Terminata la Seconda guerra mondiale, alcuni economisti americani si riunirono per impostare le direttrici della nuova economia post-bellica, da trasmettere alla Presidenza affinché se ne facesse promotore. Si trattava di fautori del capitalismo e rifletterono coerentemente su come far rendere al meglio un sistema che, raggiunta la pace, avrebbe dovuto viaggiare col vento in poppa. La conclusione fu piuttosto semplice: la chiave di volta del funzionamento del sistema capitalistico sono i consumi. Se la gente consuma, il sistema rende, ossia la produzione aumenta o resta costante, si distribuiscono lavoro e stipendi, e con questi ultimi la gente consuma, in una sorta di circolo virtuoso. Chiaro è, però, che il consumo è legato al bisogno degli individui, dunque per spremere il massimo dal sistema capitalistico era necessario far sì che le persone sentissero nuovi bisogni o un bisogno costante di consumare, anche a prescindere dall’oggetto dell’acquisto. Da lì ha preso le mosse un apparato economico-industriale che è perdurato per sessant’anni e che solo in questo periodo sta gradualmente lasciando il passo a un nuovo modello dove molte componenti risultano mutate lasciando però ferma la chiave di volta: il consumo. È evidente, e la recente pandemia ne ha dato un segnale chiaro, che se tutti quanti ci limitassimo ad acquistare soltanto i beni e i servizi che ci sono strettamente necessari per vivere, l’intero sistema mondiale imploderebbe in poco tempo.
Una delle grandi differenze tra il capitalismo concepito da quegli economisti postbellici e quello attuale sono le dimensioni del sistema: allora si trattava di qualcosa di limitato al mondo occidentale e sviluppato, mentre oggi la proporzione è globale, così come la necessità di tenere alti i consumi delle persone, che resta il perno su cui tutto quanto il modello si regge. Oggi come allora sono i bisogni a guidare i consumi, ma oggi più di allora si tratta di bisogni voluttuari, creati ad arte tramite le mode, le réclame, la pressione sociale e altri meccanismi. Può piacere come no, può essere considerato il migliore dei sistemi oppure no, non è questo che ci interessa, questo non è un blog di economisti. Ci interessa piuttosto capire se c’è una categoria in particolare, e nel caso quale, che oggi dà il suo contributo maggioritario a sorreggere questo modello che ha tanti lati positivi, ma anche un buon numero di esternalità (la proliferazione dei rifiuti, le differenze sempre più marcate tra ricchi e poveri, la perdita del valore reale che viene conferito alle cose, e tanto altro). Non solo: vorremmo provare anche a capire se quell’eventuale preponderanza ha una qualche parentela con alcuni elementi presenti nella cultura diffusa, se i due campi, quello economico e quello socio-culturale, si legano, quanto e con quali conseguenze.
Gli uomini rappresentano un ostacolo.
Un primo dato, quello essenziale, si trae da diverse ricerche internazionali, alcune anche molto autorevoli: l’85% delle decisioni di acquisto nel mondo viene deciso dalle donne. Una percentuale ammessa anche da diverse fonti femministe, di cui anzi vanno molto fiere, arrivando anche a stimarne il valore economico per la strabiliante cifra di 20 trilioni di dollari all’anno. Questa è la cifra su cui la sfera femminile ha il totale controllo sul piano globale, relativamente alle scelte di consumo, che possono anche essere declinate per settori. Secondo il Yankelovich Monitor & Greenfield Online, le donne decidono il 93% della spesa farmaceutica, 92% delle spese per le vacanze, il 91% degli acquisti immobiliari, l’80% di quelli per la salute, il 66% di quelli relativi alle tecnologie e il 65% di quelli per le automobili. A ben vedere si tratta di settori-chiave dell’economia mondiale, industrie che producono tonnellate di beni e danno lavoro a centinaia di migliaia di persone in tutto il globo. Il tutto grazie alle decisioni di spesa prese dalle donne. Stanti così le cose, è piuttosto evidente che i produttori e, in loro rappresentanza, pubblicitari e comunicatori, abbiano la necessità di rivolgersi soprattutto al mondo femminile, il player-chiave nell’intero funzionamento del sistema economico globale. È normale che, con queste proporzioni, le donne siano al centro della narrazione collettiva, coccolate, protette e avvantaggiate in ogni modo.
Non è un caso che il marketing faccia parecchi sforzi per attirare l’attenzione femminile e dare ad essa esattamente ciò che cerca. O, come si è detto, per instillare in essa bisogni che in realtà non ha. La prova è presto ottenuta: ogni giornale ha la sua sezione di “consigli per gli acquisti”, pagine inzeppate di finti articoli di informazione, che in realtà nascondono vere e proprie réclame (in gergo si chiamano “pubbliredazionali”). Si prenda ad esempio “La Repubblica” e la sua sezione “consigli.it“: in ogni momento i finti articoli-pubblicità hanno per oggetto nella maggior parte dei casi prodotti d’interesse femminile, oppure generici ma descritti nella loro utilità per le donne, o ancora rappresentati con testimonial femminili. Quelli che restano hanno di solito carattere generico, ossia non ci sono inserzioni indirizzate specificamente agli uomini. Questo perché, mentre le donne governano l’85% delle scelte d’acquisto, gli uomini sono detentori di un misero 2-3% e il restante è appannaggio dei bambini (altro grande target pubblicitario). La propensione autonoma al consumo da parte della sfera maschile è pressoché irrilevante, i maschi non contano nulla quanto al fulcro dell’economia neo-capitalistica globalizzata. Anzi a ben guardare sono pure un po’ fastidiosi, rappresentano quasi un’ostacolo che sarebbe utile rimuovere gradualmente, sollevandoli da ogni capacità di scelta o rendendoli più malleabili.
Vanno in queste direzioni due strategie, una ormai diventata un classico e piuttosto istituzionalizzata, che è quella della spinta all’infantilizzazione generalizzata degli adulti, senza distinzione di genere: un consumatore-bambino è quanto di meglio il sistema economico attuale potrebbe pretendere per se stesso. Da un certo numero di anni a questa strategia se n’è affiancata una più aggressiva e, se si vuole, cinica: l’utilizzo di notizie vere e proprie come punto di attrazione verso i pubbliredazionali. In questo senso i fatti di cronaca sono una calamita irresistibile e un ponte sicuro per condurre l’attenzione delle lettrici dal fatto in questione alla pubblicità collocata poco distante. Gli esempi si sprecano, basti vedere nella foto qui sopra la sequenza di ritagli tratti dal sito del Corriere della Sera di qualche tempo fa. Le notizie vere e proprie sono aggregate e titolate in modo da coinvolgere l’utente femminile dal lato emozionale, trattandosi di notizie di violenze e soprusi nei confronti delle donne o storie di emancipazione femminile. Giusto a fianco dell’aggregato di notizie, vengono collocati i pubbliredazionali, un coacervo di non-notizie dietro cui si nascondono vere e proprie réclame. Con ciò si prendono due piccioni con una fava: si conferma con insistenza la negatività della sfera maschile, con una criminalizzazione sistematica fatta anche di rimozione di notizie di violenze femminili, e contemporaneamente si conduce la lettrice-consumatrice verso specifiche aree d’interesse, profumatamente pagate dagli inserzionisti. È molto probabile che se si ribaltassero d’un colpo le proporzioni nelle quote dei consumi, probabilmente anche i contenuti delle pagine dei media verrebbero invertiti nei generi.
Ma è tutto e solo un fatto di comunicazione, marketing, economia e consumi? No, anzi, la sfera socio-culturale generale è pienamente coinvolta e intrecciata con queste dinamiche, fino a scivolare in molti casi anche sul piano dei diritti, laddove vengono garantiti e ampliati, talvolta fino al privilegio, quelli delle top-consumer, mentre vengono ridotti e compressi quelli di chi non si impegna abbastanza a far girare l’economia. Qualche dato per dimostrare l’assunto: nel Regno Unito, ed è un dato costante in tutti i paesi occidentali, gli uomini pagano il 71,8% delle tasse complessive, contro un 28,2% pagato dalle donne, le quali però si giovano di questo surplus pagato dagli uomini usufruendo molto più ampiamente dei servizi pubblici, specialmente quando si tratta di spese mediche, con il dato esplosivo delle spese per il dolore cronico (valevole, ad esempio in Italia, per il 3% del PIL). Non diversamente accade, sempre in Italia, per le pensioni, con gli uomini che lavorano di più e un controvalore di pensioni erogate pari a circa 460 mila euro per gli uomini e 520 mila euro per le donne, le quali per altro affollano l’area pensionistica sotto i cinquant’anni (239 mila) rispetto agli uomini (185), che già spendono poco normalmente, figuriamoci da anziani. E così per tutti i servizi sociali, dove le donne ricevono complessivamente maggiori servizi degli uomini, in tutte le fasce d’età eccetto quella 0-15, dove c’è una sostanziale parità. Per non parlare del reddito reale: secondo lo U.S. Census Bureau, le donne capofamiglia hanno un’entrata netta che è il 141% di quella degli uomini capofamiglia, includendovi eredità, mantenimenti e redditi propri.
In attesa di una rivoluzione globale.
Sembra dunque esistere, numeri alla mano, una parentela stretta tra il predominio socio-culturale femminista, quello che criminalizza gli uomini e vittimizza le donne rendendo queste ultime oggetto obbligato di ogni forma possibile di risarcimento, e un sistema capitalistico che, reggendosi sui consumi, inevitabilmente coccola, protegge e dà più potere a chi più consuma, ovvero sempre le donne. È una parentela che sembra articolarsi in modo tentacolare su diverse direttrici, dal lato delle politiche pubbliche, così come dal lato della comunicazione generale e pubblicitaria, che spesso intrecciano i loro destini con quello di un sistema mediatico sempre molto attento al proprio tornaconto nel tenere un piede nel sistema. Le cifre in ballo sono gigantesche, dunque è comprensibile che il sistema tenda a blindare le proprie galline dalle uova d’oro in ogni modo possibile. E non si tratta di una situazione a cui è possibile trovare una soluzione rapida, essendo strutturale: davanti ai reietti del sistema, gli uomini scarso-consumatori, si staglia un gigante dotato di una potenza incommensurabile. Per il momento è sufficiente che lo schema sia chiaro: la sfera maschile è utile al sistema socio-economico solo nella misura in cui può produrre reddito o acconsente arrendevolmente di cederne del proprio a chi è titolata a farne uso e sperpero. Uno schema che richiama gli schiavi e i faraoni, i padroni delle ferriere e gli operai, i latifondisti e i mezzadri. In attesa di una rivoluzione che, a questo punto, dovrà essere generalizzata e non riguardare soltanto le questioni di genere.