Il Recovery Fund è una cassaforte dell’Unione Europea che contiene molti miliardi di euro, pronti per essere versati agli stati che ne abbiano bisogno per politiche di sviluppo. Si tratta di risorse che vengono trasferite non tutte insieme, ma anno per anno, e non è un regalo, bensì un prestito, da restituire con gli interessi. Per ottenere tutti quei soldi, un Stato deve stendere un Recovery Plan, cioè un documento dove dichiara quale uso farà delle risorse, se l’Unione Europea gliele concederà. Il Governo italiano ha da poco approvato il suo Recovery Plan, scaricabile nella sua interezza da qui, e l’ha chiamato “#Next Generation Italia – Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, per gli amici PNRR. Dentro vi si trova di tutto, vuole davvero essere una sorta di piano di rilancio, declinato in sei missioni: 1. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture e trasporti; 4. Istruzione e ricerca; 5. Inclusione e coesione; 6. Salute. Dedicheremo al documento qualche osservazione generale nell’ultimo paragrafo di questo articolo. Per il momento ci interessa capire prima, nel dettaglio, come vengono trattate le questioni di cui si occupano queste pagine, ossia quelle legate alle relazioni uomini-donne, alla parità tra di essi e a tutto ciò che ne deriva.
La premessa non è delle migliori. Sono mesi che le portavoce del femminismo nazionale rilasciano dichiarazioni bellicose e fameliche e mettono le mani avanti per assicurare al loro settore una quota sostanziosa del Recovery Fund, dunque è il caso di andare a vedere se hanno ottenuto qualcosa e che cosa. D’istinto, guardando l’indice delle “missioni”, verrebbe da saltare direttamente a quella che si occupa del discorso donne e uomini, ossia il 5, dedicato a “inclusione e coesione”. Lì le aspettative vengono in parte tradite: chi, come noi, si attendeva una sbrodolata infinita di dati statistici farlocchi a giustificazione di miliardi di euro da trasferire alle lobby del femminismo, rischia di restare deluso. Stavolta il meccanismo è pensato in modo astuto, a strati. Le istanze infatti non vengono affermate da sole, ma associate ad altre due: la necessità di aumentare le prospettive occupazionali dei giovani e il riequilibrio del divario tra Nord e Sud Italia. Tutte e tre insieme vengono definite “aree deboli” e nell’esposizione sono quasi sempre menzionate assieme. Si crea così un mix di tematiche che però sono diverse per natura e origine: la disoccupazione giovanile e il divario Nord-Sud, infatti, derivano da questioni essenzialmente economiche, mentre la presunta penalizzazione e discriminazione delle donne avrebbe un’origine culturale e/o legislativa. Ma, come detto, non è un pasticcio fatto per caso, anzi si tratta di un’astuzia. Per paradosso: come potrei far digerire a tutti le istanze di coloro che sostengono la pratica del cannibalismo? Facile: li nobilito e li legittimo associandoli a coloro che si battono contro la fame nel mondo. Il meccanismo è identico ed è ben presente nella missione n.5.
Ettolitri d’acqua data a chi non ha sete.
Tra l’altro è l’unico capitolo in cui si menziona la “violenza sulle donne” (nominata solo un’altra volta, nell’introduzione), ma quasi en passant. I redattori del Piano probabilmente sanno che è un argomento debolissimo, e lo citano solo per giustificare l’utilizzo delle risorse a favore dell’imprenditoria femminile. Per il resto ci si concentra solo sul fatto che, a causa degli impegni domestici e materni, le donne non riescono ad affermarsi nel lavoro o a trovarne uno: il solito piagnisteo che dà per scontata implicitamente l’esistenza di una genia di uomini uguale a quella dell’era industriale, disinteressati all’ambiente domestico e dediti solo al lavoro. Sanno tutti perfettamente che non è più così da decenni, ma la perpetuazione dello stereotipo è necessaria per ottenere vantaggi. Dipanando la matassa della missione n.5 però questi vantaggi si riducono a un rafforzamento delle reti sociali di assistenza per le donne, dunque asili, tempo scuola e similari (di finanziare ampi congedi paritari per entrambi i genitori però non se ne parla…). Stando a questa lettura parziale, dunque, le femministe italiane avrebbero fallito: il Recovery Plan del Governo si occupa dei loro interessi con un po’ di soldi per l’imprenditoria femminile e per il miglioramento dei servizi che possano occuparsi della prole e stop. Ma è davvero così? Niente affatto. Diversamente dal solito è un grave errore leggere un documento del genere limitandosi al solo capitolo che si presume d’interesse. L’abbiamo detto: stavolta hanno lavorato di fino, solo i più attenti possono cogliere il perimetro della grande abbuffata che le “sorelle” si sono organizzate, a danno dei più elementari principi di giustizia e di parità. Il segreto, insomma, è di leggersi tutto il Recovery Plan.
Solo così si fa la scoperta più agghiacciante: ogni missione, nessuna esclusa, contiene in sé una declinazione delle tematiche sotto il profilo della lotta alla “discriminazione di genere”, intesa ovviamente in modo unilaterale come “contro le donne”. Ovvero è stato applicato al Recovery Plan il principio della trasversalità: quello dell’empowerment femminile e della lotta contro le discriminazioni è un tema che attraversa tutti i settori di intervento, non è una singola voce tra di essi. Così le istanze per l’affermazione unilaterale di privilegi permea interamente l’intero documento e sempre portandosi appresso la questione dell’occupazione giovanile e del Sud, per confondere le acque. Un doppio travestimento, un capolavoro di tattica. Dice il PNRR nell’introduzione: «Tali tre priorità trasversali non sono affidate a singoli interventi circoscritti in specifiche componenti, ma perseguite in tutte le missioni del PNRR». La necessità è raggiungere la piena emancipazione economica e sociale della donna con un processo di gender mainstreaming, attraverso vie preferenziali nell’occupazione, remunerazione e istruzione. Ovvero più posti di lavoro e meglio pagati per le donne, spingendole in massa ad occuparsi di STEM, il tutto per «liberare il potenziale delle donne». Ecco allora che spuntano milioni e milioni di euro da dedicare a facilitazioni per l’accesso alle università, alle posizioni dirigenziali (per quote rosa, non per merito) o per la vecchia e aberrante idea di detassare per due anni l’assunzione di donne, nonostante la loro propensione al lavoro sia infinitamente inferiore rispetto agli uomini. La famosa acqua data a ettolitri a chi non ha sete mentre altri muoiono con la gola riarsa, come abbiamo detto giorni fa.
Un’occasione per svincolarsi dalla gabbia dell’UE.
Il trucco, insomma, è venuto alla perfezione. Gli interessi delle lobby femministe sono ben camuffati, riescono a inquinare ogni parte del documento, senza che sia possibile riuscire a capire quanti soldi sono stati stanziati per le loro “cause”. Di fatto, se il Recovery Plan elaborato dal Governo verrà accettato dall’Unione Europea, sarà possibile ai diversi gruppi di potere in rosa attingere a qualunque capitolo di spesa, proprio in virtù della classificazione di “priorità trasversale” per le questioni femminili. Il PNRR è insomma un mega portafogli diviso in scomparti da cui gli interessi del femminismo potrà pizzicare risorse con ampiezza, libertà e legittimità. Tuttavia è corretto fare uno stress-test al nostro spirito critico e chiederci con sincerità se per caso gli interventi privilegiati previsti nel Recovery Plan non siano davvero necessari. Ebbene vi si parla di lotta alla “disuguaglianza di genere” intesa come sforzo per il il raggiungimento a favore delle donne di una «parità di opportunità e di diritti […] in diversi ambiti della vita economica e sociale». La domanda è: dove, come, in quali circostanze e in base a quali normative, quel tipo di parità non è garantita in Italia? Nei fatti, non nelle teorie strampalate pronunciate da questa o quella, quando e in che modo vengono negati alle donne diritti e opportunità di cui invece gli uomini godono? Sono escluse, nelle risposte possibili, quelle condizioni derivate da scelte individuali, ovviamente: siamo di fronte a un piano di revisione di sistema proposto dallo Stato, dunque le opzioni singole devono essere irrilevanti. La verità è che in Italia non esistono circostanze sistemiche che penalizzino un genere o l’altro. Dunque gli interventi a favore delle sole donne fatti a suon di miliardi e presenti ovunque nel Recovery Plan sono un sopruso, sono solo l’annuncio di un’orrida ingiustizia sociale che colpirà un solo sesso, quello maschile.
La domanda da farsi è: perché è così? Perché si punta a trasformare la discriminazione antimaschile in elemento di sistema? In fondo, si dirà, il problema delle donne al lavoro, così come della disoccupazione giovanile e dello sviluppo del Sud si risolve in un modo solo, valido per tutti: aumentare l’offerta di lavoro. Cosa (apparentemente) non facile. Ecco allora che si opta per una soluzione semplificata: lasciare intoccato l’iniquo sistema neoliberista attuale, creando corsie preferenziali per il genere che, con il suo 80% di influenza nelle decisioni sui consumi, pare più incline a sostenerlo, quello femminile. Ad esso si riservano i pochi posti di lavoro che restano, per lo meno quelli comodi o di alto livello, lasciando agli uomini il monopolio dei pochi lavori di fatica o di pericolo. A favorire questa scelta, lobby organizzate e in incessante lavorio fin dagli anni ’90 del secolo scorso. Il Recovery Plan si adegua a questa filosofia, che è parte integrante di una filosofia più ampia, risalente agli indirizzi politici dell’Unione Europea e agli obiettivi strategici dell’ONU. I destini futuri di una nazione, insomma, vengono decisi da entità sovranazionali non democratiche, che si assicurano l’obbedienza attraverso il meccanismo del prestito di denaro a strozzo, sia perché andrà restituito, sia perché verrà consegnato solo a condizioni stringenti. In questo senso il Recovery Plan è una iattura sotto diversi profili: è iniquo nelle sue politiche di genere ed è un atto di sottomissione alle moderne corti ottocentesche sovranazionali, che assumono anche il ruolo di usurai. A queste condizioni il Governo ipoteca il futuro del paese e dei nostri figli. Fortuna vuole che la crisi di Governo probabilmente indebolirà il percorso: ci sono molti passaggi complicati prima di poter presentare il PNRR a Bruxelles, cosa da farsi entro aprile. La speranza è che il governicchio che uscirà dalla crisi non ce la faccia, o presenti un piano inaccettabile per l’UE, che quindi sarà costretta a respingerlo. Qualcuno, nel caso, dirà che è l’inizio di un incubo. A ben vedere potrebbe invece essere l’occasione per svincolarsi dalla gabbia europea e dunque l’inizio di un sogno.