Si ottiene più solidarietà essendo neri o essendo trans? Meglio essere donne lesbiche o immigrati musulmani? Vale di più essere portatori di una disabilità o appartenere a un’etnia diversa da quella caucasica? Nel momento in cui, come ci ha ormai inculcato il politicamente corretto, l’appartenenza a una minoranza garantisce attenzioni e privilegi, diventa fondamentale cercare di stabilire una qualche forma di gerarchia, altrimenti i cortocircuiti sono sempre in agguato, soprattutto se i “caratteri di specialità” si mescolano. È più meritevole di protezione particolare un trans di colore o un immigrato disabile? Una donna musulmana o un gay di origine ispanica? Sembra una sciocchezza, ma nel mondo di oggi se non ci si sa districare tra queste categorie si finisce in un attimo espulsi dal discorso pubblico, si rischia di perdere il lavoro e ci si ritrova in prima pagina con un’etichetta a scelta tra razzista, omofobo, transofobo, misogino e chi più ne ha più ne metta.
Di fatto, nessuno tra i portabandiera del politicamente corretto e della cancel culture è mai riuscito a dare chiare indicazioni in questo senso. Si va un po’ caso per caso, a seconda di quanto rumore i gruppi organizzati delle diverse minoranze riescano a fare. C’è solo una cosa che però unisce tutto “l’arco istituzionale” del politicamente corretto: l’individuazione del nemico, ossia il maschio bianco eterosessuale. Il che semplifica un po’ le cose, ma non poi così tanto. Che succede se si tratta di prendere posizione a favore di un maschio di colore e una donna bianca, dove il fattore orientamento non conta essendo entrambi eterosessuali? Cosa conta di più, il colore della pelle o il genere? Una bella lotta, un grande dilemma. Che però nei giorni scorsi ha trovato un chiarimento forse definitivo.
Ashli Babbitt crolla a terra, colpita al torace.
Facciamo un salto indietro nel tempo. Il 25 maggio scorso, durante un arresto di polizia a Minneapolis, viene ucciso George Perry Floyd, afroamericano. Era accusato da un negoziante di aver pagato delle sigarette con soldi falsi: la polizia è intervenuta e un agente, Derek Chauvin, ha immobilizzato l’uomo a terra tenendogli un ginocchio sul collo e soffocandolo. Non è morto in strada, Floyd: caricato in ambulanza ancora vivo, è spirato in ospedale. Non è chiaro dunque se la causa della morte siano state le brutali modalità dell’arresto o il mix di stupefacenti (Fentanil, metanfetamina, THC e morfina) che vennero trovate nel suo corpo in fase di autopsia, o tutte e due le cose assieme. Fatto sta che, com’è noto, la sua morte ha scatenato per mesi negli Stati Uniti un movimento chiamato Black Lives Matter (“le vite dei neri sono importanti”), davanti al quale tutto il mondo progressista e politically correct si è inginocchiato, sebbene i metodi di protesta e rivendicazione del neonato movimento si siano espressi di frequente con manifestazioni violente nelle città, distruzione e saccheggi.
Torniamo ora ai giorni nostri. Il Presidente degli Stati Uniti riunisce a Washington circa 200 mila persone, che pacificamente si ritrovano per ascoltarlo. Finito il discorso, la folla si porta davanti a Capitol Hill, il parlamento americano, per manifestare. Inspiegabilmente il servizio d’ordine lascia passare un gruppo di facinorosi, personaggi da circo, un mix di “nazisti dell’Illinois” e antifa infiltrati, che invadono la sede del Parlamento, facendosi selfie a tutto andare e postandoli sui social. Le altre centinaia di migliaia di manifestanti non entrano nel perimetro del Campidoglio, ma nel mucchio circense qualche manifestante normale e imprudente ci finisce. Tra queste c’è Ashli Elizabeth Babbitt, donna di 35 anni residente a San Diego. Nel parapiglia si ritrova davanti alla porta che conduce alla “Speakers lobby” insieme a un gruppo di scalmanati del tutto disarmati. Si palesa allora un agente della security interna, proprio mentre Ashli prova a entrare. Punta la pistola, fa qualche passo avanti, dalle immagini pare che prenda la mira, poi spara. Dall’altra parte della porta Ashli Babbitt crolla a terra, colpita al torace. Morirà in pochi minuti, soffocata dal suo sangue, circondata da manifestanti increduli e dagli SWAT nel frattempo intervenuti.
Il progressismo degli “Amen and Awomen”.
Sia Floyd che Babbitt sono morti in situazioni tese, dove erano coinvolte forze dell’ordine, in un caso impegnate in un arresto andato oltre il lecito, nell’altro in un’azione di difesa di un luogo istituzionale, anch’essa spinta oltre il lecito; l’uno sotto accusa per aver usato denaro falso, l’altra per aver fatto irruzione dove non avrebbe dovuto, essendo entrambi disarmati. Sono quindi faccende analoghe? Di fatto sì e sotto accusa ci sono i metodi utilizzati dalle forze dell’ordine, sicuramente eccessivi in entrambi i casi. Floyd non si reggeva in piedi durante l’arresto, probabilmente a causa delle droghe: non c’era alcuna necessità di piantargli il ginocchio in gola. La Babbitt, come gli altri, era disarmata, in bilico su un’apertura della porta a vetri, all’agente sarebbe bastato darle uno spintone per respingerla, o sparare in aria per avvertimento o puntare alle gambe. I manifestanti avrebbero capito subito che era il caso di allontanarsi. Eppure… eppure il caso di George Floyd ha generato genuflessioni, cenere cosparsa a quintali su milioni di teste e città messe a ferro e fuoco per mesi, mentre la morte di Ashli Babbitt (e, ricordiamolo, di altri tre manifestanti) non solo non ha generato alcun tipo di solidarietà, ma anzi i suoi profili social sono stati invasi da hater che l’hanno insultata post-mortem, mentre altrove, tipo in Italia, gli sciacalli del web l’hanno subito strumentalizzata per attaccare i propri avversari politici. E mentre il poliziotto che ha ucciso Floyd è stato licenziato e ora è sotto processo, chi ha freddato la Babbitt è sicuro che la passerà liscia (al momento non se ne sa neppure il nome).
Eppure Ashli Babbitt è donna. Fa parte di una di quelle intoccabili categorie protette. Sì, però è bianca. Non si può, nel suo caso, sostenere che sia stata uccisa “in quanto bianca”, logica che invece prevale nel caso di Floyd. Il poliziotto che l’ha ucciso, si dice, ha agito in modo così brutale perché intimamente razzista, con un bianco non l’avrebbe fatto. Teorie, si dirà, ipotesi campate in aria, ma così funziona il politically correct. Non manca in rete chi commenta le foto di Capitol Hill dicendo: “fossero stati neri li avrebbero fermati”. Un’idiozia colossale che solo il progressismo vittimista può partorire. Di fatto siamo all’apoteosi dell’ipocrisia: due casi analoghi, uno suscita indignazione, l’altro si chiude con un coro di “ben le sta” o di quel “se l’è cercata” usualmente impronunciabile se si parla di condotte femminili (che però in questo caso viene accettato), o peggio ancora di insulti e damnatio memoriae. Tutto molto assurdo, ma per lo meno dà un’indicazione chiara a chi voglia orientarsi nella follia ideologica imperante: le due vicende ci insegnano senza dubbio alcuno che essere di colore vale di più che essere donna, ovvero che il fattore etnico-razziale, nella scala dei valori psichiatrici del politicamente corretto, è sovraordinato al fattore di genere. E se Ashli Babbitt fosse stata nera, sarebbe cambiato qualcosa? Probabilmente avrebbe solo ricevuto meno insulti, perché questi giochetti grotteschi sulla labile psiche dell’opinione pubblica alla fine hanno una radice sola, che è politica. La vita di Ashli Babbitt non conta nulla perché era una supporter di Trump, quindi era segnata dal “marchio della bestia”, così come chiunque abbia un’opinione positiva sul presidente uscente degli Stati Uniti. Mentre la morte di Floyd porta acqua al mulino di quel progressismo degli “Amen and Awomen” con cui dovremo convivere adesso per quattro anni. Un segnale chiaro per tutti: c’è una parte giusta, unilateralmente dichiaratasi tale e come tale imposta al mondo, e una parte sbagliata. Se stai da quest’ultima, la tua vita non conta nulla.