Ne dà notizia il sito stesso della Regione Lazio: nel bilancio previsionale 2021-2023 il Consiglio Regionale ha deliberato praticamente un raddoppio delle risorse destinate alle cosiddette “Pari Opportunità”: più di 2 milioni e 700 mila euro di denaro pubblico verranno destinati a preziose iniziative e irrinunciabili strutture concepite apposta per promuovere la parità, dunque per favorire sia gli uomini che le donne laddove risultino svantaggiati e penalizzati… Seh, piacerebbe. Naturalmente si tratta delle “Pari Opportunità” intese alla femminista, un’ideologia che il governatore Zingaretti ha stretto in un abbraccio mortale (non per lui, ma per tutti i laziali) da parecchio tempo. Vale la pena dare un’occhiata alle iniziative cui verrà destinata questa montagna di soldi, visto che la Regione Lazio non solo non ne fa mistero, ma anzi lo esibisce con un certo orgoglio.
La prima destinazione di quel fiume di soldi saranno ovviamente i centri antiviolenza e le case rifugio. Gli stessi che sono stati destinatari nel marzo scorso, in piena pandemia, dei 30 milioni sbloccati dal Ministro per la Famiglia Elena Bonetti. Dunque il denaro della Regione va in surplus, per alimentare il vorace mercato delle clientele femministe, dei posti di lavoro nullafacenti con stipendio annesso (“ma sono tutte volontarieeee!!!”) e dei trampolini politici rappresentati da quello sproposito che sono i 27 (ventisette!!!) centri antiviolenza e 12 (dodici!!!) case rifugio nel Lazio. Che non bastano ancora. Ecco allora che “molte altre strutture sono state programmate e diventeranno operative nel corso del prossimo anno”, annuncia orgogliosa la Regione. Evidentemente a Roma e dintorni c’è una particolare concentrazione di uomini bruti e violenti. Il che contrasta molto aspramente con le statistiche ufficiali del Ministero della Giustizia, riportate dall’ISTAT, che registrano una media di 54 condannati all’anno (uomini e donne assieme, il dato non è disponibile scorporato per sesso) per reati tipicamente contro le donne (clicca l’immagine sottostante per ingrandire). O quei pochissimi uomini violenti in Lazio sono particolarmente attivi e maltrattano venti-trenta donne al giorno, o qualcosa non torna.
Giusto per far capire a chi davvero appartiene l’istituzione.
Che qualcosa non torni è piuttosto evidente. Non a caso parliamo ormai liberamente di clientelismo, posizioni di potere, corruttele, Antiviolenza Srl e di quella “Femministopoli” di cui prima o poi qualche magistrato si accorgerà. Ma andiamo a vedere anche le altre destinazioni dei soldi dei cittadini laziali, che finanzieranno anche le idee imprenditoriali di “donne in fuoriuscita dalla violenza”. Ad accertare questo loro status non sarà, è ovvio, una sentenza anche solo di primo grado, ma il mero fatto che come tali vengano indicate dai centri antiviolenza. Una fanciulla che volesse aprirsi un negozio di chincaglierie e per la sua scadente idea d’impresa non trovasse crediti nelle banche, potrebbe inventarsi di essere vittima motu proprio o, perché no, in combutta con qualche centro antiviolenza, in cambio di qualche soldino dato sottobanco. Tanto, si sa, i centri antiviolenza, in quanto associazioni, sono esentati da qualunque tipo di controllo, dunque non c’è problema. Se non fosse che a perdere il lavoro, e spesso a suicidarsi per questo, siano nella stragrande maggioranza dei casi uomini, che sul territorio nazionale non trovano sostegno alcuno, proprio in quanto uomini.
Non può mancare nel programma regionale una linea di finanziamento orientata all’indottrnamento e alla manipolazione delle coscienze dei più giovani. Il femminismo d’affari sa il fatto suo, è conscio che per poter prosperare a lungo ha bisogno di un’ampia adesione sociale. Cosa c’è di meglio che ficcare in testa alle giovani generazioni i germi del dogmatismo per garantirsi un business durevole? Ecco allora che si finanzia un progetto da Grande Fratello per gli studenti delle scuole superiori, strumentalizzando (per rendere il tutto digeribile) una figura monumentale della politica italiana, quella Nilde Jotti che se fosse ancora viva e vedesse cosa combinano i suoi pronipoti con i soldi pubblici (e col suo nome), è certo che gli pianterebbe falce e martello nel cranio. Chiude la programmazione l’immancabile finanziamento per le “panchine rosse”, una delle quali verrà collocata davanti alla sede della Regione Lazio, giusto per far capire a chi davvero appartiene l’istituzione. Il tutto specificando che si tratta di simboli della violenza “maschile” sulle donne. L’unica che si vuol far credere esistente, l’unica che conta davvero, anche contro la logica e contro i numeri reali.
Datevi una risposta, salvatela in memoria e recuperatela prossima volta che votate.
Non va dimenticato, in quest’ottica, che sempre nel Lazio ha sede quella Casa delle Donne che si è ritenuta in diritto per anni di non pagare al Comune di Roma l’affitto dovuto per la propria sede di lusso. Perché abbassarsi al vil denaro, questo il loro ragionamento, mentre ci si occupa di cose più alte e più grandi quali la parità di genere, ovvero l’annientamento dell’uomo e l’ottenimento di privilegi per le donne? Sono andate avanti così per anni, fino a totalizzare milioni di euro di debito, prima tagliato per volontà di Zingaretti alla somma di un milione di euro, infine appianato, dopo diversi tentativi sottobanco, dal Parlamento, con una legge apposita. Soldi pubblici, tasse dei cittadini, per appianare i debiti privati di una singola associazione. Una roba da far accapponare la pelle a chiunque abbia un minimo rispetto per la giustizia e la democrazia, da Nilde Jotti in giù. Eppure è stato fatto, senza colpo ferire, portando il Lazio a essere a tutti gli effetti, insieme ad alcune altre regioni (Trentino Alto-Adige e Sardegna) un vero e proprio paese di Bengodi per l’opulenta e sempre vorace industria dell’antiviolenza e per le sue azioniste del femminismo nazionale.
Privilegi, prebende, giri di soldi, posti di lavoro, clientele, titoli e potere ottenuti e alimentati due volte contro l’interesse pubblico. Non solo per l’utilizzo del denaro di tutti, raccolto attraverso tasse e imposte, ma anche per le deviazioni che a tale denaro vengono imposte nella definizione delle priorità. Ce lo siamo chiesto, chiedendolo direttamente ai cittadini laziali, proprio di recente: come va la sanità da voi? Sì, proprio quella materia di competenza pressoché esclusiva della Regione… Quanti morti per covid ci sono state nelle poche strutture ospedaliere rimaste aperte dopo il passaggio della falciatrice di Zingaretti? Chi è ricoverato che servizi sta ottenendo? Quali sono i tempi di attesa in Lazio per una risonanza magnetica o una TAC? Quali i costi della diagnostica da un privato, se il pubblico non è disponibile o lo è a un’eccessiva distanza di tempo? Ebbene, se le risposte a queste domande sono quelle che supponiamo, e che molti laziali ci confermano, non resta che chiedersi quanto si potrebbe migliorare il servizio sanitario laziale con la quota parte dei 30 milioni della Bonetti e con i due milioni e passa di Zingaretti, destinati a soggetti che, in totale mancanza di trasparenza, si occupano di un problema che sorge in media 54 volte l’anno. Datevi una risposta, salvatela in memoria e recuperatela prossima volta che votate.