirsi alla crescita dell’embrione prima, poi del feto. Questo da solo già fa vacillare il my body, my choice: per quanto possa sforzarsi di decidere, la donna incinta non può impedire al proprio corpo di far affluire più sangue, ormoni e nutrimenti là dove sta crescendo una vita. Questo perché dentro di sé sta crescendo un altro corpo, diverso da quello materno e, da un certo momento in poi, dotato di identità umana, dunque di un’intangibilità infrangendo la quale si tratta di omicidio, né più né meno. Da un certo momento in poi si tratta di a body, a life, nobody’s choice: un corpo, una vita, nessuno può decidere.

Tutto questo però come va interpretato se l’embrione non è nel corpo della donna? Se da decenni ormai il my body, my choice è la pietra angolare delle normative sull’interruzione di gravidanza, tanto da andare a costituire un diritto sacro e intoccabile per ogni donna e la negazione di ogni diritto per l’uomo, allora tale impostazione dovrebbe essere messa in discussione nel momento in cui il corpo materno non è più coinvolto nel processo. A ben vedere, infatti, la legge italiana contiene due norme la cui ratio è in contrasto: da un lato sancisce la revocabilità della fecondazione quando il suo esito si trova nel corpo della donna, mentre dall’altro ne stabilisce l’irrevocabilità quando l’embrione si trova in un contenitore criogenico. Qual è dunque il centro dell’interesse della legge italiana, il contenuto o il contenitore? Cosa avvalora la priorità data a una vita possibile, che l’ovocita fecondato stia nell’utero materno o dentro un congelatore? Siamo allora al paradosso che quando si trova nella sua collocazione naturale è qualcosa di eliminabile, mentre quando è in un ambiente sintetico, dove per altro potrebbe anche rimanere per sempre senza svilupparsi mai, allora diventa qualcosa di sacro e intoccabile. Una schizofrenia normativa a cui solo l’Italia forse poteva arrivare, superando con disinvoltura il fatto che l’ipertutela di un embrione fuori dall’utero strida enormemente con l’ipotutela dello stesso embrione impiantato in un utero.

donna incinta

Uomini detentori di diritti deboli.

Non è una contraddizione da nulla. Scioglierla significa scegliere da che parte stare: o l’embrione non è da tutelare, e allora su quello congelato entrambi i potenziali genitori hanno potere di veto, oppure è da tutelare, e allora ciao ciao alla normativa sull’aborto e sullo sbandierato my body, my choice. Il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere è riuscito a trovare una sintesi all’italiana affermando un nuovo principio: a freezer, her choice, his wallet, un freezer, la decisione sta a lei e il portafogli ce lo mette lui. Viene sancito così un allargamento del potere di vita e di morte della donna sulla vita possibile, con l’estromissione legale di chi quell’embrione ha contribuito a crearlo. In sostanza la già iniqua legge sull’aborto, che espelle il padre da ogni compartecipazione alle decisioni sul nascituro (perché her body, her choice) viene applicata anche nel caso della procreazione medicalmente assistita. Oltre a rendere irrilevante la pulsione umana che aveva spinto i due a conservare un ovulo di lei fecondato da lui, la legge, come applicata dal tribunale, rende del tutto irrilevante la volontà del genitore maschio a non avere un figlio con una donna che non ama più e con cui non ha più nulla a che fare. Di fatto l’uomo è forzato a una paternità non voluta, esattamente come nei tanti casi di gravidanze imposte con l’inganno o frutto d’infedeltà. Ha senso chiedersi, a questo punto, cosa accadrebbe se un uomo decidesse di far impiantare nell’utero della nuova compagna un embrione concepito con l’ex moglie e poi congelato, il tutto contro la volontà dell’ex moglie. Saremo prevenuti, ma siamo certi che il Tribunale di Santa Maria Capua a Vetere e ogni altro tribunale d’Italia glielo impedirebbe.

In cima a tutto, in termini di gravità, sta infine l’aspetto più sconvolgente, che attiene direttamente ai diritti riproduttivi maschili e, più in generale, ai diritti maschili tout-court. Le norme sull’interruzione di gravidanza e tante altre a corredo hanno sottratto agli uomini ogni margine non tanto di decisione, ma anche solo di compartecipazione alla scelta procreativa. In condizioni naturali, l’uomo, la maschilità, la paternità sono umiliati e mortificati, non avendo alcuna voce in capitolo, sia che non si voglia o che si voglia un figlio. In quest’ultimo caso il my body, my choice cade come una mannaia: se lei decide di non tenerlo, anche a fronte di ogni rassicurazione di lui che se ne assumerà la piena e autonoma responsabilità, anche dietro a un risarcimento per la pena della gestazione e del parto, non ci sono storie, il bambino non nascerà. Il tutto mentre si afferma la pratica di donne che affittano l’utero a ricchi desiderosi di un figlio che non possono avere: una pratica vietata in Italia, ma che se non fosse vietata probabilmente verrebbe adottata di frequente. La decisione del tribunale campano, almeno finché non esisterà una sentenza uguale a favore di un padre, sancisce dunque un’ulteriore estromissione della parte maschile da ogni diritto riproduttivo ma, trattandosi di un caso dove non c’entra più il coinvolgimento del corpo della donna, la sanzione è più ampia e più grave. Essa infatti certifica in Italia l’esistenza di cittadini di serie A, le donne, e cittadini di serie B, gli uomini. Questi ultimi detentori di diritti deboli o di nessun diritto del tutto. Persone che possono essere oggetto di soprusi e violenze, il tutto perfettamente a norma di legge.



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