Nell’analizzare i femminicidi o presunti tali, anche per il 2020 riscontriamo gli stessi problemi degli anni precedenti: non esiste un criterio di rilevazione unico, non esiste un database ufficiale di fonte ministeriale, diverse voci ufficiose divulgano dati discordanti tra loro, la maggioranza delle fonti – anche autorevoli – che citano dati sul femminicidio non pubblicano i casi concreti ai quali tali dati farebbero riferimento. È quindi estremamente complessa, come sempre, un’analisi dettagliata. A ridosso del 25 novembre vengono solitamente pubblicati i report Eures, Polizia, Carabinieri ed altri ancora, sempre però con una casistica non verificabile, priva sia dei nominativi delle presunte vittime di femminicidio, sia dei link alle relative notizie di cronaca. Quindi si tratta sempre di dati non verificabili.
Tuttavia, come nelle occasioni precedenti, analizziamo gli elenchi pubblicati da femminicidioitalia.info e inquantodonna.it, due siti che i nominativi li pubblicano. Il primo dato che emerge è la già citata discordanza dei dati: 74 vittime in un elenco, 72 nell’altro. Alcuni casi poi compaiono in un elenco ma non nell’altro e viceversa, tanto che il computo dei due elenchi incrociati dà un totale di 85 episodi da gennaio a dicembre, giusto per comprendere la confusione che regna tra chi alimenta l’allarme femminicidio. Infine, prima di entrare nei dettagli, salta agli occhi la rilevanza numerica sensibilmente inferiore a quella propagandata come emergenza femminicidio. Negli anni i numeri sono cambiati (140/150 femminicidi nei dodici mesi) e anche gli slogan sono cambiati, passando da “un femminicidio ogni 36 ore” a “uno ogni due giorni”, poi “uno ogni tre giorni” e infine il trend propagandistico si è assestato su “un femminicidio ogni 72 ore”, allarme riportato ossessivamente nel 2019 per poi tornare ad “un femminicidio ogni due giorni durante il lockdown”.
Qui la tabella analitica sui “femminicidi” del 2020.
Un allarme fittizio viene costruito ed alimentato dalla teoria secondo la quale i femminicidi sarebbero in costante aumento da anni. Non è vero ma la narrazione omette sempre, va ricordato, di documentare i numeri della mattanza. Dall’analisi dei casi elencati come “femminicidi” emerge con preoccupante continuità l’errore di considerare un delitto di genere ciò che di genere non è. È importante analizzare nei dettagli tutti gli aspetti di un evento delittuoso, in quanto ciò che identifica un femminicidio e lo rende diverso dall’uccisione di una donna per qualsiasi altra ragione, è proprio il movente. Esclusivamente il movente. Nella tabella interattiva visualizzabile a questo link abbiamo analizzato caso per caso gli elenchi pubblicati, incrociando i nominativi presenti sui due diversi siti. La tabella riporta i singoli casi numerati progressivamente, con il nome della vittima, la data e il luogo del delitto, in quale elenco appare e un link alla notizia di riferimento. Dove indispensabile è inserito un commento, visualizzabile su pop up semplicemente cliccando.
L’allarme per la presunta emergenza femminicidio viene utilizzato per sostenere che l’Italia sarebbe un Paese inquinato dalla toxic masculinity, quindi intriso di sovrastrutture culturali maschiliste tali da portare gli uomini italiani a considerare la donna una proprietà esclusiva, della quale disporre a piacimento anche togliendole la vita. Per cui, a conclusione della teoria “emergenza femminicidio”, gli uomini italiani andrebbero rieducati. L’elemento dell’oppressione maschilista deve comparire come movente di ogni “donna uccisa inquantodonna”, che è lo slogan all’origine della corrente di pensiero che ha lanciato il termine femminicidio, inesistente sia come fattispecie autonoma di reato che come circostanza aggravante, ma entrato a far parte del lessico comune, soprattutto mediatico, grazie alla incessante campagna di vittimizzazione. I dati reali dicono tutt’altro, vediamoli in sintesi, traendoli dalla classificazione che abbiamo fatto.
L’Italia sarebbe un Paese patriarcale.
In totale i casi risultano 86, la maggior parte dei quali sono presenti in entrambi gli elenchi femminicidioitalia o inquantodonna, mentre alcuni compaiono solo in uno dei due. Sugli 86 casi si contano 2 omicidi preterintenzionali e 15 omicidi commessi da stranieri originari di: Marocco (4), Romania (3), Serbia, Bangladesh, Ucraina, Albania, Pakistan, Danimarca, Tunisia, Ghana. I femminicidi “propriamente detti”, definizione della Polizia di Stato per distinguere le donne uccise con movente passionale o di genere dalle donne uccise per qualsiasi altro motivo, sono in tutto 44. Gli altri 42 casi non possono essere definiti femminicidi, perché non hanno nulla a che vedere con la gelosia morbosa, il possesso, la mancata accettazione di un rifiuto, il patriarcato, l’uccisione in quanto donna, bensì con altri moventi, evidenziati nei commenti in pop-up che trovate sulla tabella. Sul piano statistico vale poi la pena rilevare che tra i “non-femminicidi” si trovano: 1 caso in cui l’assassino è donna; 9 casi in cui il movente è economico, 11 delitti tra anziani, con vittima gravemente malata, casi di solitudine e disperazione; 15 casi in cui l’assassino è un non italiano; 3 madri uccise dal figlio in genere con gravi problemi psichiatrici; 13 casi di depressione, tossicodipendenza o disturbo mentale conclamato dell’assassino, in cura presso diversi centri di igiene mentale o anche con TSO richiesti ma non eseguiti.
I delitti fra anziani si trovano tra i femminicidi ad ogni verifica. Episodi in cui il marito 80enne uccide la moglie malata terminale per non farla più soffrire e poi si toglie la vita o tenta di farlo. Delitti unanimemente definiti della disperazione, della pietas, della solitudine, della depressione e della sofferenza. Si registrano casi in cui la decisione di farla finita è di entrambi, casi in cui lasciano scritto di essere sepolti insieme, casi in cui dicono di non voler essere più un peso per i figli, ma che vengono comunque spacciati per delitti dell’oppressione di genere, del patriarcato, del maschilismo tossico, etc. In un caso il genitore 74enne malato terminale si suicida insieme alla figlia disabile, che non poteva lasciare sola dopo la sua morte. Però è conteggiato come femminicidio. Occorre poi una ricorrente precisazione, che compare ad ogni analisi dei dati sul femminicidio: lo scorporo dei delitti compiuti da cittadini stranieri. Non è una diminutio della gravità del gesto, né tantomeno una sottovalutazione della vita di una donna ucraina o tunisina rispetto alla vita di una donna italiana. Ciò che va rilevato è che i delitti maturati in contesti socioculturali estremamente diversi da quello italiano vengono utilizzati per sostenere che l’Italia sarebbe un Paese patriarcale, oppressivo, maschilista e saturo di sovrastrutture culturali misogine, un Paese che dovrebbe essere bonificato rieducando gli uomini italiani. Tutti, non il criminale che uccide una donna. Quindi quando il marito pakistano uccide la moglie o il padre bengalese uccide la figlia, le notizie vengono inserite nel conteggio per sostenere che andrebbero rieducati il Carabiniere casertano che li arresta, il PM fiorentino che li incrimina e il Giudice bolognese che li condanna.
Un Paese che odia le donne…
La strumentalizzazione dei delitti compiuti da cittadini stranieri emerge anche dall’ultimo triste episodio del 2020, la morte di Agitu Ideo Gudeta, esule etiope divenuta piccola imprenditrice di successo in Italia. I social si riempiono di condanne per la società italiana, i media insistono nel citare una denuncia del 2018 sporta dalla donna contro un 50enne italiano per stalking, lesioni e minacce a sfondo razzista. “Una vittima di discriminazione razziale e stalking”, testuale. Salvo poi dover riconoscere che si trattava di una lite come tante tra vicini, l’uomo era stato condannato per essere venuto alle mani con un dipendente di Agita originario del Mali, non con Agita stessa, e assolto sia dal reato di stalking che dall’aggravante razzista. Però come capita spesso gli accertamenti giudiziari non hanno peso, ciò che conta è solo scrivere che era stata presentata denuncia per reati che automaticamente diventano acclarati, certi ed indiscutibili a prescindere dalle istruttorie dei magistrati inquirenti. C’è persino chi ha scritto che nel condannare il 50enne per il diverbio col casaro maliano i giudici lo avevano assolto dallo stalking verso Agita poiché il reato era “caduto nel dimenticatoio”, testuale.
Quindi una distrazione, una svista, non l’accertamento in sede giudiziaria dell’insussistenza delle accuse. Le accuse sono fondate per il solo fatto di essere state formulate, se non arriva la condanna la colpa è per forza dei giudici che non hanno capito niente, o si sono dimenticati, o hanno valutato male, o forse sono più razzisti del razzista che dovevano obbligatoriamente giudicare colpevole. Ecco che la persona condannata nel 2018 per una lite col dipendente diventa il principale indiziato per l’omicidio due anni dopo della datrice di lavoro. Indiziato per gli inquirenti ma soprattutto per i media ed i social, che hanno già trovato il colpevole. Femminicidio, bisogna rieducare gli uomini italiani. Poi confessa l’assassino ma non è il 50enne di cui sopra e non è nemmeno italiano, inoltre il movente è economico: l’aggressione nasce per rivendicare uno stipendio non pagato. Ma non cambia nulla, i pregiudizi ideologici sono profondamente radicati, lo stigma sul carattere ossessivamente nazionale dell’oppressione di genere è inamovibile. Gli italiani devono essere rieducati perché il nostro è proprio un Paese che odia le donne (un esempio tra i tanti, questo commento trovato sul web).
Anche una sola vita persa a causa della gelosia morbosa è intollerabile.
Sorprendente è poi la forzatura operata sistematicamente quando dallo stesso episodio scaturiscono vittime ambosessi. Tale forzatura si verifica in 5 episodi del 2020: l’assassino è lo stesso, il movente è lo stesso, l’arma è la stessa, è lo stesso anche il contesto familiare nel quale il dramma matura, però la motivazione del dramma si sdoppia in base al genere delle vittime: gli uomini possono essere uccisi per motivi economici, per un disturbo mentale dell’assassino, per un delirante desiderio di rimanere uniti ai figli anche oltre la morte… per le donne invece la pulsione omicida prescinde dai fatti ed è sempre l’uccisione inquantodonna. Il padre assassino uccide il figlio perché lo ama di un amore insano e vuole portarlo con sé, invece uccide la figlia perché odia le donne. In conclusione ripetiamo lo stesso principio espresso negli anni precedenti: il lavoro di approfondimento non significa negare gli omicidi di donne definiti “femminicidi” dalle forze dell’ordine, ma stornare i falsi femminicidi, le letture ideologiche, le forzature, le strumentalizzazioni, il che è cosa molto diversa. Anche una sola vita persa a causa della gelosia morbosa è intollerabile, ma dobbiamo chiederci per quale motivo nel calderone del femminicidio finisca di tutto ed i casi reali vengano raddoppiati.