Quando accade che un uomo si renda responsabile di violenza a danno di una donna, la caccia all’uomo diventa notizia nazionale. Spettatori e lettori hanno la possibilità di seguire l’andamento delle indagini, quasi fossero assistenti degli inquirenti, grazie a trasmissioni televisive che seguono ossessivamente il caso. Per non parlare del processo: l’uomo violento alla sbarra è ontologicamente uno spettacolo godibile e da grande audience, ed ecco allora che si sprecano speciali, maratone, ricostruzioni, plastici, analisi psichiatriche e psicologiche basate su ogni scampolo biografico raccattabile ovunque possibile. Questi casi non perdono le prime pagine dopo la sentenza di condanna, sempre salutata con una standing ovation di applausi, con l’estensione dichiarata della colpevolezza singola a tutto il genere maschile e con auspici accorati per maggiori fondi contro laviolenzasulledonne (da dire tutto d’un fiato). Anzi mantengono saldamente il centro della scena fino alla pubblicazione delle motivazioni della sentenza, da cui i media colgono fior da fiore tutti gli aspetti più deteriori e brutali della vicenda, affinché il dito puntato su un intero genere si fissi ben bene nella memoria.
Tutto questo accade quando il colpevole è un uomo. E quando è una donna? Stitichezza assoluta durante tutto il percorso: a malapena ne parlano i media locali dove il fattaccio è avvenuto. Dopo l’eventuale (mai scontata) sentenza di colpevolezza la vicenda sparisce dai radar. Il femminismo d’affari ha insegnato ai media a fare con le malefatte femminili ciò che i felini fanno delle proprie deiezioni: seppellire accuratamente. Perché se la bruttura maleodorante si vede e si sente all’olfatto, c’è il rischio che tutt’intera una narrazione vada in pezzi. E questo è ancora più vero per certi atti criminali particolarmente simbolici, come la violenza sessuale. Si veda oggi il caso di Alberto Genovese, che ha una copertura pari, se non forse maggiore, a un conclave per l’elezione di un nuovo Papa. Massimo Giletti, per dire, ci ha praticamente basato l’intera stagione della sua trasmissione “Non è l’arena”. Per i motivi che si è detto, invece, solo su media microscopici e locali si è avuta notizia della pubblicazione delle motivazioni della sentenza che nel giugno scorso ha condannato a sei anni di reclusione una donna di Prato colpevole di aver violentato (fino a rimanerne incinta) l’allievo tredicenne a cui faceva ripetizioni.
L’effetto devastante del predominio di una donna su un ragazzino.
Aprano bene occhi e orecchie quegli imbecilli sempre in eccesso che di fronte a notizie del genere se ne escono con frasi tipo: «beato lui», riferite al minorenne violentato, o bestialità come «alla sua età sognavo di essere molestato dalla professoressa d’italiano». Sciocchezze da beoti che proiettano sulla propria infanzia e adolescenza pulsioni che sono in realtà dell’oggi e che assumono una luce sinistra nel leggere le settanta pagine redatte dal giudice Daniela Migliorati. Parlando della violentatrice, la definisce come «incapace di porre un freno ai suoi appetiti sessuali, a quell’insana passione per un adolescente. Una donna incentrata sul proprio ego nel totale dispregio degli interessi di un giovanetto, una donna che non ha speso una parola per riconoscere il male arrecato al ragazzo». Apparentemente il modello di donna da film pornografico, un sogno per molti maschi adulti nel pieno della propria maturazione ormonale, ma una violenza per chi quella maturazione non l’ha ancora né raggiunta né tanto meno razionalizzata. Ma non c’è soltanto l’imposizione di una sensualità senza freni a chi non ha gli strumenti per affrontarla. La colpevole è una donna, dunque non può mancare un elemento di atroce violenza psicologica, esercitata con il cinico utilizzo di un altro individuo: il bambino di cui la donna è rimasta incinta a seguito della violenza.
La condannata si caratterizza per «un ego assolutamente preponderante, che non ha indotto ad alcun tipo di ravvedimento», scrive il magistrato, che parla di una donna pienamente capace di intendere e volere e «che ha esibito il suo bambino come un trofeo, usandolo come potente arma di convincimento sul giovane amante per evitare che si sottraesse a quel rapporto». Ricatto morale, violenza psicologica, cinico utilizzo della prole come strumento per i propri scopi: una sorta di perfetta tipizzazione della donna abusante. «Il ragazzo», scrive ancora il magistrato, «si ingegna a soddisfare la donna sessualmente, a profferirle il suo amore negli infiniti messaggi cui è compulsato a rispondere anche in orario scolastico, pur di ottenere la tranquillità che quell’inverecondo segreto non sia mai rivelato». Chiunque abbia (o avrà) figli in età da prima adolescenza sa perfettamente quale confusione interiore (e del tutto naturale) comporti quella fase della vita, schiacciata tra l’incudine e il martello del volere e non volere, osare e non osare, certezza e incertezza. Sarà quindi facile immaginare quale effetto devastante questo predominio adulto femminile possa aver avuto sulla debolezza di un ragazzino.
Per questo nessuno ne ha parlato.
È un aspetto che al magistrato non sfugge, specie di fronte al cinico tentativo dei difensori della donna di eccepire la norma che sanziona la violenza sessuale, sostenendo che “ormai” l’età del consenso andrebbe abbassata sotto i 14 anni. Eccezione naturalmente respinta perché, scrive il giudice Migliorati, «è inconfutabile la disomogeneità dell’approccio alla sessualità tra un giovinetto e un adulto. Un minore non si tocca». E invece l’allegra signora di Prato l’ha toccato eccome, e il giovane è diventato così un «ossessivo oggetto delle morbose attenzioni della donna che lo teneva sotto minaccia senza dargli tregua». Nella sentenza si menziona più volte, poi, la totale mancanza di parole di scuse dell’imputata allo studente il cui «danno psicologico può essere serio ed irreversibile e compromettere le relazioni affettive del futuro uomo». Quali scuse? Se potessimo chiedergliene conto, di certo lei asserirebbe che il ragazzo dovrebbe esserle grata e che anzi la vittima della vicenda è lei. Ma non è tutto: con la complicità del marito, questa donna abusante ha anche fatto sì che anche l’unico lato positivo della vicenda, la nascita di un bambino, venisse sottratto al godimento del ragazzo abusato. Pur sapendolo “frutto della colpa”, infatti, il coniuge della donna ha riconosciuto il bambino come suo figlio, con ciò «sottraendo indebitamente ad un bambino il suo patrimonio genetico, culturale, affettivo». Per questo motivo l’uomo ha ricevuto una condanna a un anno e otto mesi di reclusione.
La vicenda termina qui, fatti salvi eventuali altri gradi di giudizio, dal lato penale. Potrebbero esserci, e non stupirebbe, altri sviluppi dal lato civilistico capaci di sottoporre il giovane abusato a una grave beffa, dopo il danno, ovvero l’obbligo di versare un mantenimento alla sua violentatrice, in quanto madre di suo figlio. Un bambino che ora potrebbe essere conteso tra il padre biologico, il ragazzino abusato, e quello che l’ha riconosciuto, il marito della abusante, in un intrico di paternità negate, vincoli affettivi spezzati e una vita tutta da ripensare per chi si è trovato a rivestire il ruolo di genitore all’età di 14 anni. Ed è anche questa la cifra caratterizzante della violenza femminile, specie quella sessuale: oltre a essere difficile da riconoscere e sanzionare, già dal lato culturale prima ancora che di quello penale, i suoi esiti creano situazioni ingarbugliate all’inverosimile, sconvolgenti dal lato psico-emozionale di chi ne viene coinvolto in una misura difficilmente valutabile. Un aspetto che emerge in modo straordinariamente evidente e incontrovertibile dalle motivazioni della sentenza di condanna per l’insegnante di Prato, un documento che spazza via riga dopo riga tutta la retorica vittimista del femminismo, con il suo carico di colpevolizzazione generica verso ogni persona di sesso maschile. Ed è proprio per questo che, a differenza di quando il colpevole condannato è un uomo, di tali motivazioni non s’è vista traccia sui grandi media.