“Opzione donna” è un provvedimento risalente a quella che venne chiamata “Legge Maroni”, datata 2004. Essa prevedeva l’accesso anticipato e sperimentale alla pensione in favore delle donne lavoratrici dipendenti o autonome con un’anzianità contributiva di almeno 35 anni e un’età anagrafica di almeno 57 anni per le lavoratrici dipendenti e 58 anni per quelle autonome, il tutto a fronte di una penalizzazione dal lato del trattamento pensionistico. La sperimentazione sarebbe dovuta durare dal 2008 fino al 2015, ma qualcosa è intervenuto a rendere il provvedimento pressoché strutturale, prima con il suo inserimento nella “Legge Fornero”, poi con le successive leggi di bilancio. Quando la “Legge Maroni” è stata concepita, il quadro sociale e politico era ben lontano dall’isteria donnista e femminocentrica attuale, indotta dallo strapotere del femminismo suprematista. C’erano in realtà già segnali di quella degenerazione che ora noi viviamo in pieno, ma non aveva dimensioni né profondità tali da determinare intere iniziative politiche.
Abbiamo fatto diverse ricerche per comprendere la ratio di “Opzione donna”, ovvero perché in allora il Ministro Maroni ritenne di riservare una corsia preferenziale d’uscita dal mondo del lavoro per le donne, ma non abbiamo trovato nulla di significativo e realmente esplicativo. Tanto meno si comprendono i motivi delle successive proroghe, compresa l’ultimissima, inclusa nella legge di bilancio del 2020. Ancora oggi, dunque, in presenza dei dovuti requisiti, le donne possono andare in pensione molti anni prima degli uomini, nonostante una lunga lista di “sebbene”. Possono farlo sebbene usualmente i lavori più usuranti e stressanti siano appannaggio pressoché esclusivo maschile. Possono farlo sebbene la speranza di vita maschile sia decisamente inferiore a quella femminile. Possono farlo sebbene in questo modo i lavoratori uomini paghino, continuando a sgobbare, pensioni per persone anticipatamente rese inattive e che poi, dato il tasso di premorienza maschile, beneficiano in molti casi della “reversibilità”. Insomma, già così si tratta di un mucchio abbastanza grande di dubbi da porre davanti alla perpetuazione di questo ennesimo privilegio di genere. Ma c’è di più.
Sono questi i provvedimenti di un sistema patriarcale, no?
È l’INAIL, con la sua banca dati pubblica e liberamente consultabile, a dirci quel di più. Si tratta dei dati sugli incidenti mortali sul lavoro che, com’è noto, viaggiano annualmente su cifre da capogiro, di cui però non si interessa nessuno. Degli oltre mille morti sul lavoro all’anno, nel 95% dei casi di sesso maschile, nessuno fa un’emergenza nazionale, forse proprio perché si tratta di uomini, chissà. Ma il dettaglio dei dati suggerisce l’ultimo e forse il più decisivo dei sebbene. Tra il 2015 e il 2019 il numero di uomini morti sul lavoro di età superiore ai 60 anni si aggira su una media di 220 all’anno. Un numero che rappresenta la bellezza del 20% sul totale degli uomini deceduti sul posto di lavoro. Gli stessi dati rilevati al femminile mostrano una differenza che in realtà è una voragine: le donne ultrasessantenni morte sul lavoro dal 2015 al 2019 sono state in media 16 all’anno. Per forza: le restanti erano già in pensione, loro hanno l’opzione… Mentre non è raro leggere sui giornali di operai 65enni costretti a trottare sulle impalcature di un cantiere o calati in qualche cisterna. È così che si arriva al totale di 1.108 lavoratori ultrasessantenni morti sul lavoro negli ultimi 5 anni, contro un totale femminile di 80.
Dunque non si sa che ragione ci fosse nel 2004 di dare l’ennesima corsia preferenziale alle donne, e sul lungo periodo, dati alla mano, appare ancora più ingiustificabile oggi che la “sperimentazione” di “Opzione donna” sia diventata un diritto acquisito, mentre in ogni parte d’Europa le età pensionabili di uomini e donne sono state parificate da tempo. Senza contare l’incoerenza di base con il dettato femminista che vorrebbe trascinare al lavoro tutte le donne abili: a fronte di quest’ansia, perché spedire a casa anticipatamente lavoratrici che potrebbero ancora dare molto, col rischio che il posto vacante sia poi occupato da uno stramaledetto maschio tossico? La verità sta nella ricerca del pieno privilegio, con una spinta furibonda delle donne verso il mercato del lavoro, a discapito di ogni parità, come prefigurato dal Recovery Plan del Governo, ma nel contempo la possibilità di uscire e farsi mantenere dal “sistema”, foraggiato dal prolungato sforzo maschile. Si piagnucola delle poche donne nel lavoro per farne entrare di più, ma il capriccio termina di colpo se si tratta di mandarle prima a riposo e lasciar sgobbare l’uomo per altri sei-sette anni. Ché magari ci lascia la pelle e ci si può godere una vecchiaia tranquilla ed emancipata con la sua reversibilità. Perché poi, alla fine, sono questi i provvedimenti tipici di un “sistema patriarcale”, giusto no?