Siamo a Londra. Il Guy and Saint Thomas, uno dei maggiori ospedali della città, apre una ricerca di personale: serve un project manager che si occupi della gestione e sviluppo del sistema informatico. Un profilo alto, di grande responsabilità, per questo molto ben pagato. Normale dunque che all’annuncio rispondano in tanti, obbligando il nosocomio a una severa selezione. Nella ristretta rosa dei papabili, alla fine, risulta Neil McClements, uomo di 50 anni, laureato a Cambridge, con un’esperienza consolidata nel settore, più qualche ragazza di primissimo pelo, attorno ai vent’anni. Si procede con i colloqui e lì McClements fa la conoscenza della direttrice del dipartimento dove potrebbe andare a lavorare. Le cronache non ci restituiscono il nome, ma solo che si tratta di una rampante trentenne. Il colloquio va benone, Neil si presenta con un ottimo curriculum e un’evidente affidabilità personale: ha famiglia, una figlia, tutto regolare. Terminato il colloquio però si apre la porta per un mondo parallelo.
La boss lo prende da parte e gli fa una montagna di complimenti, si dice ammirata per le sue competenze, e già Neil si vede il posto di lavoro in tasca. Ma… c’è un ma. Sempre con grande disinvoltura la donna gli confessa che prenderlo in azienda creerebbe non pochi disagi, a lei e al resto dello staff. Neil non capisce: che disagio? «Avrei difficoltà a dare ordini a un uomo di cinquant’anni, per di più padre di una figlia», dice la manager. «Senza contare che lei sarebbe l’unico uomo in un team di sole donne di circa trent’anni», conclude. Il posto così non viene dato a Neil, ma a una giovane ragazza ventenne. Lui però non ci sta, denuncia l’ospedale per discriminazione di genere e un giudice britannico alla fine gli dà ragione. Con ciò Neil non riconquista il meritato posto di lavoro (nel Regno Unito non funziona così), ma solo un risarcimento in denaro, per altro abbastanza risibile: 8 mila euro. La storia però fa un po’ di scalpore, ne parlano molti media britannici e anche qualcuno in Italia, ma niente di che. Specie da noi, ci si affretta a dire che è un caso isolato e che la discriminazione delle donne sul lavoro è e rimane la vera emergenza.
A farne le spese è l’uomo.
Uniamo a quella di Neil ora un’altra vicenda, stavolta nostrana. Siamo in un contesto totalmente diverso da quello londinese: un paesino in provincia di Siracusa (non è dato sapere il nome). Lì un operaio di 35 anni si invaghisce di una bella ventenne e fa ciò che ogni uomo è uso fare quando si innamora: la corteggia. Le invia rose, la incontra in discoteca e le offre da bere, le manda frasi dolci e complimentose su Facebook. Il suo obiettivo era strappare un appuntamento vero, cominciare a conoscersi, capire se c’erano margini d’intesa. Non c’è notizia di atti di opposizione espliciti della ragazza, si sa solo che in discoteca ha rifiutato il drink offerto dall’uomo. Non pare l’abbia bloccato su Facebook o l’abbia evitato quando lo incontrava casualmente nelle poche strade del piccolo paese. Il punto di svolta è quando l’uomo fa la sciocchezza di andare a suonare a casa sua alle due di notte. Al citofono risponde il padre della giovane e lo manda al diavolo, ovviamente. Pochi giorni dopo scatta la denuncia.
Ora, che denuncia si potrebbe presentare in questo caso, restando rigorosamente attaccati ai fatti e al Codice Penale? La condotta dell’uomo ha un solo nome: molestie, Articolo 660 del Codice Penale. Un reato bagatellare: se condannati si paga una forte ammenda e finita lì. Ed è quello che oggettivamente l’uomo meritava, con i suoi scampanellii alle due di notte. Non per il resto, che era solo corteggiamento non esplicitamente respinto. Invece niente molestie: la denuncia, è ovvio, è stata per atti persecutori (stalking). La ragazza si è detta in ansia, ha autocertificato di aver cambiato abitudini di vita e di temere per la propria incolumità, probabilmente (anche se non necessario, per legge sarebbe bastata la sua parola) come prove ha portato i messaggi melensi dell’uomo su Facebook… e così ora l’operaio trentacinquenne è fritto. Lo attende un calvario di due o tre anni, se è fortunato, e poi una condanna o un proscioglimento a seconda del giudice che gli capiterà e dell’umore che il giudice stesso avrà il giorno della sentenza. Perché lo stalking è così: la denuncia parte “a sentimento” e allo stesso modo si elaborano le sentenze, al di là dei fatti, delle prove, dell’oggettività. Non solo: la vicenda dimostra che l’articolo 612 bis è un mostro dalle mille facce, che fa rientrare dalla finestra, iper-penalizzato, un reato come quello di molestie, già depenalizzato diversi anni fa. E a farne le spese sono uomini che non volevano fare e quasi sempre non hanno fatto alcun male, se non corteggiare la donna di cui si sono innamorati.
Le due vicende, pur così diverse per scenario e tipologia, sono emblematiche e fanno riferimento a uno dei temi portanti di questo sito e di quello che lo ha preceduto: la preoccupazione per l’avvenire che si profila con un oggi dominato da un’ideologia femminista apertamente orientata all’odio e alla colpevolizzazione dell’uomo stesso. Già in passato, richiamandoci agli scenari del nazismo, abbiamo associato la figura maschile odierna a quella del “giudeo” all’epoca del Terzo Reich. Tutti e due rappresentati come irredimibilmente colpevoli di qualcosa di grave, esseri inferiori da tenere il più lontano possibile dal consesso sociale, professionale e culturale, ove possibile da discriminare e perseguitare. Entrambe le vicende sono una finestra aperta sul futuro: oggi sono aneddoti che meritano un trafiletto su qualche giornale, domani (non dopodomani: domani) si tratterà di prassi talmente normalizzate da non fare nemmeno notizia. Sono i primissimi sintomi di una malattia sociale già individuata, anche se ancora non conclamata, alimentata a tutto spiano dalla cultura diffusa e dalle leggi. Il Recovery Plan di cui si è parlato lunedì, ad esempio, pone le basi perché vicende come quelle di Neil McClements diventino la norma, accompagnate da un doppio standard antimaschile nei tribunali ancora più marcato di quanto non si registri da almeno un paio di decenni. La domanda dunque resta la stessa di sempre: va davvero bene a tutti gli uomini e a tutte le donne per bene (che sono madri, sorelle, mogli…) che questo moderno nazismo morbido chiamato femminismo renda tutti gli uomini indiscriminatamente i nuovi “giudei” da perseguitare liberamente?