C’è stato un momento, verso la fine degli anni ’90 del secolo scorso, negli Stati Uniti, in cui l’intero sistema della giustizia si è reso conto dell’esistenza di un problema molto grave: le false allegations, come le chiamano da quelle parti. Noi le chiamiamo “false accuse”. Quel fenomeno per cui un evento viene trasmesso alle autorità in modo molto più drammatizzato di quanto sia in realtà avvenuto, o addirittura quando viene inventato di sana pianta, allo scopo di installare un procedimento giudiziario contro qualcuno. Gli scopi reconditi possono essere tanti: la vendetta, il semplice dispetto e, quasi sistematicamente, l’espulsione dell’ex marito dall’ambiente familiare, in attesa di una separazione giudiziale che a quel punto avrà un esito scontato. Le false accuse dilagano anche a causa di alcune garanzie costituzionali: sporgere denuncia o querela non comporta costi e le autorità hanno l’obbligo di indagare. Questi aspetti, in aggiunta a una diffusa cultura di criminalizzazione dell’uomo, fa sì che moltissime denunce (in Italia circa 25 mila ogni anno) diventino procedimenti penali. Di esse, solo 5 mila circa esitano in condanna.
Dunque, limitatamente ai casi di “violenza contro le donne”, abbiamo oggi nel nostro paese circa il 90% delle denunce prive di fondamento, che come tali vengono archiviate o finiscono in assoluzione, con tutti i costi connessi legati alla macchina della giustizia e ai patrocini gratuiti (cioè pagati dallo Stato) per le presunte vittime. È soprattutto questo, non tanto aspetti legati alla giustizia, che ai tempi fece muovere gli Stati Uniti verso la ricerca di una soluzione a un problema che dalle loro parti era commisurato all’enormità di popolazione del loro territorio, se comparata a noi. Negli USA in particolare si registrarono una vera e propria montagna di false accuse sollevate durante le separazioni coniugali e aventi ad oggetto denunce di abusi sui minori, di solito i figli. Le cui dichiarazioni venivano usate come prove per condannare il padre di turno, sebbene messe agli atti dopo colloqui con domande induttive, approcci traumatizzanti, pratiche di cancellazione e riscrittura dei ricordi. Bibbiano, remember? Ecco, quella roba lì. Scattavano ricorsi e contro-ricorsi, le cose si ingarbugliavano, lo Stato Federale spendeva soldi per questioni che poi spesso, dopo la demolizione di una famiglia, risultavano manipolate.
Sarebbe una decisione giusta, saggia e utile.
La soluzione americana fu l’introduzione nella procedura penale dei taint hearing, letteralmente “l’ascolto delle contaminazioni”. Si tratta di una mozione che l’avvocato della difesa può avanzare prima che il processo cominci e che le prove vengano portate davanti alla giuria. In quella fase egli può “sfidare” (challenge) quanto è stato raccolto dall’accusa sotto il profilo dell’affidabilità. La dottrina giuridica americana distingue infatti tra “credibilità”, che implica la consapevolezza del testimone di ciò che è vero e ciò che è falso, e la “affidabilità” che implica l’incapacità del testimone di distinguere in modo chiaro e netto ciò che è vero da ciò che è falso. Un bambino che è stato interrogato in modo suggestivo potrebbe ad esempio non essere in grado di distinguere il ricordo di un evento reale da uno che gli è stato indotto o insegnato da chi lo interroga. Ciò lo rende un testimone non affidabile, dunque un rischio per la giustizia. Ecco che da allora, con il taint hearing, l’avvocato difensore può chiedere conto di come le testimonianze sono state raccolte, di sottoporre la metodologia a un esame specializzato terzo, il quale può invalidare la testimonianza, se raccolta in modo non affidabile.
Il taint hearing da allora ha funzionato molto bene, specie nell’ambito delle accuse di abusi sui minori: dalla sua introduzione le false allegations sono crollate a picco, così come i frequentissimi errori giudiziari. Si potrebbe introdurre nel nostro sistema di giustizia? Anzitutto cominciamo col dire che si dovrebbe: la quota di accuse false o strumentali nel nostro paese, come detto, pare a tutti gli effetti essere formidabile (giusto oggi si è superata la quota di una al giorno, contando solo quelle notiziate dai media…) e, quanto meno per desaturare i tribunali e risparmiare soldi pubblici, un intervento in questo senso sarebbe sacrosanto. Tecnicamente sarebbe possibile, acquisendo con chiarezza e in modo univoco quei pilastri del diritto via via sempre più dimenticati. Bazzecole come: “essere colpevoli fino a prova contraria“, con una definizione chiara e netta di cosa sia una “prova”. Fatto questo, permettere a un difensore di presentare una mozione come il taint hearing da applicare sui testimoni e sulle prove stesse consentirebbe di invalidare un gran numero di accuse campate in aria e di disincentivarne l’utilizzo. Decadrebbero così gli innumerevoli procedimenti imperniati non su prove concrete, ma sulle percezioni e sensazioni di una presunta vittima, quando non su semplici chiacchiere (come in questo caso, ad esempio, dove il PM dovrebbe essere rispedito alle scuole elementari). C’è da scommetterci: contro un’innovazione del genere si schiererebbero rabbiosamente le femministe. A riprova che sarebbe una decisione giusta, saggia e utile.