Quello alla violenza è un istinto tipicamente maschile, se non quasi esclusivamente maschile. Sono gli uomini a fare le guerre, no? Sono loro i maggiori protagonisti degli atti criminali, giusto? E sono sempre loro che agiscono sistematicamente con violenza nei confronti delle donne, dall’alba dei giorni fino a qualche minuto fa. Metti tutto insieme, tira una riga, fai la somma et voilà: ottieni il significato di “mascolinità tossica” e “patriarcato”. Che ha nei suoi significati anche il rovescio della medaglia: le donne sono l’esatto opposto degli uomini. Dunque mai violente, bensì empatiche, compassionevoli, solidali. E questo fa di loro le eterne vittime della brutalità maschile. Ecco questo è un po’ il compendio dei luoghi comuni su cui il femminismo costruisce i propri dogmi e si fa motore della discriminazione antimaschile. Un’estremizzazione concettuale che vacilla già da sé in termini logici e crolla miseramente davanti all’incontrovertibile verità dei fatti naturali. A partire dal fatto che quello alla violenza è un istinto presente trasversalmente a tutti gli esseri viventi, animali inclusi, e che essa viene esercitata usualmente in due casi: per difesa, molto spesso contro i più forti, e per attacco, quasi sempre contro i più deboli. Il leone attacca la gazzella, il ragno la mosca, il pesce grande quello piccolo, il bulletto muscoloso il nerd mingherlino, e così via. Gli attaccati si difendono come possono, e se non possono non si difendono affatto e soccombono alla violenza. Non esiste ambito dove le cose non funzionino così.
Nell’affermare che la violenza maschile, specie quella sulle donne, sia più speciale e specifica di tutte le altre possibili, le femministe impongono un principio che fa da solido appoggio al noto processo di vittimizzazione di un genere, con tutta la concessione di privilegi che ne consegue, e di criminalizzazione dell’altro, con tutte le oppressioni e persecuzioni che ne conseguono. Se non fosse che in giro per il mondo accadono eventi che smontano in un colpo solo tutta l’architettura “speciale e specifica” che con tanto sforzo costoro erigono. Anche per questo buona parte di quegli eventi viene tenuta ben bene in sordina dai mass-media generalisti: non sono soltanto scomodi, ma una vera e propria spina nel fianco. Come la vicenda delle quattro ragazzine che in Louisiana hanno ammazzato a coltellate una coetanea riprendendo tutta la scena coi cellulari e mandandola in diretta sui loro social. Violenza e cinica follia messe in atto da donne, oibò… La notizia è apparsa e subito scomparsa sull’ANSA, che l’ha proposta in modo asettico, senza analisi o approfondimenti. Perché quelle teen-ager sono arrivate a tanto? Che sta accadendo alle nuove generazioni? Domande legittime ma, essendo le colpevoli di sesso femminile, non è il caso di indagare più di tanto. Mica sono sedicenti “incel”. Perché in quel caso, lo si è visto per la vicenda di Andrea Cavalleri, con una mano si va a scavare nel passato del colpevole fino alla terza generazione, mentre con l’altra si tiene ben puntato il dito accusatore.
Anche di questa notizia si è parlato poco o niente.
La vicenda delle ragazzine in Louisiana rientra nello schema: quattro contro una, il forte che sopraffà il debole, a prescindere dai sessi di appartenenza. Un paradigma che trova ampia conferma se si fa scorrere l’analisi dalla donna in generale alla madre. Lì si trova il meglio del peggio. Oreanna Myers, 25 anni, residente a Greenbrier, West Virginia (USA) ha lasciato un biglietto dicendo di non riuscire più a dominare “i suoi demoni” e scusandosi per aver trucidato a fucilate i cinque figli (da 1 a 7 anni) per poi lasciarsi morire nell’incendio che lei stessa ha appiccato alla sua casa. Si sentiva sola, Oreanna. Suo marito stava fuori per motivi di lavoro e lei si era lamentata: «Se scegli il denaro invece della mia depressione», gli aveva scritto, «dimostri che non valgo niente. A nessuno importa di me? I soldi vanno e vengono, una volta che me ne vado non c’è modo di sostituirmi. Chiedo e grido aiuto ma non lo ottengo mai». Ecco, insomma, la colpa è di lui, ci mancherebbe. Come se, privo di risorse economiche, lei non se ne sarebbe andata portandosi via la prole. Una crudeltà atroce e ipocrita quella di Oreanna, il cui gesto è circolato poco poco sui nostri media nazionali e con pochi dettagli. Eppure dimostra come vero il nostro assunto di partenza: non ha tentato di uccidere il marito o un gruppo di uomini più forti di lei, ha bensì soppresso i figli, più deboli fisicamente e più vulnerabili perché probabilmente fiduciosi in lei. Buffo che un essere privo dell’istinto alla violenza e oppressa dalla violenza patriarcale e maschile possa arrivare a tale livello di crudeltà. Ah, ma era depressa, problemi psichiatrici, certo. Come no.
Anche Olga Freeman pare fosse un po’ svitata, sebbene la sua condotta mostri una lucidità molto evidente. Moglie di un noto fotografo londinese e madre di Dylan, un bimbo autistico di 10 anni, pare che a un certo punto abbia iniziato a sentire le voci e a dire di essere nientemeno che il Messia. Il lockdown per la pandemia aveva peggiorato questo suo stato, anche perché aveva comportato la sospensione delle cure per il figlio, di cui quindi si doveva occupare con costanza. Finché le voci, o forse più semplicemente la stanchezza del suo ruolo, hanno indotto la bella Olga a intontire Dylan con dei farmaci per poi ficcargli in gola una spugna e guardarlo morire soffocato in pochi minuti di agonia. Dice, di nuovo: era matta, dai. Può essere, ma i matti non pianificano la fuga dopo un delitto. Ed è quello che Olga ha fatto: la polizia l’ha pizzicata alla stazione ferroviaria, con le valigie in mano. Ora è a processo ma, un po’ che è donna, un po’ che continuerà a dire di essere il Messia e di dover salvare il mondo, novantanove su cento tra qualche settimana tornerà in libertà, senza quel rompiscatole del figlio autistico che le succhiava via la vita. Così tanto che lei, sebbene donna quindi più empatica, compassionevole, eccetera eccetera, ha deciso a un certo punto di restituirgli il favore otturandogli la gola con una spugna. Lei, infinitamente più forte, contro di lui, infinitamente più debole, secondo il nostro paradigma della violenza, così vero e così diverso da quello delle femministe. Così scomodo che anche di questa notizia sconvolgente si è parlato poco o nulla dalle nostre parti.
Non esiste una violenza “speciale”.
Il top, anzi in verità il bottom, si tocca con una storia che negli USA ha creato un grande turbamento e di cui da noi non c’è traccia, salvo qualche volenteroso parlante inglese sui social network, che l’ha riportata riassumendola. La protagonista stavolta si chiama Ariel Robinson, 29 anni, di Simpsonville in South Carolina (USA). Negli Stati Uniti è stata piuttosto famosa per un certo periodo per aver vinto la competizione televisiva di “Worst Cooks in America”, un programma in qualche modo similare al nostro “Masterchef”. La sua esposizione televisiva aveva fatto emergere la sua storia personale: dopo la vittoria aveva infatti deciso con suo marito di adottare tre bambini, due di colore, come la stessa Ariel e il marito, e una, Victoria, bianca, bionda, con gli occhi azzurri, dal visino tenero e dolcissimo. Victoria era la più piccola dei tre figli adottivi: abbandonata dalla madre biologica, era stata adottata da una famiglia che poi è risultata troppo povera per mantenerla. A quel punto viene data in affido e finisce tra le braccione morbide di mamma Ariel. Poco dopo esplodono le proteste dei Black Lives Matter e Ariel, anche grazie alla precedente notorietà, diventa una famosa influencer del movimento. La famiglia è benestante, tutto sembra filare liscio, per lo meno fino alla carnevalata di Capitol Hill: vedendo i “bianchi” impossessarsi del parlamento, Ariel perde il lume della ragione e decide di punire la prima persona bianca che le capita a tiro. Guarda caso proprio la piccola Victoria. Allora si arma di un’ascia, obbliga il consorte a stuprare la bimba poi la fa a pezzi, nascondendone i resti sotto il lavello. Poche ore dopo fa un video dove prepara una ricetta insieme al marito e lo condivide sui suoi social. La donna era indubbiamente più forte della bimba e, armata di ascia, anche del marito. Da quella posizione ha dimenticato la compassione, l’empatia femminili e tutto il resto, diventando violenta.
Certo, si dirà, tutte le tipette tranquille di cui abbiamo parlato avranno avuto più di una rotella fuori posto, salvo simulazioni per salvarsi dalle condanne in tribunale, fatto sta che il “raptus” di follia non è più ammesso come spiegazione dei delitti più efferati. Per lo meno non se a commetterli è un uomo contro una donna. Logica vorrebbe che non fossero mai giustificati, eppure qui tutti i media, compresi quelli stranieri ci provano. Quei pochi italiani che hanno riportato queste notizie, relegandole a dei flash o a narrazioni molto soft, si adeguano: storie di matte, robe che in Italia non accadono. Illusi: semplicemente non si raccontano, così come si nascondono quelle estere. L’ultimo caso, quello di Ariel Robinson, che raccoglie in sé elementi di genere (donna criminale) e di razza (lei è di colore) poi sono un vero tabù. Ci sono fior di accordi sindacali che in ambito giornalistico proibiscono letteralmente di parlare di queste cose. Ecco, anche, perché abbiamo voluto parlarne noi. E l’abbiamo fatto soprattutto per mettere in memoria qualche evento, tra i tanti, che nega gli assunti femministi, quelli in base ai quali quotidiani nazionali, tipo “La Repubblica”, aprono “osservatori” su fenomeni come “il femminicidio” (ne riparleremo presto), cercando di affermare una specificità e una specialità della violenza contro le donne che, dati, fatti e biologia alla mano, non esistono.