Yoshiro Mori è il presidente del Comitato organizzatore dei Giochi olimpici di Tokyo, rinviati l’anno scorso per la pandemia. È un vecchio politico giapponese, nel senso sia di esperto che di “anziano” (ha 83 anni). In passato è stato anche capo del governo e forse per questo si è ritenuto opportuno mettergli in mano il Comitato organizzatore delle olimpiadi in era di coronavirus e da quella posizione, affiancato da altri 28 membri, si trova a dover prendere decisioni importanti, specie appunto per le condizioni di tutela sanitaria necessarie a consentire una manifestazione sportiva così grande. Qualche giorno fa, durante una conferenza stampa, tra le mille possibili domande, un cronista gli pone una domanda idiota, ossia se non ritenga troppo basso il numero di donne all’interno del Comitato: 5 su 23. Mori risponde: «Il problema è che le donne parlano troppo e se ce ne fossero molte in consiglio, le riunioni non finirebbero mai, quindi, bisognerebbe prima di tutto limitare la durata dei loro interventi, perché faticano a concluderli e risultano fastidiose».
Apriti cielo: le femministe internazionali (perché in Giappone quella bizzarria non attecchisce granché) si sono subito mobilitate con una shitstorm globale: «frasi sessiste!», «mancanza di rispetto!», «mentalità maschilista!». I media, manco a dirlo, sono seguiti a ruota, producendo articoli imperniati sulla scelta doviziosa solo di una parte della risposta di Mori, per poterlo così ben rappresentare come un sudicio sciovinista e misogino. Tutto si è concentrato sul concetto “parlano troppo e sono fastidiose” e su di quello si è costruita una montagna di letame sotto cui si è cercato di seppellire il Presidente del Comitato olimpico. «Dimissioni subito!» hanno rilanciato in breve le femministe voraci di posti di potere. Hai visto mai che con il solito giochetto non si riesca a piazzare una donna al posto di Mori, non perché più brava di Mori, ma solo inquantodonna? Anche su questo i media hanno cominciato a cannoneggiare, con insistenti richieste affinché il dirigente giapponese facesse “un passo indietro”. Eppure nisba, niente da fare: Mori resta al suo posto, per lo scorno di tutte quelle che già facevano la conta per chi l’avrebbe sostituito.
Qualcuno che sussurra ossessivamente…
«Non ho intenzione di ritirarmi», ha detto qualche giorno dopo Mori. «Ritiro semplicemente ciò che ho detto, è la soluzione più rapida. Quella constatazione mi ha creato problemi anche a casa: mia moglie, mia figlia e mia nipote mi hanno detto che ho sbagliato e mi hanno sgridato». Un cronista, forse lo stesso imbecille della prima domanda, gli chiede se alla fine qualche riunione del Comitato si sia mai protratta a causa degli interventi femminili, e Mori risponde togliendo ogni dubbio sul fatto che le sue scuse fossero un modo per perculare i suoi critici: «non parlo tanto con loro, quindi non so». Ora le femministe sono furenti: come osa quell’ometto con gli occhi a mandorla a resistere al suo posto, con tutto il casino che abbiamo organizzato e dopo scuse così inefficaci? Ciò che le pasionarie appassionate rapinatrici di posti di vertice altrui non capiscono è che hanno a che fare non con un cedevole maschio bianco eterosessuale occidentale, ma con un giapponese. Parliamo di gente che si apre la pancia se ritiene di essersi comportato in modo disonorevole, di soggetti che la guerra finisce ma loro restano a difendere l’isoletta sperduta per altri trent’anni. Gente che piega la testa solo se ha da fare il rituale inchino di saluto.
Per di più Mori ha capito benissimo il giochetto nel momento in cui tutti i media hanno riportato solo la prima parte della sua risposta, omettendo il seguito, ossia l’argomentazione: «Le donne hanno un forte senso della competizione, se una alza la mano per prendere la parola, anche le altre si sentono in dovere di farlo e la faccenda così non finisce più». Il che è indubitabilmente, indiscutibilmente vero. C’è tra moltissime donne professionalmente impegnate questo radicatissimo e del tutto ingiustificato senso di inferiorità che le spinge a esibire la propria competenza anche quando non è necessario e anzi magari è deleterio, innescando una gara tra le presenti a chi “ce l’ha più grosso” (il cervello). Una roba che mal s’accorda con il noto e spintissimo efficientismo giapponese, portato per natura a ottimizzare tutto, tempi compresi, e a richiedere la professionalità altrui (di donne e uomini) quando necessario e richiesto, non certo per compensare proprie insicurezze interiori. Quanto accaduto a Tokyo, invece di scatenare la solita polemica del piffero, doveva piuttosto indurre a chiedersi perché ci siano professioniste, magari pure eccellenti, sofferenti di questa forma d’insicurezza che poi scaricano sulle spalle altrui. La risposta è tanto semplice quanto scomoda: perché c’è qualcuno, il femminismo, il peggior nemico delle donne, che gli sussurra ossessivamente all’orecchio quanto sono oppresse, considerate inferiori, segregate, vittime e discriminate. Anche se non è affatto vero.