Le considerazioni che si possono fare sul Governo Draghi, dal nostro lato, sono molteplici. Del passo falso più evidente, ovvero la riconferma della Bonetti al Ministero della Famiglia e alle Pari Opportunità, ha già parlato stamattina il nostro Fabio Nestola (anticipato dalla Bonetti stessa, che non ha atteso tempo per ricominciare a dire sciocchezze) e non c’è nulla di più da aggiungere, se non che ora occorre restare in guardia. Sì perché il sentore è che un tecnico come Draghi parrebbe più incline a occuparsi di questioni chiave (sanità, profilassi anti-covid e sua integrazione con la ripresa economica, Recovery Fund) e non di quisquilie ideologiche tossiche. Una buona prova il Presidente incaricato l’ha data respingendo la richiesta di coinvolgere nelle consultazioni anche i gruppi fanatici del femminismo o degli LGBT. Non solo: la maggioranza che sostiene Draghi è trasversale, i parlamentari, per non perdere seggio e pensione, devono starsene buoni e non tirare fuori dal cilindro questioni divisive, a rischio di incorrere in veti incrociati, quindi ci sono buone possibilità che vengano accantonate le varie proposte di legge repressive antimaschili e antipaterne da tempo in attesa di venire discusse o che magari frullavano nei cervellini delle ancelle del femminismo e del gender. Non solo: Draghi da una vita ha a che fare con denaro e risorse, il suo nome è legato a doppio filo con le politiche di austerity: ciò rende probabile che per un po’ non si vedranno più milioni di euro letteralmente buttati a sostegno di clientele ed enti inutili come i centri antiviolenza. Ciò non toglie che occorra stare molto in guardia su quel versante.
Ci sono poi altri motivi di soddisfazione, derivabili dal confronto tra l’oggi e quello che c’era fino a pochi giorni fa. Il Governo Draghi infatti eradica di forza dalla stanza dei bottoni i terminali più pericolosi della lobby LGBT. Scalfarotto torna dove deve stare, nell’irrilevanza, e insieme a lui con buona probabilità vanno anche l’amico Zan e la sua orrida proposta di legge. Il colpo più duro, però, la mafietta arcobaleno lo riceve con il defenestramento dell’improponibile Spadafora, quello che stava allo Sport senza sapere nulla di sport, ma soprattutto quello che ha impallinato la riforma delle separazioni e degli affidi, nonostante gli impegni del fu Governo giallo-verde. Altra batosta è poi l’iscrizione nelle liste della disoccupazione di Rocco Casalino: il potentissimo, livorosissimo e pericolosissimo spin doctor di Giuseppe Conte lascia baracca e burattini. La capricciosa e isterica diva di Palazzo Chigi, forte anche del fiancheggiamento dello stesso Conte e di Di Maio, non potrà più governare di fatto il paese e i suoi media a colpi di vocali WhatsApp, coordinando le attività su direttrici prone ai diktat gender e queer. Che si tratti di una Waterloo per i fautori del mondo dai mille generi lo dimostrano anche le proteste del “Partito Gay” per la presenza nell’esecutivo di troppe persone di buon senso (cioè contro il gender). Il più grande spettacolo dopo il Big Bang però, questo Governo lo offre con le sue “scelte di genere”, che hanno innescato reazioni davvero da poltrona e pop-corn.
Occhio ai sottosegretariati.
Le “donne del PD” infatti sono indignate, schiumano rabbia, tutte spettinate per lo sdegno: «nessuna donna del nostro partito in nessun ministero chiave», strillano incredule le varie Valente, Fedeli, Madia, Serracchiani, Quartapelle, Boldrini e similari, appoggiate dalla solita truppa di cicisbei sui media. Il dito è puntato contro il Segretario Zingaretti, quello che non perde occasione per regalare i soldi dei laziali all’associazionismo femminista, per riempirsi la bocca di slogan femministi e che, alla prova dei fatti, cioè quando c’è da distribuire il potere vero, lascia tutte a piedi, dando la priorità ai capi-bastone (Guerini, Franceschini, Orlando). Riscontrare sui social la furia di chi per anni si è spesa sul fronte femminista sperando di venire ripagata è un vero spettacolo pieno di sfaccettature. Mentre provano a sbranare i loro leader di partito (e mentre in parte si sbranano tra di loro), le vedi guardare sbigottite Forza Italia superarle da sinistra, collocando senza battere ciglio le belle Carfagna e Gelmini in due ministeri, per quanto irrilevanti, a conferma che la sinistra blatera di donne ma poi le lascia a bocca asciutta, mentre il buon vecchio nonno Silvio è sempre stato prodigo con le donne del suo partito. Tutte in genere belle e sexy, e non di rado, parrebbe, uscite dalla scuola politica delle “cene eleganti” di Arcore, cosa che fa ancora più infuriare le racchie femministe militanti di sinistra, che più che su un invito a una tombolata alla Festa dell’Unità di Massaciuccoli non hanno mai potuto contare. Per non parlare del monumentale collocamento all’opposizione al Governo Draghi di Giorgia Meloni, che la leadership del suo partito se l’è conquistata senza quote o corsie preferenziali. Insomma, dal lato nostro questo è lo spettacolo più piacevole e il risultato più importante raggiunto finora dal Governo Draghi: l’esplosione della contraddizione femminista militante a sinistra, quella che cura per anni clientele, distribuisce prebende e finanziamenti, si sbatte in una propaganda incessante, ossessiva e ammorbante, per poi restare con un pugno di mosche quando arriva l’occasione per avere potere vero.
L’inconsistenza è la cifra politica del femminismo, già dimostrata storicamente dal fatto che nessun partito dichiaratosi femminista abbia mai ottenuto consensi significativi (nemmeno le donne li hanno mai votati). La prova è dunque visibile anche oggi: fare le fanatiche femministe rende in termini mediatici e culturali (ed è già troppo) o personali, ma in termini politici generali è perdente. E così le megere che ora s’indignano ricordano da vicino le comari di De André in “Bocca di Rosa” (il cantautore non le chiama “comari” in realtà…), prese da ira funesta contro chi gli ha strappato l’osso e impegnate in grandi invettive. Ma soprattutto, guardando al loro radicamento a sinistra, ricordano le tante cronache dei tempi “gloriosi” del femminismo sessantottino o degli anni ’70, quando i vari happening erano un vero e proprio inno alla liberazione delle donne, un’esplosione di retorica suprematista donnista, terminata la quale toccava sempre alle donne andare a cucinare per i “compagni” o a lavargli i panni intrisi di tutti gli umori corporali conseguenti a un uso smodato di droghe e alcol. Gira gira, sempre lì sono le pasionarie e cambia poco che ora vestano i paludati panni delle parlamentari: quanto valga il loro femminismo è già evidente. Con un pericolo ancora incombente però, dove tutti noi attendiamo Draghi al varco: i sottosegretariati. Quelli non sono ancora stati distribuiti e non sono nomine da nulla. Certo contano meno dei ministeri, ma hanno un’influenza spesso non irrilevante. Ci auguriamo che il Presidente del Consiglio non voglia usarli come refugium peccatorum inzeppandoli di femministe tossiche del PD e dintorni o, peggio ancora, provenienti dall’esterno (e il nostro pensiero va con timore a erinni del calibro di Linda Laura Sabbadini), al solo scopo di farle star zitte e interrompere i loro capricci. Caro Presidente Draghi, non smetta, per favore, di essere pragmatico: la bandierina l’hanno messa al Ministero della Famiglia, possono accontentarsi. Là fuori ci sono milioni di potenziali disoccupati, aziende e famiglie allo stremo, se dunque deve dare qualche sottosegretariato come contentino alle nazifemministe trinariciute, riservi loro qualcosa di specifico e appropriato dove possano nuocere poco, tipo la delega alla bonifica delle paludi o quella alle buche stradali. Sarà già tanto così.