No, non sono una santa, ma quella volta che, con due parole, descrissi di sentirmi serena e appagata, feci il miracolo. Si avvicinava il Natale, andavo alla cena aziendale, mi unii ad un gruppo di colleghe che incontravo solo in quell’occasione. Durante il tragitto mi chiesero: parlaci di te. Cosa dovevo dire? Sposata e madre dei miei figli, «la cosa migliore che abbia fatto nella mia vita», con un bel part-time che mi consentiva di “lasciare un segno nel mondo” senza trascurare le persone a me più prossime. Una fotografia inaspettata che generò qualche secondo di silenzio. Sono abbastanza certa che quel breve fotogramma convinse Laura, qualche mese dopo, a tornare al suo paese, sul lago Maggiore, per sposarsi e finalmente dare alla luce suo figlio, trovando un impiego a tempo parziale che le consentiva di confermare la sua professione.
Felici e appagate, quindi, è possibile, e si realizza quando lo stato d’animo è collegato alla coscienza della nostra condizione, in relazione alla soddisfazione dei nostri desideri. Illudere e creare false aspettative è cinismo, invece. Spingere le donne a scartare l’idea di impegnarsi per edificare la propria famiglia, facendo credere loro che la professione sia il primo obiettivo, l’unico valido e ambizioso, è un’illusione che crea eterna insoddisfazione, le spinge lontano dalla casa natale, dalle loro radici, sole obbligate a una falsa spavalderia. Sia chiaro: non ho nulla contro quelle che, grazie a doti e capacità, scalano la vetta del successo dedicandosi alla company quotata in Borsa, uscendo di casa ogni giorno per andare a caccia di nuove quote di mercato. Sostengo però, anche, che non tutte possono diventare Samantha Cristoforetti (la quale tornata dalla missione spaziale, la cosa che ha fatto subito è stata mettere al mondo un figlio) e hanno il diritto di vivere una vita normale senza sentirsi in colpa o essere compatite.
Giù articoli per colmare l’inquietudine.
Il tema è dibattuto e perfino i giornaloni ogni tanto “passano” storie di professioniste che dopo anni di apnea rivedono l’agenda. È il caso di Cinzia Sasso, giornalista, moglie dell’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che ci ha scritto addirittura il libro intitolato “Moglie”, con tanto di prefazione curata, nientepopodimeno, che da Natalia Aspesi, la quale ha parlato di “storia esemplare”. L’autrice, e protagonista, afferma: «mio marito si spendeva fuori casa, io ho deciso di spendermi per lui». Tutto regolare se a prendere questa decisione è una signora della “Milano Bene”. Il Paese si dimostra, invece, arretrato quando la stessa decisione viene presa da tutte le altre. «Questo non è un Paese per le donne che lavorano», si è scritto dopo il report su figli e occupazione del 2020 che riporta di 37.000 lavoratrici dimissionarie dopo la maternità. Anche io quando mi sono licenziata per occuparmi della casa e dei figli sono stata sottoposta ad interrogatorio dall’Ispettorato del Lavoro, che voleva accertarsi che le mie dimissioni non fossero state indotte (dal padrone brutto e cattivo).
Nel web, alla voce “Donne realizzate in famiglia”, si trovano oltre 9.000.000 di risultati, la maggior parte dei quali dubitativi. Qualche esempio: “Una mamma è una donna realizzata?”. Oppure: “Cambio di prospettiva, da madre a manager, Donne in carriera senza figli. Carriera e famiglia, l’eterno dilemma”. Se si cerca “Donne e professione” escono circa 20.100.000 voci. La triade moglie-madre-lavoratrice perde 10 a 1 contro le donne realizzate professionalmente. E tanti saluti al multitasking, lo stereotipo che ha sostenuto, per anni, che le donne fossero in grado (meglio degli uomini) di fare più cose contemporaneamente, recentemente smentito da uno studio che rivela che è una capacità a-gender. Mi scrive l’amica Roberta: «la realizzazione professionale è la principale causa di frustrazione femminile: a certi livelli genera una sfrenata singleness, il desiderio di prevaricazione e misandria dilagante». I media lo sanno e allora giù articoli per colmare l’inquietudine.
Si ritrovano sole, la sera, a mangiare vaschette di gelato.
Leggo su un importante magazine: «…in costante equilibrio tra vita privata e professionale, il risultato non ci soddisfa affatto e probabilmente per questo ci sentiamo stressate. Ma affrontiamo la realtà con una grande dose di ambizione. A volte sembra di voler conciliare l’inconciliabile». “Cosa voglio di più?”, chiede alle lettrici il sondaggio on line. E loro: «più lavoro, più tempo!». Il ritratto che esce dallo scandaglio è il seguente: le donne sarebbero troppo impegnate a conciliare lavoro e vita privata (27%), proverebbero a coltivare interessi (21,2%), ciò nonostante sono totalmente insoddisfatte. Si darebbero, poi, molto da fare senza ottenere il massimo: solo il 5% si sente realizzata professionalmente, il 7% ha una vita di coppia felice, e per finire il 3,8 per cento si definisce popolare, influente e ammirata (e io che credevo che la modestia fosse una virtù da coltivare!).
Secondo il magazine la soluzione si chiama work life balanceche consiste nello «sforzarsi di realizzarsi nel lavoro senza accettare che il prezzo da pagare sia la conciliazione familiare», arrivando alla conclusione che «se solo l’1 per cento si definisce soddisfatta di questa visione significa che occorre raddoppiare la dose di messaggi finalizzati alla persuasione». Conclude l’amica Roberta: «La ricerca spasmodica della realizzazione professionale viene promozionata ossessivamente per farci dimenticare che i nostri bisogni sono altri. Ci vogliono convincere che le donne stiano meglio con le proprie simili e/o in compagnia dei gatti, che basti una one night stand e/o un toy boy al posto di un marito. Il risultato è che vediamo tante giovani donne, carine, istruite e libere, che trascorrono la loro giovinezza chiedendosi cosa ci sia di sbagliato in loro, quando potrebbero conciliare benissimo casa e bottega, mettendo le basi della loro famiglia, e invece si ritrovano a sognare di essere nate per importanti missioni e a mangiare, sole, la sera, vaschette di gelato sul divano».