La Fionda

Lo stupro culturale del califfato femminista e queer

Il 12 marzo del 2001, qualcuno lo ricorderà, i talebani afgani fecero saltare in aria, sbriciolandole, due statue colossali di Buddha scolpite nella roccia tra il III e il V secolo nella valle di Bamiyan, in Afghanistan. Si trattava di una testimonianza culturale eccezionale e inestimabile dell’incontro fra tradizione artistica ellenistica e buddhista lungo l’antica “Via della seta”. Quanti di noi allora hanno provato un senso di rabbiosa impotenza verso tanta barbarie… quanti, a ripensare all’atto, possono provarla ancora oggi… È una rabbia sorda che ha due radici molto profonde: nel lutto per la perdita di un bene storico-artistico di enorme importanza, ma anche nella considerazione del movente che ha spinto alla distruzione delle statue: la stolida cecità dell’estremismo. Non c’è mai una buona ragione per distruggere monumenti così importanti, ma se si potesse fare una classifica delle cattive ragioni, quelle fondamentaliste o radicali legate a un’ideologia o a una religione sono in assoluto le meno valide. Ed è questo che mette ancora più rabbia.

Ma esiste un modo per rendere atti del genere accettabili, anzi “giusti”, agli occhi di tutti? Sì, assolutamente. Basta convincere che chi lo compie stia dalla parte del “bene”. I talebani non si sono mai preoccupati di apparire paladini del bene, dunque il disprezzo per il loro gesto si è innescato in modo naturale, ma se per anni avessero curato la propria immagine, tramite messaggi insistiti, ossessivi, campagne di marketing ben congegnate, magari orientate a farli apparire solo degli appassionati credenti mobilitati semplicemente per avere uno spazio dove esercitare la propria fede, in allora non li avremmo condannati in modo così totale per il loro sfregio sui Buddha di Bamiyan. Non siete convinti, vero? Si vede da come fate no con la testa. Eppure così è, così capita ormai da tempo, con iniziative non roboanti come la dinamite su alcune statue, ma che comunque ottengono lo stesso effetto: distruggere testimonianze culturali e opere d’ingegno scavate non nella pietra ma nella storia dell’uomo. Non la chiamano “distruzione”, ci mancherebbe, suonerebbe male. La chiamano “rilettura”. Vuoi mettere?

buddha bamiyan
La distruzione di un Buddha a Bamiyan.

I melomani stroncarono la “rilettura”.

Ci stiamo riferendo alla polemica scoppiata per le fiabe rilette in chiave femminista presentate nella trasmissione RAI “Oggi è un altro giorno” (robaccia di cui ci siamo occupati poco tempo fa). A conti fatti, per quanto si tratti di un genere importante, dove si sono toccati picchi di bellezza inarrivabili, le fiabe restano un bene di nicchia, da un lato. Dall’altro è certo che, nonostante l’inserzione pubblicitaria all’interno del programma RAI, quel libercolo che le stravolge sarà già tanto se venderà una decina di copie. Il punto è un altro, ed è l’effetto di sconsacrazione che il femminismo ottiene mettendo le sue manacce sporche su un genere considerato intoccabile, per la bellezza e il messaggio profondo delle fiabe e per il fatto che si tratta di letteratura destinata all’infanzia. È una sconsacrazione che sicuramente inocula bruttezza sul bello, cercando nel contempo di manipolare le coscienze dei bambini, tuttavia il suo fine ultimo è rompere un tabù, mostrarsi così audaci e rivoluzionarie, portatrici di una missione così superiore da poter impunemente sconsacrare un terreno considerato intangibile da chiunque. Nel farlo, il femminismo si copre di quella pelle d’agnello che i talebani non avevano: è un’iniziativa per rimuovere gli stereotipi e favorire la parità, dice. Ed ecco che tutti (quasi tutti) ingoiano tranquillamente la pozione avvelenata.

Ma non è soltanto il sacrario delle fiabe l’obiettivo della dinamite ideologica femminista, che tende ad agire a tutto campo, senza risparmiare nulla. Qualcuno ricorderà, ad esempio, la “rilettura” fatta due anni fa dell’opera lirica “Carmen”, il capolavoro assoluto del compositore francese Georges Bizet. Si tratta di musica “esatta”, scritta nota per nota, strumento per strumento, voce per voce, su un testo teatrale in poesia che si cristallizza sulle note. Nulla si può cambiare, si tratta di una creazione rocciosa, come le fiabe, come le statue di Bamiyan. Eppure al Maggio Fiorentino ritennero di stravolgere il finale, dove il protagonista maschile uccide per gelosia la protagonista femminile. Esatto, un “femminicidio” in piena regola, che Don José commette gridando il proprio amore frustrato e la propria disperazione, poco prima di venire arrestato. Il regista Leo Muscato, al Maggio Fiorentino, ribaltò la faccenda e mostrò al pubblico Carmen che uccide Don José, il quale muore cantando ai gendarmi: “potete arrestarmi, sono stato io a ucciderla” (!!!). Un nonsense, una violenza, dinamite su un monumento, che ovviamente non piacque per nulla a quel genere di persone, i melomani, non di rado (e giustamente) più estremisti dei talebani, che ovviamente stroncarono la “rilettura”.

Il finale della “Carmen” di Georges Bizet

Al di sotto c’è un estremismo distruttivo.

Notevole fu il fatto che il tenore oggi più famoso e apprezzato, Vittorio Grigolo, si sbilanciò nettamente sulla faccenda: «Io mi sarei rifiutato di cantare», disse. «Come si fa a ridurre il capolavoro di Bizet all’omicidio compiuto nei confronti di una donna? Chi vuole stravolgere il libretto e cambiare il finale, se è onesto, scriva un altro racconto, il suo, e metta in fila le note che più gli piacciono». Parole forti, controcorrente. Tanto da valergli, un anno dopo, una farlocca accusa di molestie che per poco non gli rovina la carriera. Ro$a No$tra non perdona, si sa. E non smette di distruggere statue ancora oggi, ancora nel sacrario della musica lirica, stavolta però andando a toccare un mostro sacro italiano: Giuseppe Verdi. Al Teatro Massimo di Palermo infatti è stata messa in scena una “Traviata”, forse la più popolare delle opere verdiane, con la seguente “rilettura”: Violetta (la protagonista) si innamora di un Alfredo che, nella rappresentazione, è una donna transgender. Alfredo è rappresentato pelato, vestito da donna, tutto di bianco, e mischia il falsetto (non previsto da Verdi) alle note basse. A posizionare la dinamite stavolta è Omer Meir Wellber, direttore del teatro. È lui ad aver fortemente voluto questa porcata assoluta, che la passerà liscia semplicemente perché i teatri sono chiusi e questa violenza all’arte è stata trasmessa soltanto in streaming a Capodanno. Niente fischi, dunque, ma sarebbe bello sapere quante visualizzazioni e quali commenti ha avuto questa bravata indegna.

Che non è tale perché si è inserito un trans nella storia. Sarebbe uguale se si fosse trattato di un alieno. È uguale già quando si cerca di “modernizzare” un’opera lirica modificandone scenario e costumi, moda che ha fatto apparire in scena delle Turandot vestite in tailleur o dei Don Giovanni armati di kalashnikov (sì, hanno fatto anche questo…). Lì si tratta però di violenze veniali, più o meno sopportabili perché non cambiano né la storia, né il testo, né la musica. Nel caso della Carmen e della Traviata, come delle fiabe per bambini e in tanti (troppi) altri casi, invece, si tratta di una vera e propria sconsacrazione, di uno stupro commesso scientemente da talebani travestiti da benefattori. È tutto fatto “per il bene”, contro gli stereotipi, per la parità, per l’inclusività, eccetera eccetera. Quello è il vello: al di sotto c’è un estremismo distruttivo, che opera esattamente come i fondamentalisti religiosi, senza TNT, ma con la sua “cancel culture” e le sue categorie indiscutibili, capaci di distinguere nettamente il bene (loro stessi) dal male (tutti gli altri). Un male cui non è permesso di esprimersi, a meno di non volersi beccare l’accusa di misoginia, omofobia eccetera. E che se si esprime va punito severamente. Per averne prova, citofonare Vittorio Grigolo.

“Libiamo”, uno dei brani più celebri de “La traviata” di Giuseppe Verdi.



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