In uno scenario da film dell’orrore, un uomo, Alessandro Pontin (49 anni), uccide i figli Francesca e Pietro (15 e 13 anni) accoltellandoli alla gola, per poi togliersi la vita con lo stesso coltello, recidendosi carotide e giugulare. Accade a Trebaseleghe, in provincia di Padova, e il delitto lascia attoniti per le sue modalità. Pontin era separato dalla moglie da undici anni, aveva una nuova compagna e un traballante lavoro da palchettista. Come ogni uomo italiano separato, aveva scarso accesso alla frequentazione dei due figli e un giudice gli aveva sobbarcato una certa cifra per il mantenimento da versare all’ex moglie. Il movente del suo gesto appare nebuloso perché dopo undici anni anche le separazioni più conflittuali trovano una forma di pacificazione, quanto meno per sfinimento. Eppure l’ex moglie non ha dubbi: “l’ha fatto per ferire me”.
Dagospia riporta le sue dichiarazioni, che lasciano attoniti. La signora parla di un morto, uno che non può più ribattere alle accuse, e dice che era un uomo violento. Non in generale, solo con lei, infatti è l’unica a sostenerlo. Dice di aver chiesto aiuto per le violenze, ma di non averne ricevuto. In un’Italia dove sono quasi più i centri antiviolenza che gli ospedali, anche questo lascia piuttosto interdetti. Infine si lamenta dei soldi che Pontin non le passava: l’uomo era discontinuo, così come il suo lavoro. Dava quando poteva, finché lei non ha messo di mezzo un giudice. Pontin allora ha chiuso tutte le pendenze, probabilmente indebitandosi con chiunque e chissà con quali prospettive per il futuro. Infine ci sono le frasi della nuova compagna di Pontin, riportate dalla ex moglie: “mi ha detto che è un padre perfetto e che io sono una brutta persona. Diceva che con la querela lo volevo soltanto incastrare”. Pur reperendo la foto della nuova compagna di Pontin, Dagospia non ritiene opportuno sentire anche l’altra campana, l’ex compagna stessa. Peccato davvero.
È tutto rumore che copre l’evidenza.
Pochi giorni dopo, oggi, a Torino un uomo di 53 anni si spara mentre è in videochiamata con la figlia di sei anni. Di lui si sa poco, al momento. Solo la sua età, che aveva perso il lavoro, che tirava a campare facendo il bibliotecario e che aveva problemi di salute. I media mettono soprattutto in evidenza che in estate era stato denunciato per maltrattamenti dalla moglie. Era scattato il “Codice Rosso” e la donna con i tre figli era stata portata in una residenza protetta. Sul tavolo dove è stato trovato morto, l’uomo ha lasciato un biglietto di cui non si hanno (e non si avranno mai) dettagli. Si sa solo che nelle sue ultime righe ha incolpato la moglie di quanto accaduto.
Per entrambi questi tragici eventi la spiegazione di media e commentatori è unanime: questi due mostri hanno agito “per fare dispetto alle ex mogli”. Il livello di profondità per trovare una ragione a gesti così terribili ed estremi è questo, oltre non si va. E se ci si va, ci si spinge al mero sciacallaggio ideologico, come quelle commentatrici che attribuiscono il gesto di Pontin all’influenza nefasta delle pagine Facebook “misogine”, e quello dell’uomo di Torino a un semplice impulso d’odio verso le donne. Si tratta di commentatrici che in passato si sono distinte per commenti di vero e proprio odio antimaschile o per spregevoli volgarità nei confronti dei padri separati, eppure si tratta di soggetti che fanno opinione, per lo meno presso i minorati del web. Basta leggere i commenti più diffusi sotto le due notizie nei vari social network per averne conferma. Che siano giornalisti la cui penna è guidata da ordini dall’alto o commentatori e commentatrici malati di ideologie malsane e interessi connessi, in ogni caso è tutto rumore che copre quella che appare di un’evidenza lampante in entrambi i recenti casi di cronaca.
Non c’è giustificazione, ma una spiegazione sì.
Il caso di Trebaseleghe è ben spiegato dal profluvio di colpe che la ex moglie scarica sull’ex marito, che ora non può più dir nulla. Uno sfogo che contiene incongruenze evidenti per chi ha un minimo di spirito d’osservazione. Viste da un’angolazione diversa da quella presa subito dai media, le sue parole sanno di alibi e autoassoluzione, sembrano gridare un rimorso più che un atto d’accusa, denotano l’ansia di scaricare ogni scampolo di responsabilità propria per metterlo sulle spalle di un uomo che probabilmente ha perso il lume della ragione perché si è sentito messo all’angolo, senza via d’uscita. Con buona probabilità Pontin non era affatto un violento, né un padre disinteressato, né un insolvente per volontà dell’assegno di mantenimento. Era un uomo messo all’angolo, probabilmente indebitato fino al collo per pagare quel mantenimento che per legge dovrebbe essere paritario, con un lavoro incerto, umiliato per il presente e per il futuro, senza via d’uscita. Togli a una persona una giustizia equa, umiliala senza pietà, toglile ogni possibilità di uscire dalle difficoltà e probabilmente la vedrai perdere il controllo. Questo secondo noi ha portato Pontin al suo gesto terrificante, non la volontà di “fare un dispetto” alla ex moglie o l’odio per le donne. È questa una giustificazione del suo atto, stiamo forse dicendo che ha fatto bene ad scannare i figli e poi se stesso? NO. Ovvio, no. Stiamo spiegando perché secondo noi l’ha fatto. Se una persona ruba una mela per fame, si dice che ha rubato per fame, ma la si condanna ugualmente per furto.
Non è diversa la vicenda dell’uomo suicida di Torino. In poco tempo perde il lavoro, che per un uomo è praticamente tutto, e si ammala. Lo scenario è noto e frequente: di fronte a un compagno diventato improvvisamente “inutile”, anzi un peso, la tensione in famiglia sale. In quelle condizioni servirebbero aiuti economici e psicologici, che però sono riservati solo alle donne o ai centri antiviolenza. Assistenza per uomini alla disperazione non ce n’è. Per loro c’è il “Codice Rosso”, che scatta come una tagliola, probabilmente dopo l’ennesima lite: ecco servita allora una nuova ospite per una casa famiglia (con business annesso) per un’accusa ancora non comprovata. I media non dicono se il rapidissimo “Codice Rosso” avesse accertato o meno, come avrebbe dovuto, la presenza di maltrattamenti, ma parrebbe di no, visto che (al momento) non c’è notizia di procedimenti in atto. Di fatto l’uomo, umiliato e malato, viene lasciato da solo e messo sotto accusa, privato della sua realtà, a partire dai figli. Ancora un uomo messo all’angolo, privato di tutto. Ed ecco spiegata anche la seconda vicenda: nessun “dispetto”, nessun “odio”, solo una mente portata a scollegarsi dalla realtà da condizioni ingiuste e intollerabili. Ha fatto bene a suicidarsi davanti alla figlia di sei anni, è stato un atto giusto? No, assolutamente. Non c’è giustificazione per ciò che ha fatto. Ma la spiegazione, secondo noi, è quella che abbiamo dato. Se una persona ruba una mela per fame, si dice che ha rubato per fame, ma la si condanna ugualmente per furto.
Continueremo a voler capire.
Cosa resta di tutto questo? Una realtà che fa vittime primarie e secondarie, uomini le prime, i figli le seconde. Colpevolezza indiscutibile di chi compie determinati gesti, che però hanno un’origine e cause ben più profonde delle spiegazioni prêt-à-porter date dai media e da maligne opinion makers. C’è poi una tendenza nuova quella del guilty-victim-blaming verso gli uomini, dove il colpevole di un atto, che è tale perché vittima anche di un sistema e di responsabilità terze, viene caricato di ogni colpa possibile anche dopo morto, sia perché non può rispondere, sia perché fa comodo così. E fa comodo soprattutto a chi ha compartecipato in qualche misura a creare le condizioni perché determinate tragedie avessero luogo. Parliamo della sacrificabilità maschile data sempre e comunque per scontata. Parliamo di leggi e giudici che penalizzano sistematicamente il lato maschile nelle separazioni, allontanando figli e stabilendo mantenimenti anche quando non ci sono condizioni materiali per onorarli, sebbene esista una legge che imporrebbe equilibri diversi. Ma parliamo anche di donne che si sentono legittimate dal sistema a fare qualunque cosa ai propri ex, come se si trattasse di uomini d’acciaio capaci di sopportare qualunque carico emotivo o economico. Quando poi quel carico diventa insopportabile e accade l’irreparabile, corrono a liberarsi la coscienza da ogni responsabilità con il primo giornalista che gli capita a tiro, accompagnate dalla standing ovation di tutto il sistema mediatico. Invece noi siamo qui a dire che la realtà è multiforme e complessa, ogni effetto ha origine in una molteplicità di cause e responsabilità. Sarà impopolare, potrà non piacere, ma noi continueremo a voler capire quelle cause e a chiedere che si faccia il possibile affinché non si ripetano più.