A luglio la Senatrice Valeria Valente annunciava che in ottobre la sua Commissione sul Femminicidio avrebbe relazionato al Parlamento sul fenomeno della PAS nei tribunali, dopo aver sottoposto ad esame 572 fascicoli “dubbi”. E allora? Aspettavamo con viva curiosità che la Commissione presentasse la relazione in Parlamento della quale, però, ancora oggi non ce n’è traccia. La relazione era stata annunciata dalla Presidente Valeria Valente secondo cui «già il 90% delle Procure hanno risposto», il che presuppone che la fase organizzativa sia partita ben prima di dell’estate. La Presidente chiariva inoltre gli obiettivi della relazione, articolata in tre filoni: 1) specializzazione e competenza degli operatori del sistema giustizia sul tema della violenza, indagine rivolta a tribunali, procure ed ordini professionali; e – naturalmente – ripartizione per genere dell’organico. 2) Analisi dei fascicoli di separazione per vedere come sia stata trattata la violenza nei processi, quante volte venga utilizzato il termine “violenza”, quante volte il tema della violenza entri nella valutazione della responsabilità genitoriale, quante volte non venga riconosciuta, quante volte si parli di PAS e le conseguenze sull’ affido dei minori. 3) Audizioni e segnalazioni di donne, mamme, assistenti sociali, psicologhe.
Tutti filoni interessanti, sebbene viziati dal bias cognitivo tipico della Commissione: la violenza può essere concepita solo come agita dall’uomo e subita dalla donna, il fenomeno inverso non esiste e se esiste non deve essere valutato. La Senatrice teneva a precisare che «La Commissione non è un tribunale di seconda istanza, ha l’obiettivo di individuare criticità e vulnus lì dove esistono, nella maniera più oggettiva e seria possibile». Per individuare criticità nella maniera più oggettiva e seria possibile si avvale di un pool di esperte specchiatamente super partes, a cominciare da Linda Laura Sabbadini. Ma è ancora poco, servono nomi di comprovata esperienza women friendly, fedeli seguaci della maternal preference, figure di spicco del fronte no-pas, partono petizioni per arruolare figure amiche.
Una lettura squisitamente ideologica.
Il primo filone è stato facilitato dal Memorandum del quale ci siamo già occupati, documento che evidenzia come l’organico di chi si occupa di separazioni e affido minori sia composto in larghissima maggioranza da donne: nel novero complessivo di giudici, periti ed assistenti sociali la componente femminile supera l’80%. Il terzo filone riguarda le segnalazioni di madri (leggi: lamentele) e le audizioni di psicologhe ed assistenti sociali. Le madri che “segnalano” fanno capo prevalentemente se non esclusivamente ad associazioni costituite ad hoc che hanno slogan come femminicidio in vita, madri coraggio, madri vittime di violenza istituzionale. Il secondo filone l’abbiamo tenuto per ultimo in quanto è quello che ci incuriosisce maggiormente, poiché la Presidente della Commissione ha più volte sbandierato la propria crociata contro le separazioni che proprio non le piacciono, quelle in cui il comportamento della madre la rende inadeguata come genitore e spinge il tribunale ad adottare misure protettive per la prole. Senatrice Valente: «la settimana scorsa abbiamo individuato un campione di 572 fascicoli e andremo a visionarli uno ad uno». Bisogna passare al pettine fino i 572 fascicoli, vedere se viene citato l’odiato acronimo PAS, contare le volte in cui compare la parola “violenza” ma soprattutto vedere quante volte non venga riconosciuta.
I tribunali esistono proprio per verificare ciò che dichiarano le parti, valutarne la fondatezza, giudicare, emettere provvedimenti. È il loro lavoro, non dovrebbe sfuggire a persone anche non particolarmente acute. Però se una madre scrive parecchie volte “violenza” ma i tribunali giudicano l’accusa infondata, vuol dire che non l’hanno saputa o voluta riconoscere. L’assunto di partenza sarebbe quello secondo il quale basta dire di aver subito violenza per avere la certificazione che tale violenza sia avvenuta realmente. Una madre lo dice ed è vero per il solo fatto che lo abbia detto, un centro antiviolenza lo ribadisce basandosi esclusivamente sulle dichiarazioni dell’assistita oltre ogni tipo di verifica, quindi la violenza è fuori discussione, deve esserci stata. Appare una lettura squisitamente ideologica, quando invece l’ideologia dovrebbe restare fuori dalle aule giudiziarie. Peccato che nell’80% dei casi le accuse si rivelino infondate, a detta delle operatrici giudiziarie esclusivamente di genere femminile e la pericolosità delle false accuse strumentali venga rilevata anche dalla prof.ssa Anna Oliverio Ferraris, nota docente universitaria difficilmente classificabile come accanita maschilista talebana.
Paghi e basta, i figli sono roba mia.
Scrive repubblica.it: «Dopo le denunce delle donne accusate di “Sindrome di alienazione parentale” si attiva la commissione d’inchiesta sul feminicidio». La cosiddetta PAS ha ormai innescato un loop perverso: sembra la curiosa ossessione di chi si affanna a contestare l’esistenza di una sindrome che non esiste, di cui ormai parla solo chi la contesta per poter dire che non esiste. Non è una sindrome, la comunità scientifica l’ha sottolineato più volte. La soluzione è giuridica, non medica né tantomeno farmacologica, quindi è irrilevante che non compaia nei DSM. L’errore principale dei negazionisti, ma non l’unico, è contestare la denominazione del fenomeno e non il fenomeno stesso. Il mondo accademico concorda nel ritenere che non si tratti di un disturbo individuale a carico del figlio, ma di un fattore di rischio evolutivo per lo sviluppo psicologico e affettivo del minore. Scrivono i professionisti nel Memorandum: «E’ quindi ormai acclarato che la PAS sia meglio definita come un disturbo del comportamento relazionale e non come una sindrome. Il concetto di “sindrome” è dunque improprio, non trattandosi di una malattia ma di una disfunzione della relazione, che può danneggiare lo sviluppo dei figli costringendoli a parteggiare per qualcuno e a diventare inautentici attraverso un Io contraffatto da un genitore, il quale impone il proprio risentimento nei confronti dell’altro».
Tuttavia la denuncia di aver subito violenza sembra essere l’asse portante delle lamentele raccolte dalla Commissione Femminicidio, con l’insinuazione neanche tanto velata di un generalizzato complotto antimaterno: chi denuncia il marito violento subisce la ritorsione del sistema giudiziario patriarcale, che reagisce punendo la denunciante e togliendole i figli. Non ridete, è proprio questa la teoria delle madri vittime di violenza istituzionale. E accusano, fingendo di crederci, il sistema patriarcale che discriminerebbe le donne, di fronte ad una filiera composta da giudici prevalentemente donne, CTU prevalentemente donne e assistenti sociali quasi esclusivamente donne. Negare l’esistenza dell’alienazione parentale significa negare che esistano genitori capaci di influenzare negativamente il figlio ai danni dell’altro genitore. Voglio lavorare di fantasia ed invento un copione, fingendo che venga recitato spesso anche nella realtà: devo liberarmi di mia moglie, non mi interessa spedirla in galera perché mi fa comodo che continui a versarmi denaro, mi basta cacciarla da casa, tenermi i bambini e allontanarli da lei. Paghi e basta, i figli sono roba mia.
Bisogna anche dire che i bambini erano sempre presenti.
Invento allora violenze mai accadute e la denuncio per accedere ai benefit previsti per gli uomini vittime di violenza (vabbé, facciamo finta). Vado in un centro antiviolenza per soli uomini – ce ne sono a centinaia, tutti finanziati con fondi pubblici… – che appoggia acriticamente la mia narrazione senza cercare verifiche e senza avere mai visto la donna violenta, entro in tribunale col gratuito patrocinio a prescindere dal reddito e deposito la relazione del centro antiviolenza che – senza aggiungere una parola a ciò che ho già denunciato da solo – ha però l’effetto di avvalorare la mia menzogna: «è stato costretto a chiedere aiuto ad un centro antiviolenza» scrive il mio avvocato. Oltre al gratuito patrocinio mi spetta la vacanza per gli ospiti dei centri antiviolenza e tre mesi di aspettativa per gli uomini vittime di violenza, status che acquisisco automaticamente prima di qualsiasi fase istruttoria e prima ancora che a mia moglie sia arrivata notifica della denuncia.
Poi però in tribunale le accuse non reggono, non ci sono proprio gli estremi per procedere, allora mi oppongo all’archiviazione e nel frattempo invento altre accuse alzando l’asticella della violenza; il centro antiviolenza per soli uomini è notoriamente patriarcale quindi mi aiuta, mi consiglia, mi guida… il loro obiettivo non è la tutela dei diritti ma la distruzione dell’odiata donna, io ho ragione inquantouomo. Se riferisco violenze del mese scorso – mi dicono – mia moglie potrebbe trovare prove della sua innocenza: scontrini per dimostrare che era altrove, turni di lavoro, testimonianze di vicini, colleghe, amiche. Meglio diluire le violenze nel tempo, conviene dire che le subisco da 10 anni e riferire percosse, minacce, persecuzioni, umiliazioni continue. Così la incastro, col codice rosso basta la mia parola ma per lei è indimostrabile il contrario, non può documentare i suoi movimenti di tanti anni addietro né trovare testimoni, inoltre si aggiunge il reato di maltrattamenti per violenze e vessazioni prolungate nel tempo. Ah, devo anche dire che i bambini erano sempre presenti, hanno assistito alla violenza materna per anni, ora sono traumatizzati e ovviamente vanno malvolentieri dalla donna malvagia che li ha terrorizzati.
Posso sempre scatenare il vittimismo.
Non è vero, quindi per i bambini serve un aiutino, devo riuscire a renderli ostili alla madre e portarli dalla mia parte allora comincio a buttare lì una serie di frasi strategiche: «dopo tutto quello che mi ha fatto… dopo tutto quello che CI ha fatto… voi non potete ricordare, ma ha fatto cose terribili… anzi, ricordate le cose brutte che faceva, vero? Ricordate come vi faceva la doccia? Ricordate quanto urlava? Ricordate le punizioni? Ricordate quanto piangevo? Ricordate che avevamo tutti paura di lei? Ricordate che ci chiudevamo in camera per proteggerci?». La riscrittura dei ricordi è essenziale, mi dicono, ed anche molto semplice con bambini in tenera età; la gamma delle manipolazioni è infinita e porta sempre a «ma io non mi oppongo, andate pure dalla mamma, sarò preoccupatissimo per voi, starò male e soffrirò molto ma non importa, andate pure». Bingo! I miei figli si fidano del genitore col quale convivono, non hanno la malizia necessaria a capire che ne sto facendo uno strumento per nuocere alla madre. Alla fine mostreranno una certa ritrosia a frequentarla, non sapranno spiegare nei dettagli i motivi della loro ostilità che infatti è indotta, ma il mio disegno sarà compiuto. Non recido mai il cordone ombelicale paterno (è un copione paradossale, l’ho già detto) ed innesco un granitico conflitto di lealtà col genitore prevalente, cioè io. Fusionalità, dipendenza emotiva e tutto il repertorio di manipolazione conosciuto. Potrò dire che sono i bambini a rifiutare la madre, nascondendo il fatto di avere lavorato mesi per raggiungere tale risultato.
Quindi, ultimo step, posso sostenere in tribunale che all’inizio ero io a stimolarli per frequentare la madre, poi quando ho capito quanto quei poveri bambini fossero traumatizzati ho dovuto cambiare registro, ora devo proteggerli dal genitore che ha fatto loro del male. Col passare delle settimane mi sono autoconvinto di avere ragione e credo persino di essere in buona fede, pensa un po’! Ormai è diventata una missione: se la madre vuole vedere i figli dovrà passare sul mio corpo. Ma questo comportamento non esiste. La mia macchinazione però (talvolta, non sempre) può essere smascherata. Se dei professionisti appositamente formati capiscono che le dichiarazioni dei bambini non sono genuine, se il tribunale decide che sarebbe giusto proteggerli da un padre dannoso in quanto nega i loro diritti, posso sempre scatenare il vittimismo: il sistema giudiziario ce l’ha con me inquantouomo. Ok, era pura fantasia, questo copione in realtà non viene mai recitato.
Sarebbe interessante sapere alcune cose.
Tornando alle negazioniste dei comportamenti alienanti, sembra di ascoltare un disco rotto: la PAS non esiste, è scienza-spazzatura, #junkscience, Gardner aiutava i pedofili… poi quando tutto il mondo accademico disconosce l’alienazione come sindrome ma la riconosce come comportamento disfunzionale e lesivo dei diritti dei minori, le vittime di violenza istituzionale correggono il tiro: l’alienazione dei figli non esiste nemmeno come comportamento, il condizionamento dei figli non esiste, nessuna madre fa pressioni sui propri figli, ogni bambino che rifiuta il padre è abusato sessualmente, o vittima di violenza diretta, o vittima di violenza assistita. I consulenti non sanno fare il proprio lavoro, i servizi sociali non sanno fare il proprio lavoro, i giudici non sanno fare il proprio lavoro. Saper fare il proprio lavoro significherebbe, in sintesi, dare ragione a chi si lamenta di non averla avuta in tribunale e la cerca sui social o sotto l’ala protettrice di alcune parlamentari, come si è visto stamattina. Curioso anche il fatto che la dicitura violenza assistita venga usata come sinonimo di violenza fisica o verbale sulla madre alla quale assistono i figli, il fenomeno inverso non esiste, come se mai nessun bambino abbia visto la madre urlare, insultare il padre, tirargli oggetti, spaccare piatti, dare schiaffi, graffi, calci, gomitate, bastonate, forbiciate, persino coltellate.
Comunque, a prescindere da quale “verità” l’inchiesta volesse scoperchiare, il fatto concreto è che la relazione al Parlamento ancora non esiste. Ottobre niente. Novembre niente. Dicembre niente. Siamo arrivati al nuovo anno in attesa della famosa relazione della quale però ancora oggi ancora non c’è traccia. La cosa preoccupante è che sia sparita del tutto anche dai commenti, la Senatrice Valente è molto mediatica ed aggiorna continuamente elettori, elettrici e simpatizzanti sullo stato dell’arte di molteplici iniziative, dai vari stanziamenti women friendly alle proteste per sentenze non gradite. Però dell‘indagine annunciata non parla più da mesi. Si è solo arenata perché la Commissione aveva tanto altro da fare? I lavori proseguono e la relazione arriverà con qualche mese di ritardo? Non era possibile arrivare ai risultati sperati? I lavori sono naufragati e la relazione non arriverà mai? Sarebbe interessante sapere:
- se, in punto di Diritto, i tribunali hanno realmente compiuto lo scempio che avrebbe motivato la protesta delle donne vittime di violenza istituzionale, protesta dalla quale nasce l’interessamento della Commissione che risulta inedito per i compiti consueti della Commissione stessa;
- se l’esame dei 572 fascicoli abbia fatto emergere provvedimenti dettati dall’adesione acritica alle teorie di Gardner, oppure dal comportamento ostativo – quindi pregiudizievole per il minore – di chi ne viene penalizzato;
- se i 572 casi dimostrino un accanimento soggettivo, dettato quindi dai pregiudizi antimaterni di tutti gli operatori intervenuti, oppure mostrino provvedimenti scaturiti da elementi oggettivi valutati nelle fasi istruttorie;
- i curricola professionali dei giudici che hanno emesso i provvedimenti contenuti nei 572 fascicoli, per sapere se costantemente adottino provvedimenti discriminanti della figura materna o si tratti di un accanimento ad personam;
- come e quanto la violenza dichiarata in 572 casi si sia rivelata fondata al vaglio dei tribunali;
- quale esito abbiano avuto le denunce plurime presentate nei 572 casi, vale a dire quale sia il numero totale delle denunce, in quanti casi abbiano esitato in archiviazioni, in quanti in proscioglimento in istruttoria, in quanti in assoluzione, in quanti invece si siano conclusi con la condanna del reo;
- in quanti casi siano presenti nei fascicoli controdenunce per calunnia e/o richieste del pm di invio degli atti in Procura per verificare se sia configurabile la calunnia;
- se accade che una delle parti rifiuti di eseguire i provvedimenti stabiliti dalle sentenze, in quanti fascicoli compare tale comportamento ed in quanti casi accade più volte all’interno dello stesso fascicolo;
- se accade che una delle parti non riesca ad accettare le sentenze e reagisca a provvedimenti non graditi denunciando gli operatori giudiziari che li hanno determinati, in quanti fascicoli accada, con quale ricorsività all’interno dello stesso fascicolo;
- l’esito delle eventuali denunce nei confronti degli operatori;
- se le discriminazioni antimaterne, in sostanza, esistano come realtà consolidata nei nostri tribunali, o esistano solo nella percezione di chi si lamenta sostenendo di essere vittima di un accanimento giudiziario ai propri danni.
La relazione ancora non c’è.
Oltre ad esse, sarebbe interessante valutare il numero dei fascicoli esaminati e gli anni di durata dei casi, considerati un campione rappresentativo rispetto alle centinaia di migliaia (oltre 150.000 ogni anno) di fascicoli che riguardano separazioni, divorzi e cessazioni di convivenza dalle quali siano nati dei figli. Temo che l’Italia sia un Paese da sempre profondamente mammista e ancora orientato sulla maternal preference testualmente riconosciuta perfino dalla Cassazione. Anche dopo l’affido condiviso ed il principio della bigenitorialità, che arrabbiatissime parlamentari definiscono “maledetta” o “stramaledetta“. La stragrande maggioranza dei provvedimenti di separazione, divorzio e affido dei figli esita in misure che riconoscono la madre come figura prevalente, genitore affidatario in caso si affido esclusivo, collocatario in caso di affido condiviso. Le stesse corti che agirebbero violenza istituzionale, insomma, sono quelle che in larghissima prevalenza preferiscono la figura materna per i compiti di caregiver. Cosa è accaduto nella sparuta minoranza di quei 572 casi per costringere i tribunali a prendere decisioni contrarie all’orientamento giurisprudenziale prevalente? Avremmo tutti, uomini e donne, professionisti e dilettanti, parlamentari e comuni cittadini, potuto avere una serie di informazioni interessanti sulle quali ragionare. Ma la relazione ancora non c’è.